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Dall'asilo al lavoro: rimandati con debito
Quale relazione c'è tra i percorsi di educazione e produttività nel mercato del lavoro? E come impattano sulla produttività le trasformazioni dell'Università?
In una famosa ricerca ad opera di un giovane economista e futuro premio Nobel [1] si discuteva di come il livello di educazione raggiunto potesse “segnalare“ l’alta o bassa produttività del lavoratore stesso. L’autore dimostrava che, in presenza di determinate condizioni, è possibile raggiungere un equilibrio e distinguere i lavoratori grazie all’informazione contenuta nell’educazione. L’assunzione critica è che il costo dell’educazione (segnale) debba essere negativamente correlato alle capacità produttive [3]. È necessario cioè che i lavoratori poco produttivi sostengano costi più alti per educarsi proprio perché poco produttivi, fino a ritenere più conveniente non educarsi e ottenere un salario basso piuttosto che educarsi ed ottenere un salario alto (al netto dei costi elevati).
L’introduzione di assunzioni è considerata in economia un requisito spesso essenziale per poter giungere ad una formulazione chiara e coerente del modello. Esse sono tipicamente caratterizzate da un certo grado di astrattezza, ma vengono poi del tutto obliate una volta definite le implicazioni del modello.
Proviamo allora ad analizzare l’assunzione critica del modello più nel dettaglio:
Qual è l’origine dei costi che spingono i lavoratori poco produttivi ad educarsi di meno? Qual è la ragione che spiega la correlazione negativa tra costi sostenuti per educarsi e capacità produttiva?
È dietro questi interrogativi che si snodano alcuni aspetti che è utile considerare quando si discute di università. L’autore li definisce in modo vago come possibili costi psichici così come costi monetari; o per esempio li interpreta in termini di tempo. E in effetti, l’idea che il tempo di studio sia un indice delle capacità dello studente è stata più volte richiamata, anche nel dibattito pubblico italiano, dove addirittura ci si è spinti oltre affermando che laurearsi fuori corso non implica solo l’essere poco produttivi, ma anche l’essere decisamente “sfigati”[4]. Se da una parte, è di certo ragionevole che gli studenti riescano a completare il proprio percorso di studio in un periodo di tempo limitato, sarebbe altrettanto rilevante riconoscere una certa eterogeneità (ci sono molti studenti costretti a lavorare durante gli anni universitari) e identificare nell’università non semplicemente una fabbrica dello studio, ma uno spazio aperto in cui dare agli studenti modo di agire, al fine di migliorarlo e costruire al suo interno momenti di formazione collettiva.
Eppure, oggi sembra che lo studente medio abbia introiettato pienamente questa visione, al punto da avere il terrore di finire nella categoria degli sfigati-poco produttivi. Egli si ritrova così ad avanzare divorando nozioni e concetti senza il tempo di riflettere criticamente, in un fast food della conoscenza dove l’unico obiettivo è quello di ottenere crediti in cambio di esami, di essere veloci e bravi, più veloci e più bravi degli altri se necessario. Accentua questo ritmo senza dubbio la progressiva trasformazione dell’università e una riorganizzazione della didattica volta a ridurre tempi e spazi, secondo una presunta logica di efficienza che di fatto irreggimenta il corpo studentesco ed allontana, emarginandolo, chi non riesce a stare il passo. Ma questa race to the top non si svolge più solo sul campo universitario, ma occupa ormai l’intero percorso educativo al punto che in America (paese precursore di molte delle politiche che stanno prendendo piede oggi in Europa in tema di istruzione[5]) i primi test sull’intelligenza iniziano a tre/quattro anni e sono necessari per poter accedere ai migliori asili di New York. Dato il forte incremento di domande, la difficoltà dei test è cresciuta e con essa l’ansia e la preoccupazione di molte famiglie, che hanno così fatto ricorso a costosi programmi di tutoring per i loro figli di quattro anni per meritare un posto nei prestigiosi talented and gifted programs. [6]
L’esperienza newyorkese, oltre a generare possibili preoccupazioni pedagogiche, ci porta a sottolineare un aspetto essenziale, che è proprio quello ignorato nel paper di cui sopra, ovvero che le principali ragioni del costo dell’educazione sembrano oggi in massima parte dipendere da questioni monetarie. Nel caso degli asili, è chiaro che solo le famiglie molto benestanti saranno disposte a spendere per la preparazione dei loro “piccoli geni”, ma il problema interessa soprattutto per ciò che riguarda la formazione superiore. Per avere un’idea, basta scorrere le pagine del report della Commissione Europea sulle università per scoprire i diversi sistemi di tassazione e le profonde disparità in termini di diritti riconosciuti agli studenti da un paese all’altro.[7]
Nel caso italiano, la situazione è poi particolarmente drammatica se consideriamo che, a fronte dei continui tagli, le tasse sono aumentate del 63% in 10 anni [8] mentre le borse di studio sono state quasi azzerate dal ministro Gelmini nel 2011 con un taglio al 90% e solo in parte ripristinate in alcune regioni. Ma se allora studiare all’università rappresenta un costo (crescente negli ultimi anni e per molti non più sostenibile) che non riceve adeguato sostegno in molti paesi Europei, ecco che la scelta della propria educazione sarà direttamente dipendente dai costi, i quali però non saranno solo espressione delle abilità dello studente, ma in gran parte determinati dalle condizioni economiche della propria famiglia. Sarà allora la propria collocazione sociale a scolpire in modo cristallino lo spettro delle possibilità offerte, congelando la mobilità sociale intergenerazionale[9].
Inoltre, la sostituzione delle borse di studio con i prestiti rappresenta un ulteriore passo verso la completa marginalizzazione di una quota della popolazione che per aver diritto ad una formazione completa, dovrà necessariamente indebitarsi e poi, una volta finiti gli studi, cercare disperatamente un lavoro per poter ripagare il proprio debito. Le storie delle migliaia di studenti in America e in Inghilterra già oberati dai debiti offrono un chiaro esempio di ciò che potrebbe accadere nei paesi che hanno deciso di introdurre questa formula.[10]
In tale contesto, l’Italia ha visto peggiorare tutti i livelli di formazione pubblica: dagli asili, incapaci di soddisfare la domanda delle famiglie, fino ai dottorati, dove si è registrato a partire dal 2008, come sottolineato dall’ADI, una riduzione del 19% del numero di posizioni bandite, con picchi del 38% al Sud. [11]
Tali dinamiche, inserite nel contesto drammatico della crisi, caratterizzato dal progressivo deterioramento delle condizioni nel mercato del lavoro, producono ulteriori effetti, sia in termini umani e sociali che economici poiché alimentano un clima di sfiducia e disillusione, spingendo così molti giovani a non investire più nella loro formazione, con cicatrici che ostacoleranno la crescita di lungo periodo dell’economia[12]. Infine, una spiegazione artefatta di tali processi potrebbe di fatto impedire una piena consapevolezza e presa di coscienza da parte di molti studenti (e non), portati a percepire come colpa e fallimento personale un problema sociale ed economico ben più ampio e strutturale. Diversi fattori giocano a favore di un ripiegamento sugli “affari privati”: la mancanza di prospettive certe e lo schiacciamento del proprio orizzonte al tempo presente, il clima crescente di competizione da una parte, la mancanza di opportunità e la pressoché totale assenza di diritti sul mercato del lavoro dall’altra.
Eppure, proprio in virtù di ciò, potrebbe rimettersi un moto un meccanismo di cambiamento.
Non a caso, realtà studentesche come Link coordinamento universitario, stanno chiedendo oggi di partecipare attivamente alla redazione del decreto sul diritto allo studio, esigendo però un cambiamento radicale nelle scelte da adottare.
È necessario allora che gli studenti (nonché futuri lavoratori) recuperino uno spazio di rivendicazione ampio, riscoprendo una dimensione collettiva e condivisa che rischia di scomparire qualora non si riesca più ad osservare i fenomeni in un’ottica storica, economica e politica piuttosto che meramente contabile e/o individuale.
[1]Spence, Michael. "Job market signaling." The quarterly journal of Economics 87.3 (1973): 355-374.
[2]È stato insignito del Premio Nobel nel 2001 con Joseph E.Stiglitz and George Akerlof "per le loro analisi dei mercati con informazione asimmetrica”
[3]In what follows, we shall make the assumption that signaling costs are negatively correlated with productivity. It is, however, most appropriately viewed as a prerequisite for an observable, alterable characteristic to be a persistently informative signal in the market p.358-359 N.b. Tra le altre assunzioni del modello, vi è anche l’assenza di esternalità positive dell’educazione e l’incapacità dell’educazione di accrescere la produttività del lavoratore.
[4] Celebri le dichiarazioni del viceministro al Lavoro e alle Politiche sociali, Michel Martone durante il governo Monti, vedi http://www.repubblica.it/scuola/2012/01/24/news/martone_laureati-28671973/
[5]Un’accurata analisi dell’evoluzione del sistema universitario americano sul corsaro.info http://www.ilcorsaro.info/in-formazione/come-e-stata-uccisa-l-universita-americana-in-cinque-semplici-passi.html
[6]http://blogs.wsj.com/metropolis/2012/10/19/new-york-city-gifted-and-talented-exam-sample-questions/
[7]National Student Fee and Support Systems 2012/2013, European Commission
[9]Essa è notevolmente peggiorata in Italia negli ultimi anni Rapporto Istat 2012
[11] http://www.articolo36.it/articolo/tagli-alla-ricerca-crollano-i-posti-a-bando
[12]http://ingenere.it/articoli/lesclusione-dei-giovani-e-leffetto-cicatrice
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