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Lavoro, e non reddito, di cittadinanza

04/06/2013

Il reddito di cittadinanza si configura inevitabilmente come “compensazione ex post” dei disagi derivanti dalla mancanza di lavoro e non può affrontare in termini strutturali le problematiche che la crisi globale ci pone, a partire dalla necessità di ridisegnare l’intero modello di sviluppo

Nel sesto anno della crisi più lunga e più grave del secolo la mia opinione è che gli sforzi ideativi e pratici del governo e delle forze politiche di sinistra dovrebbero concentrarsi sul “lavoro di cittadinanza” piuttosto che sul “reddito di cittadinanza”, anche per l’ovvio motivo che dal “lavoro di cittadinanza” scaturirebbe naturalmente un reddito decente, mentre dal “reddito di cittadinanza” non è detto che scaturirebbe altrettanto naturalmente un lavoro decente. L’Italia deve certamente dotarsi di strumenti, delimitati e circoscritti, di necessaria lotta alla povertà, come il “reddito minimo di inserimento” (che da noi fu introdotto sperimentalmente dal primo governo Prodi e poi soppresso dal duo Berlusconi-Maroni), così come deve allargare e universalizzare gli “ammortizzatori sociali” legati alla perdita del lavoro. Ma bisogna avere chiare le differenze tra “lavoro di cittadinanza”, “ammortizzatori sociali”, varie forme di “reddito minimo”, “reddito di cittadinanza”, quest’ultima un’ipotesi molto più ampia di quelle stesse di “reddito minimo”, non solo per gradazione ma per qualità e natura, perché con esso si mira a garantire a tutti, per il solo fatto di essere cittadini di una comunità, un reddito universale e incondizionato.

Le ragioni del mio non optare per la strategia di “reddito di cittadinanza” non attengono solo a problemi di costo: questi sarebbero immensi – al punto che Gnesutta parla di centinaia di miliardi di euro –, a fronte del limitato ammontare che sarebbe richiesto da un “Piano straordinario per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne” (come quello contenuto nel “Libro bianco. Tra crisi e grande trasformazione”, Ediesse, da me curato per la Cgil, il quale potrebbe avere inizio con progetti, ispirati al New Deal di Roosvelt, di 1 o 2 miliardi di euro). Un costo così illimitato rende il primo semplicemente irrealizzabile e il secondo assai più credibile, se ci fosse, però, una volontà politica ben altrimenti radicale.

Ci sono anche ragioni più sostanziali, così sintetizzabili: 1) la crisi globale sta avendo implicazioni sulla disoccupazione e sull’occupazione che i democratici americani non esitano a definire job catastrophe e questo richiederebbe la mobilitazione di tutte le energie sulle problematiche del lavoro. 2) La motivazione con cui prevalentemente si giustifica il “reddito di cittadinanza” è del tipo “tanto il lavoro non c’è e non ci sarà”, con il quale, però, il “reddito di cittadinanza” viene a comportare una sorta di accettazione rassegnata della realtà così come è, quindi una sorta di paradossale sanzione e legittimazione dello status quo per il quale si verrebbe ad essere esentati dal rivendicare trasformazioni più profonde. 3) Uno strumento monetario – quale è il reddito di cittadinanza – si configura inevitabilmente come “compensazione ex post” dei disagi derivanti dalla mancanza di lavoro e non come “promozione ex ante” del lavoro e di altre opportunità che è tipica, invece, della fornitura di strutture e di servizi, ritrovandosi così nell’impossibilità di affrontare in termini strutturali le problematiche strutturali che la crisi globale ci pone, a partire dalla necessità di ridisegnare l’intero modello di sviluppo. 4) Le ipotesi di “reddito di cittadinanza” sono sostenute in prevalenza con il presupposto che esso assorba molte delle prestazioni monetarie e dei servizi del welfare state – questo è anche il suggerimento di Gnesutta – il quale, al contrario, in una fase in cui l’austerità autodistruttiva riporta in auge le privatizzazioni innanzitutto della spesa sociale, andrebbe rafforzato e riqualificato.

Su alcuni degli elementi richiamati vorrei argomentare più dettagliatamente, a partire dalla domanda su quali riteniamo essere le priorità in materia economico-sociale che le democrazie contemporanee debbono fronteggiare nella fase odierna. Solo dalle priorità, infatti, si può ricavare l’adeguatezza delle misure/risposte in gioco. A me parrebbe che le priorità siano oggi le seguenti: fornire risposte strutturali ai problemi strutturali che presentano le economie e le società avanzate (e strutturali vuol dire richiedenti trasformazioni radicali, non congiunturali, non adattive); riproporre una concezione della giustizia che stressi, accanto alla libertà, l’eguaglianza e le capacità fondamentali.

E qui dobbiamo ulteriormente chiederci: la strutturalità dei problemi delle economie europee – di cui la coesistenza di eccessi di capacità produttiva in alcuni settori e di deficit in altri e le divergenze di competitività, rafforzate dal mercantilismo della Merkel che mette a rischio la stessa sopravvivenza dell’euro, sono uno dei segnali – sarebbe scalfita mediante mere misure di trasferimento monetario del tipo “reddito di cittadinaza”? Io penso di no. Agire sull’intreccio strutturale richiede politiche altrettanto strutturali, ben diverse da semplici trasferimenti monetari compensatori, modellate sulla base di un forte e qualificato ruolo dell’operatore pubblico, da esercitare non solo mediante indirizzo e regolazione, cioè governance, ma anche tramite diretta gestione, amministrazione e government.

La strutturalità dei problemi risalta ancora di più se teniamo conto delle caratteristiche del mondo globalizzato odierno: la complessità delle dinamiche dei mercati del lavoro evidenzia, oltre e accanto alla precarizzazione crescente, un blocco delle dinamiche retributive e una incapacità da parte della forza-lavoro di acquisire i guadagni di produttività, tutte questioni alle quali si può rispondere solo con nuovi schemi retributivi e con complesse politiche concertative; gli assetti produttivi sono complicati da intensi e sregolati processi di finanziarizzazione e da dinamiche di trasformazione della natura degli investimenti, delle funzioni della Ricerca e Sviluppo, del ruolo del capitale umano; le condizioni di vita si differenziano in base a una molteplicità di variabili e nessuna condizione si manifesta in forma semplice, al problema della povertà, per esempio, si affianca crescentemente un problema di ceti medi e di incremento dell’opulenza dei ceti benestanti, la povertà stessa si complica attraverso la sua femminilizzazione, la sua territorializzazione, la sua cronicizzazione e così via.

Poiché l’ipotesi di “reddito di cittadinanza” viene avanzata anche con riferimento alla necessità di aumentare la “libertà di scelta” dei cittadini, una sua inadeguatezza emerge altresì se si vuole riproporre una concezione della giustizia che stressi, accanto alla libertà, l’eguaglianza e le capacità à la Amartya Sen. Questo, infatti, è molto impegnativo. Mere ipotesi di trasferimento monetario da un lato esaltano la libertà (specie come libertà di scelta sul mercato) in termini tali da smarrire il suo rapporto con l’eguaglianza, dall’altro adottano una visione di eguaglianza (come mera parità formale dei punti di partenza) non all’altezza dell’impegno richiesto dalle capacità. L’esaltazione della libertà scissa dall’eguaglianza e dalle capacità fondamentali rischia di farci rimanere acriticamente vittime della tirannia dei luoghi comuni imposti dal neoliberismo: per enfatizzare la facoltà di scelta si giunge a fare del rischio “uno stile di vita”, come dice ironicamente Stiglitz (sottintendendosi con ciò il rigetto dell’idea stessa dell’assicurazione sociale obbligatoria); l’azione dei governi è visualizzata come sempre e comunque negativa e la pubblica amministrazione come sostanzialmente irriformabile, alle quali preferire trasferimenti monetari indifferenziati, benefici fiscali, esternalizzazioni verso il privato; l’istituto della tassazione è letteralmente demonizzato, presentato come “confisca” e “esproprio” dei cittadini da parte dello Stato, perdendosi così di vista il suo carattere di contributo al bene comune e di strumento di esercizio della responsabilità collettiva (esprimentesi tanto nel finanziamento di fondamentali funzioni pubbliche quanto nella redistribuzione).

Strumenti monetari tipicamente indifferenziati, elevati e generalizzati, che rischiano di proporsi come strumento unico con cui risolvere una marea di problemi aventi, viceversa, bisogno di policies articolate, mirate, concrete, non sono in grado di incidere davvero sulle problematiche intrinseche alla volontà di rimettere al centro la giustizia. All’opposto, essi possono rafforzare alcuni rischi: che i veri problemi odierni (in particolare la questione del funzionamento del mercato nella globalizzazione) rimangano oscurati e che, in ogni caso, rispetto ad essi si sia spinti ad assumere un atteggiamento rinunciatario; che attraverso compensazione, riparazione, risarcimento, molto diversi dalla promozione vera, lo status quo risulti confermato e sanzionato; che l’operatore pubblico sia indotto alla accentuazione di una deresponsabilizzazione già in atto (per qualunque amministratore è più facile dare un trasferimento monetario che cimentarsi fino in fondo con la manutenzione, la ricostruzione, l’alimentazione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato).

Si spiega così perché tanta preoccupazione possano suscitare le ipotesi di “reddito di cittadinanza”. Lo fa la versione neoliberista con cui essa si presenta come compimento del “conservatorismo compassionevole”: riduzione drastica di spesa pubblica e tasse e rete protettiva ridotta all’osso per i deboli, come nella “imposta negativa” di Milton Friedman. Ma lo fanno anche versioni più nobili, come quella di Van Parijs, che tuttavia finiscono con l’avvalorare l’immagine di uno stato sociale “minimo”, non troppo diverso da quello “residuale” ipotizzato dalle destre, specie nelle varianti più conseguenti che suggeriscono di assorbire nel nuovo trasferimento tutti quelli esistenti (tra cui le prestazioni pensionistiche e l’indennità di invalidità civile) e di azzerare la fornitura di servizi pubblici dalla cui sospensione (parziale o totale) verrebbero tratte le risorse aggiuntive necessarie al finanziamento. Così tali proposte, oltre a comportare costi enormi (che le rendono del tutto irrealistiche nei fatti, ma sempre devianti sul piano culturale), non danno la garanzia che l’auspicata maggiore “libertà di scegliere” non si riveli per gli svantaggiati del tutto illusoria. Esse, infatti, rischierebbero di funzionare come sanzione e cristallizzazione proprio della precarizzazione e “dualizzazione” del mercato del lavoro, non offrirebbero risposte alla drammatica femminilizzazione, territorializzazione e cronicizzazione delle condizioni di povertà – dirette conseguenze della carenza dell’offerta di servizi e di interventi correttivi qualitativamente diversificati (come un trasferimento monetario non può mai essere) –, si sostituirebbero all’attivazione di nuove strategie di inclusione sociale, le quali dovrebbero, invece, essere rivolte soprattutto a giovani e donne e articolate in politiche mirate per lavoro, formazione, condizioni abitative, reinserimento e così via.

Oggi servono proprio politiche economiche governative orientate alla “piena e buona occupazione”, politiche straordinariamente “non convenzionali” (tanto “non convenzionali” quanto lo sono le politiche monetarie di tutto il mondo, dalla Federal Reserve americana alla Bce europea, dal Regno Unito al Giappone) del tipo di quelle – esplicitamente ispirate al New Deal di Roosvelt – che Obama persegue negli Usa, volte a fare del motore pubblico il volano di un nuovo ciclo di investimenti e di generazione di lavoro. Non si tratta, infatti, solo di rilanciare la crescita, si tratta altresì di cambiarne in corso d’opera qualità e natura, ponendo le basi di un nuovo modello di sviluppo. Concretamente i campi di estrinsecazione di una progettualità di questo genere sono molteplici, dalle reti alla ristrutturazione urbanistica delle città, dalle infrastrutture alla riqualificazione del territorio, dai bisogni emergenti – attinenti all’infanzia, l’adolescenza, la non autosufficienza – al rilancio del welfare state. La creatività istituzionale del New Deal è un antecedente a cui ispirarsi, come lo sono il Piano del lavoro della Cgil del 1949 e l’antiveggente proposta di Ernesto Rossi di innestare la generalizzazione del servizio civile nella creazione di un grande “Esercito del lavoro”, facendo uscire dal dimenticatoio nobilissimi strumenti dell’eredità keynesiana, tra cui la figura del “lavoro socialmente utile”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Commenti

La dignità del "lavoro"

Questa roba: http://www.lastampa.it/2013/07/01/cronaca/insieme-per-inventare-il-posto-che-non-c-pi-z2fBo6Ymm91FirRfUJo3EI/pagina.html la chiamiamo lavoro e pretendiamo che sia più dignitosa di un reddito di cittadinanza? Poi i vecchietti senza soldi dove troverebbero i 10 euro per ogni voucher?
Ma per favore!
Giuliana Cupi

reddito di "cittadino"

Non condivido il ragionamento di Laura Pennacchi. I costi intanto:
- se si introduce il RdC ovviamente esso riassorbe, come plafon di base iniziale, tutti i sussidi ed indennità a vario titolo date ai singoli cittadini (invalidità, assegni vari, sussidi, contributi economici a vario titolo, ecc);
- si crea così un comune denominatore, di dignità economica di base per tutti, che è un dovere oggi di una comunità che vuole dirsi e sentirsi tale.
- se il soggetto gode di un reddito, da lavoro, di pensione od altro il RdC si intende ovviamente riassorbito da esso;
- i costi quindi si riducono di molto e la si finisce di creare un proliferare di burocrazia e di clientelismi sulla base di sussidi molto spesso clientelari quando non truffaldini come la cronaca quotidianamente evidenza con la scoperta di falsi invalidi o falsi poveri;

In secondo luogo i cittadini si troverebbero trattati dignitosamente come "partecipi di una comunità" e non dovrebbero andare a bussare a mille porte di clientele di vario tipo per vedersi riconoscere il diritto ad avere una esistenza dignitosa anche in caso di non reddito da lavoro;
In terzo luogo sarebbe più facile riconoscere gli "oggettivi diritti" ad avere ulteriori aiuti ( per i figli, per la casa, ecc) senza il pietismo tipico della cultura italiana per la quale che sa suscitare più pietà ottiene di più e che anche per dignità o per altro non lo sa fare non ottiene nulla;
In quarto luogo sarebbe più facile, da parte della "comunità (leggi Stato) richiedere gli "oggettivi doveri" di cittadinanza quali la ricerca di un lavoro, il dovere di mandare i figli a scuola, ecc.

proposta di nuove relazioni industriali

una vecchia proposta elaborata in ambito Federmanager Torino

Torino 28/3/2002

Lo scontro in atto sul superamento dell’articolo 18 focalizza la problematica della flessibilità, oggi regolata da un coacervo di strumenti, risultato di innumerevoli interazioni. L’approccio fin qui attuato sta provocando uno scontro sociale. Il sindacato dei dirigenti propone di affrontare il problema cambiando il paradigma; si propone di passare:

DALLA TUTELA DEL POSTO DI LAVORO
AL LAVORO COME DIRITTO

Per affrontare in modo organico un tema come questo, che richiede di analizzare altre problematiche come: la competitività del paese, la coesione sociale, la coerenza dell’ambiente esterno, è probabilmente opportuno formulare una:

PROPOSTA DI UN MODELLO DI RELAZIONI INDUSTRIALI
PER L’ITALIA DEL PRIMO DECENNIO DEL SECOLO

Per progettare qualsiasi cosa si deve prima definire cosa si vuole ottenere (specifiche), questo vale anche per la progettazione di un nuovo modello di relazioni industriali.
Si propone anche un percorso:
1. definizione di quali sono gli attori (EU, stato, sindacati, imprese)
2. definizione delle specifiche del modello di relazioni industriali che si vuole realizzare (è più facile concordare le specifiche che il come realizzarle)
3. definire le modalità di realizzazione delle specifiche che trovano le parti su posizioni abbastanza comuni
4. completare il modello




Il nuovo modello di relazioni industriali deve garantire:
1. Una elevata competitività delle imprese a livello internazionale, in modo da realizzare elevati risultati economici che permettano di distribuire di più sia ai lavoratori che alle imprese
2. La massimizzazione occupazione
3. Una buona coesione sociale
4. Una buona qualità del lavoro
5. Un buon funzionamento del sistema sia in caso di congiuntura favorevole che di congiuntura sfavorevole
6. Una chiara definizione dei ruoli e delle competenze: EU, stato, sindacati, imprese
7. Il superamento della coesistenza, sul nostro territorio, di sistemi di relazioni industriali basati su regole differenti
8. La possibilità di soddisfare le esigenze a livello: regionale, locale, di impresa

Vediamo ora una ipotesi relativa ad un modello di relazioni industriali e come questo risponderebbe alle specifiche poste.

1) Per determinare una elevata competitività delle imprese a livello internazionale, in modo da realizzare elevati risultati economici che permettano di distribuire di più sia ai lavoratori che alle imprese, è necessario:
o Superare la logica del conflitto, concordando le condizioni che possano fare evolvere verso la partnership. La contrapposizione che distrugge la ricchezza non è nell’interesse ne dei lavoratori ne delle imprese, ma è la situazione odierna, determinata da una reciproca mancanza di fiducia che ha profonde ragione storiche. Nel definire il nuovo modello di relazioni industriali, si deve porre come presupposto di base che le parti (imprese/lavoratori) fanno i propri interessi; la soluzione è possibile definendo un modello nel quale le parti pur agendo solo in base alla logica di massimizzazione dei propri benefici, non solo non si danneggino a vicenda, ma costruiscano insieme la competitività dell’azienda. E’ possibile! Non c’è uno schema unico (vedi caso G.B. e Germania). Molte esperienze in EU dimostrano che la competitività si può costruire insieme. Queste esperienze si possono ulteriormente migliorare. Per risolvere alla base il problema ci deve essere una precisa volontà delle parti oggi contrapposte, volontà che discende solo dalla convinzione, che superare la logica del conflitto sia il percorso vincente per tutte le parti.
o Superare la logica della tutela del posto di lavoro, definendo la tutela del diritto al lavoro ( equivale a dire soddisfare pienamente la domanda di lavoro). E’ questo un diritto costituzionale mai realizzato. Per trasformare le dichiarazioni di principio in uno scenario che possa garantire il diritto, è necessario portare la disoccupazione ad un certo livello ( es. inferiore al 4%) equamente distribuito su tutto il territorio nazionale. Questo obbiettivo può essere raggiunto in tempi brevi distribuendo il lavoro che c’è, attraverso tre azioni:
A) L’incentivazione del part-time . B) Il superamento degli straordinari . C) La definizione di un orario annuale massimo. - Il part-time nei paesi nordici interessa circa il 20% dei lavoratori, in Italia non raggiunge il 2%. Una forte incentivazione del part-time, con una opportuna riduzione degli oneri di impresa, determinerebbe da sola , nel medio periodo, un significativo aumento dell’ occupazione. Il part-time può essere vissuto anche in modo nuovo: potrebbe essere una formula apprezzata per il sostegno all’invecchiamento attivo ( potrebbe essere anche un utile incentivo per il proseguimento del lavoro, oltre l’età della pensione di vecchiaia) e per una introduzione al lavoro di giovani universitari: gli studenti lavoratori potrebbero essere uno degli strumenti di integrazione dell’Università con il mondo delle imprese e permetterebbe di far frequentare l’Università anche a chi oggi non ne ha la capacità economica . - Lo straordinario ammonta al 3-5 % delle ore lavorate (come conseguenza di una serie di regole distorcenti); flessibilizzando le ore di lavoro annuali in quantità e disponibilità oraria (flessibilità che dovrebbe essere definita da ogni azienda nell’ambito di specifiche regole), ed aumentando decisamente la tassazione degli straordinari (ad es. triplicandola), questi potrebbero essere fortemente ridotti, anche riducendo gli attuali controlli. E’ importante segnalare che part-time e flessibilizzazione degli orari richiedono una evoluzione della organizzazione aziendale, fattore questo che non va sottovalutato. - La definizione di un orario annuale massimo; questa definizione dovrebbe essere effettuata dalle singole regioni/aree territoriali, in funzione della specifica situazione, in modo tale da determinare una disoccupazione inferiore al 4%, che equivale in pratica alla piena occupazione. Le retribuzioni dovrebbero comportare il pagamento delle sole ore lavorate. Questo intervento comporterebbe una riduzione sensibile degli stipendi nelle regioni con alti tassi di disoccupazione, anche se la ricchezza complessivamente distribuita non si riduce, anzi dovrebbe salire per la maggiore competitività. La nuova situazione malgrado gli stipendi più bassi determinerebbe maggior benessere nelle famiglie in cui si determina un maggior numero di occupati, mentre nei casi di reddito unico al di sotto di una certa soglia, sarebbe necessario intervenire per assicurare il mantenimento del reddito non riducendo l’orario di lavoro. La massimizzazione dell’occupazione attraverso le 3 azioni suesposte, può permettere di raggiungere accordi sulla piena flessibilità in uscita per tutti. Le singole regioni/aree territoriali, in funzione della specifica situazione dovrebbero definire oltre all’orario massimo annuale, anche un orario minimo annuale oltre il quale le aziende in crisi possano licenziare. Le aziende in crisi, prima di raggiungere la soglia minima di orario annuo, potrebbero attivare azioni di outplacement efficaci (dato il basso livello di disoccupazione comunque determinato dai meccanismi esposti). Questo meccanismo ridurrebbe i casi di licenziamento, ed in caso di licenziamento, il lavoratore , perso un posto ne troverebbe un altro, in quanto il livello di disoccupazione sarebbe mantenuto basso dal sistema. E’ certo che questo tipo di tutela del diritto al lavoro richiede di affrontare il problema della mobilità, ed in particolare il costo della variazione dell’abitazione, nel caso questa sia determinata da una variazione del posto di lavoro.
Il modello descritto determina:
• la massima flessibilità per le imprese
• la tutela del diritto al lavoro
• l’aumento della possibilità, per i lavoratori, di cercare il lavoro a loro più adatto, il che va a vantaggio anche delle imprese e della competitività paese.
• l'allungamento, a livello volontario, dopo una soglia determinata, l'età della pensione, in funzione della richiesta del mercato, anche utilizzando il part-time

o Mettere tutti i dipendenti in condizione di operare al massimo livello della conoscenza posseduto dall’azienda, conoscenza messa a disposizione attraverso sistemi avanzati di esplicitazione . E’ una specifica disciplina , fondamentale per rendere disponibile in modo efficace ed efficiente il miglior Know-How. aziendale. Questa disciplina dovrebbe essere materia di formazione nelle scuole di ogni grado.
o Mettere a disposizione delle imprese e delle scuole di ogni grado, sistemi avanzati per attuare un processo di gestione della conoscenza, che assicuri durante tutto l’arco della vita dei lavoratori, le competenze adeguate per gestire i nuovi processi e le nuove tecnologie
o Definire per ogni azienda quali sono, tra le conoscenze necessarie, quelle precompetitive di base e quelle che determinano la competitività. Le prime dovrebbero essere rese disponibili dalle Università competenti garantendone un livello allineato al più alto livello mondiale / EU. Le Università dovrebbero poi sviluppare corsi di applicazione di tali conoscenze, in modo che gli studenti escano dall’Università preparati in tal senso.
o Definire processi di innovazione che facilitino la definizione dei prodotti / servizi innovativi esplicitando l’output in modo da renderlo immediatamente utilizzabile da parte di chi deve poi applicare l’innovazione.

2) La massimizzazione dell’occupazione, è immediatamente realizzabile con lo schema suesposto

3) Una buona coesione sociale discende da: un diffuso convincimento che la contrapposizione distrugge la ricchezza, che la partnership porta buoni frutti a tutti. Costruire una base di fiducia reciproca è un lungo percorso da costruire con i fatti, anche se le parole sono un presupposto necessario. Il nuovo modello di relazioni industriali può essere determinante per tracciare il percorso di costruzione di una fiducia reciproca tra le parti (es. definire ad alto livello linee guida che riducano la contrapposizione ai livelli più bassi, indicando come distribuire la ricchezza generata, definendo regole che determinino trasparenza, ecc.)


4) Una buona qualità del lavoro deriva da:
• Un rapporto di lavoro a tempo indeterminato
• Uno spirito di corpo aziendale (possibile solo con un rapporto a tempo indeterminato e con motivazione al lavoro determinata da fattori che vadano oltre la retribuzione, es. clima)
• Un lavoro reso sempre creativo e partecipativo con il coinvolgimento nella definizione dei metodi di lavoro che ognuno applica ( è parte del processo di gestione della conoscenza)
• Dallo spirito di partnership
Il modello proposto determina/favorisce le condizioni esposte

5) un buon funzionamento del sistema, sia in caso di congiuntura favorevole che sfavorevole, è determinato dalla massimizzazione dell’ occupazione realizzata secondo lo schema suesposto, in quanto:
• minimizza i licenziamenti; le aziende potranno rimanere competitive senza licenziare (riducendo l’orario), mantenendo il patrimonio umano di conoscenze, che renderà poi più agevole cogliere la ripresa e salvaguardare lo spirito di corpo dell’impresa, fattore importante per la competitività
• in caso di licenziamento, il lavoratore trova in breve un’altra occupazione dato il basso livello di disoccupazione che viene comunque assicurato
• nel caso che la congiuntura sfavorevole riguardi una od un limitato numero di aziende, ci sarebbe una naturale migrazione di lavoratori verso quelle che offrono la possibilità di orario/stipendio maggiori.


6) Una chiara definizione dei ruoli e delle competenze: EU, stato, sindacati, imprese, è definibile solo con un chiaro accordo tra tutte le parti succitate. In linea di massima l’EU e lo stato a livello nazionale, dovrebbero concordare più linee guida ed obiettivi, che leggi cogenti, queste linee guida dovrebbero essere formulate per lasciare ai livelli inferiori spazi regolamentati in modo tale da ridurre la contrapposizione e favorire la partnership. Le Regioni dovrebbero applicare le linee guida indicate ai livelli superiori, definendo quanto è utile alla specifica realtà regionale (es. orario annuale massimo e minimo), lasciando spazi a livello imprese, perché siano colte le specifiche opportunità.

7) Il superamento della coesistenza, sul nostro territorio, di sistemi di relazioni industriali basati su regole differenti consegue al fatto che una piena occupazione ed una flessibilità in uscita come sopra definite, cancellando le attuali distorsioni (es. uso non corretto dei contratti a tempo determinato, del lavoro interinale, ecc.) permetterebbe di definire un sistema di relazioni industriali che consideri il “contratto a tempo indeterminato” l’asse portante e permetterebbe di unificare la normativa che regola il pubblico ed il privato.

8)La possibilità di soddisfare le esigenze a livello regionale, locale di impresa deve discendere da decisioni a livello EU/nazionale, che impostino i rapporti tra i vari livelli, in modo che siano lasciati ai livelli inferiori, spazi determinati.

“Il lavoro è vita, senza quello esiste solo paura e sicurezza”
John Lennon

reddito di cittadinanza si no

Mi sembra che riusciamo sempre come polli di Renzo-i, benissimo a scannarci tra di noi di sinistra, mentre il contesto e il trend è marcatamente neoliberista e non si può al momento pensare nell'immediato a "riforme strutturali" verso il sol dell'avvenire di lombardiana memoria, ci hanno anche messo ne freezer la Costituzione versione all'italiana socialdemocratica (unica buona novella la Corte dei conti che sulla base dei principio costituzionali accoglie il ricorso del sindaco di Napoli De Magistris che riesce in barba al patto di stabilità a far assumere 300 maestre d'asilo ... unica al momento ma lo spiraglio aperto potrebbe essere all'argato con piede di porco anche per scuola sanità) ... dunque si diceva, la camicia di forza neoliberista imposta in tutta l'Ue compresa l'Italia, non si riesce ancora a vedere la possibilità di togliersela, percorso lungo vedasi http://www.circolocalogerocapitini.it/eventi_det.asp?ID=381
per cui, al momento, drammatico per il 99% dell'Umanità, non si vede perchè non si debba procedere lungo la linea di minor resistenza e richiedere il reddito di cittadinanza che sicuramente è arma a doppio taglio ma che per milioni di disoccupati-precari può essere l'ancora di salvezza per sopravvivere dignitosamente. Poi, qualcuno lo ha già detto incazzato, in quasi tutta l'Ue c'è questo diritto e non si venga a dire che in Germania, Danimarca, ecc., ecc., non c'è maggiore attenzione a politiche industriali, cogestione impresa, e dunque che il diritto al lavoro e quello del diritto al reddito di cittadinanza non stanno bene assieme. Smettiamola di dividerci a sinistra e rimettiamo in piedi la lotta di civiltà la giustizia sociale e la tutela dellabiente. Un buon dialogante saluto.

reddito minimo garantito

Noi ci dobbiamo distinguere sempre in negativo rispetto agli altri paesi "civili" d'Europa. Siamo proprio un paese di merda!!!!!!!!!!!!!!

reddito dicittadinanza e progressività dell'imposta

non tutti sanno che il reddito di cittadinanza è un analogo di un'imposta negativa; questa era stata un cavallo di battaglia in tempi di crisi precedenti, quando si dibatteva se non era meglio la flat tax, ma con imposta negativa. Ho sempre pensato che questa fosse una sciocchezza, perché molto debole di fronte a possibili manovre di politica economica basate sull'austerità: in questo contesto, infatti, se le risorse mancassero per il reddito di cittadinanza, o si riduce il reddito o la cittadinanza-succede tutti i giorni con lo stato sociale.
In ogni caso, ha ragione Pennacchi, o per lo meno le due cose -reddito o lavoro - non appartengono allo stesso universo. Il lavoro di citadinanza (la piena occupazione) appartiene alla macroeconomia, il reddito di cittadinanza alla micro.

Il reddito di cittadinanza e i cambiamenti strutturali della società

Concordo con alcuni dei commenti in fondo, non mi è piaciuto non solo perché non ne condivido il contenuto, ma perché l'autrice stessa, nel muovere critiche al reddito di cittadinanza, non sa dove andare a parare, cioè non ha nulla o quasi da proporre a sua volta, se non le politiche di Obama che definisce "straordinariamente non convenzionali" (sic!!!); inoltre la mena per tutto l'articolo con la necessità di drastici cambiamenti strutturali del sistema, e fin qui siamo d'accordo, ma dove li propone? In cosa consiste la novità, nel modello di "piena e buona occupazione"? Nei "lavori socialmente utili", cui ho immeritevolmente fatto cenno io stessa alla fine del mio seminario cui tu pure hai assistito? Il lavoro è socialmente utile per definizione, se si sente l'esigenza di qualificarlo come tale vuol dire che sia quello che viene spacciato per tale, che quello al di fuori della definizione non corrispondono a questo imperativo e sono - e veniamo al punto - meri pretesti. E lo sono per il ben noto motivo: perché il lavoro come lo intendiamo noi è, se non finito, certo enormemente diminuito in termini di quantità REALMENTE UTILI alla collettività e attenzione ché i tranelli son sempre in agguato, per esempio quando si dice che la differenziata spinta creerà molti posti di lavoro si sta dicendo che è bene continuare a produrre rifiuti per mantenere, se non addirittura aumentare quei posti di lavoro, ebbene è il caso? E' ovvio che ciò che è veramente bene è che di rifiuti se ne producano sempre meno, ma questo implica la diminuzione della produzione tout court. Aspetti come questi non sono nemmeno sfiorati dall'argomentazione dell'autrice. Non c'è nessun cambio di paradigma strutturale dal punto di vista del mercato del lavoro, anzi del concetto stesso di lavoro come perno della società attuale, cambio che invece l'ottica del reddito minimo accoppiata alla diminuzione del tempo di lavoro offrirebbe anche in relazione agli altri punti da lei toccati, per esempio la povertà.
La povertà è un concetto relativo a questa società e a questa distribuzione della ricchezza, MA ANCHE alla percezione o definizione che dir si voglia del discrimine tra ciò che è troppo poco e ciò che è sufficiente: nei Paesi in via di sviluppo (ma si chiamano ancora così?), i poveri non sono quelli che conducono una vita tradizionale nei villaggi, posto che tali villaggi non siano in luoghi depredati e impoveriti dall'avidità capitalistica, perché costoro hanno di che mangiare e soddisfano le loro necessità, ma bensì coloro che, per via della distruzione di cui sopra o perché cercano "una vita migliore" (si pensi ai milioni di cinesi rinchiusi in fabbriche-lager), abbandonano quell'equilibrio e si ritrovano ai margini di un modello dove la disponibilità monetaria è tutto, cioè il nostro, in speventose periferie in cui davvero il degrado materiale e spirituale è enorme. Allora, noi continueremo a parlare di "povertà" finché resteremo, prima di tutto mentalmente, dentro questo modello e avremo bisogno di pagarci tutto e il tutto sarà in ogni caso un tutto artificiosamente gonfiato: è per questo che in questo momento la "crisi" sta causando la comparsa di tanti "nuovi poveri", ma il senso attuale di questo stato di cose, anche da un punto di vista spirituale che personalmente mi interessa molto, NON E' quello di superarla (la crisi stessa) inseguendo miraggi di ritorno al prima o a eldoradi mai in realtà realizzati, né realizzabili, quali quello della piena occupazione (ci si provò nel socialismo reale e si sa come finirono), ma quello di cogliere l'occasione - sì, lo stanno dicendo alcuni "decrescisti" e lo dico pure io - per una trasformazione radicale. E' come il concetto di "dieta" (devo dimagrire perché c'ho la pancia, che punizione, ma appena riacquisto il peso forma mi rimetto a ingozzarmi come prima) versus quello di nuova visione del proprio regime alimentare, in cui si mangia meno e meglio sempre e ci si concede qualche sfizio saltuariamente, contesto in cui anche il concetto di "povertà" assume un significato del tutto nuovo, anzi vecchio, anzi quello che dovrebbe avere: cioè, non di "insufficiente reddito monetario", ma di "non soddisfazione dei propri bisogni". Se questi invece lo sono, di povertà non dobbiamo più parlare, anche se lavoriamo tutti meno.
Come avviene tale soddisfacimento? Grazie: 1) alla frazione di tempo liberato dal lavoro che permette l'autoproduzione e il risparmio (personale e sociale) dovuto al fatto di lavorare meno; 2) al reddito di cittadinanza che copre, per esempio, periodi di astensione dal lavoro ben più lunghi di quelli attuali e che non corrispondono solo a esigenze di cura personale o familiare, ma anche a periodi chiamiamoli sabbatici, durante i quali è possibile e direi auspicabile dedicarsi per esempio allo studio, al viaggio, a un otium non ricreativo, ma creativo, e che a questo punto perdono i connotati depressivi della "disoccupazione"; 3) alle reti di prossimità, di comunità e anche più ampie, che sostituiscono almeno in parte proprio la funzione che svolge il welfare e che l'autrice vede minacciata dalla destinazione delle risorse appunto verso il reddito di cittadinanza, il che a mio parere avverrebbe con grande vantaggio dei singoli e della collettività, sia in quanto a risultati ottenuti, sia in quanto a responsabilizzazione degli stessi, che finalmente, come dice Esteva, prenderebbero in mano il proprio destino e le proprie necessità e agirebbero per trovare ciò di cui hanno bisogno, smettendola con l'atteggiamento della continua richiesta o pretesa avanzata allo Stato o a chi per esso: atteggiamento che non solo non si rende conto del punto in cui siamo, quindi molto adolescenziale, ma che ricalca anche molto quello meramente consumista del "io voglio, io esigo, io ho diritto perché io PAGO!", con il che si sottintende, nel caso, le tasse. Che però chiaramente non bastano più (anche perché sempre meno gente lavora e se più gente lavorasse non basterebbero lo stesso perché aumenterebbe ulteriormente la richiesta di welfare, vedi l'ovvio esempio degli asili nido) e non sono allocate appropriatamente perché vengono spese male sia quando prendono la strada della copertura delle avventure finanziarie di banche ed Enti, sia quando vengono impiegate nell'economia reale e quindi ormai, da giusto contributo del cittadino che in un'ottica di reciprocità o mutualità o come la vogliamo chiamare se le vedeva tornare sotto forma di servizi, diventano vieppiù un balzello iniquo e vessatorio, come non bastasse affiancato da altre spese che sono il duplicato di quelle che le tasse stesse dovrebbero finanziare e che sempre più si dovranno corrispondere ai privati (vedi scuola, sanità, trasporti, perfino per riempire le buche delle strade il Comune tira fuori la necessità di ampliare le strisce blu e quindi reperire altre risorse in una voragine senza fine).
Allora la teoria dell'autrice, che contesta al reddito di cittadinanza di essere "un trasferimento monetario" la cui dazione è "più facile" del "cimentarsi fino in fondo con la manutenzione, la ricostruzione, l’alimentazione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato" si confuta da sola, perché nella sua analisi, ispirata a un'ideologia che possiamo definire della sinistra classica, le cose vanno esattamente così, con l'unica variante che il trasferimento monetario del reddito di cittadinanza "alla luce del sole" è camuffato da utilità sociale perché corrisposto in cambio di un lavoro a ogni costo. Non c'è alcuna trasformazione radicale nel modello che propone, mentre ci sarebbe in quello sopra delineato che INCLUDE ANCHE, non è COMPOSTO ESCLUSIVAMENTE, dall'introduzione del reddito di cittadinanza.
Grazie dell'attenzione
Giuliana Cupi

LAVORO, QUANTITATIVE EASINGS E POLITICHE MONETARIE

Ottimo articolo, quello di Laura Pennacchi. Siamo tutti noi lontani anni luce da quel punto magico dove il denaro si trasforma in potere ed il potere in denaro. Siamo lontani anni luce perche' quel punto e' protetto dall'invisibilita' , quella distanza fra la piazza ed il Palazzo che Guicciardini definiva "incolmabile" proprio perche' il Palazzo era avvolto nella nebbia.
Le politiche monetarie moderne sono una parte di quella nebbia : le logiche, i meccanismi sono qualitativamente quelle degli Easing che le Banche Centrali effettuavano gia' all'inizio del secolo scorso. La differenza e' la velocita' di produzione della moneta in modo convenzionale e non convenzionale e le quantita' accumulate in modo straordinario ed asimmetrico. Una asimmetria che piega i meccanismi democratici, il sistema dei controlli ed ad ogni passo determina condizioni che facilitano un passo successivo piu' grande.
Un sistema di suzione della liquidita', un sistema di produzione della liquidita', un attraente sistema di Paesi emergenti dove ricreare le condizioni della nuova schiavitu' : l'indebitamento senza ritorno, il pagamento eterno degli interessi.
Il denaro dunque si concentra nel riprodurre se stesso saltando la lunga e noiosa filiera dell'investimento, della sua remunerativita': la filiera di tempi non piu' accettabili perche' si misurano in anni quando l'unita' di misura e' il millisecondo. Il lavoro e' un oggetto di antiquariato dunque. Se esso poi interessa la stragrande maggioranza dell'umanita', poco conta.
Ecco dunque che il messaggio di Laura Pennacchi va oltre : lavoro di cittadinanza e' affermare la premazia del potere della democrazia rispetti ai poteri quantitativi che vogliono metterla all'angolo. Magari permettendo l'erogazione di "redditi di cittadinanza" perche' l'elemosina non spaventa chi la eroga e rende schiavo chi la riceve.
Il lavoro dunque come indice di vitalita' del sistema democratico e del suo sistema circolatorio : la redistribuzione delle ricchezze

lavorare meno lavorare tutti

"A me parrebbe che le priorità siano oggi le seguenti: fornire risposte strutturali ai problemi strutturali che presentano le economie e le società avanzate (e strutturali vuol dire richiedenti trasformazioni radicali, non congiunturali, non adattive)..."

Concordo che c'è bisogno di risposte strutturali, ma qui c'è una strana idea di che cos'è "strutturale" nel mondo in cui viviamo.
Nel modo di produzione capitalistico, strutturale è il rapporto di lavoro salariato.
Il reddito di cittadinanza diminuisce il potere di coercizione al lavoro salariato e, quindi, aumenta la capacità di resistenza sul lavoro vivo (tasso di sfruttamento).
Per contro, vivere senza lavorare può determinare uno sviluppo della potenza creativa, ma anche dar sfogo a istinti meno nobili delle persone.
Ergo, perchè non riprendere il discorso abbandonato dalla sinistra sul tempo di lavoro?
Ben venga il creare posti di lavoro, ma finalizzati non solo e non tanto all'ambiente ecc, bensì costitutivamente organizzati al fine di "lavorare meno, lavorare tutti".

Contro il lavoro

Non concordo affatto con l'articolo, in quanto parte da un punto di vista paternalista. Lo "Stato papà" che trova il lavoro ai sudditi inconsapevoli. Gli disegna il confine dentro il quale possono muoversi. Perché è un papà, e lui sì che sa quali sono le "capacità" e quindi il posto di ognuno! Io invece sono un assertore dell'autodeterminazione della propria vita e quindi anche della propria occupazione. Non voglio neanche chiamarlo lavoro, perché trovo il termine orribile. Nessuno dovrebbe lavorare, ma ci si dovrebbe occupare di qualcosa. Qualcosa di soddisfacente per se stessi e per gli altri. Lo Stato, semmai, dovrebbe mettere tutti e tutte nelle condizioni di poter scegliere liberamente e al meglio circa il proprio futuro. In modo che ognun* sappia riconoscere e valorizzare le proprie capacità e propensioni. Ma che ognun* faccia quello che vuole e che lo/la rende felice! Lavoriamo su questo? Piuttosto che star lì a spremersi le meningi su come "creare" posti di lavoro! CREARE!?! Ma siamo matti/e!!! Diamo a tutti/e il reddito di esistenza, distribuiamo "i soldi del monopoli" e ragioniamo insieme sulle regole del gioco. Quelle sì che possono garantire eguaglianza e valorizzazione delle capacità! Togliamo al denaro il suo primato e portiamolo in fondo nella nostra lista di desiderata. Deve tornare ad essere solo uno strumento. Per fare le cose "BELLE", quelle che ci piacciono, che fanno stare bene noi e chi ci circonda.

La formazione e le repsonsabilità delle classi dirigenti

La creazione diretta di lavoro da parte dello Stato e in generale da parte di tutti coloro che ne condividono l'idea è cosa auspicabile. Una proposta già lanciata dal sociologo del lavoro L. Gallino: http://cyphersnap.blogspot.it/2012/12/nascita-di-un-movimento.html Ahimè lo stesso sociologo ha poi rivolto il proprio interesse politico dal movimento cui era il primo dei promotori: "Cambiare si può" alla sinistra al governo!?
Quello che mi preme sottolineare: perchè nell'articolo si parla solo di giovani? Non capisco perchè tra le tante anomalie italiane - come quella dell'assenza del reddito di cittadinanza; assente solo da noi ed Ungheria - ci sia questo binomio: disoccupazione giovanile dal momento che i disoccupati over 40 ad esempio sono tantissimi e si trovano in una situazione ben più drammatica; e loro che farebbero? Se è vero che il lessico che viene scelto sottende sempre uno sguardo prospettico preciso (si pensi al famoso libro di Klemperer: "La lingua del Terzo Reich" dove viene ben descritta l'illustrazione del processo di formazione di una nuova lingua del potere) mi chiedo perchè lo si sceglie in questo articolo; accettando implicitamente l'impostazione legata alla visione di una classe dirigente che invece di far pagare gli errori a chi li ha commessi continua a muoversi nel loro solco lamentandosi poi del non riuscire a guardare oltre il recinto dell'orticello cui ora inevitabilmente ci si trova!
Perchè ad esempio non si segue, per guardare a soluzioni strutturali, l'esempio dell'Islanda: http://www.ilcambiamento.it/lontano_riflettori/islanda_rivoluzione_silenziosa.html ?
Che con un referendum dal basso è riuscita (mediante una riforma di legge che ha cambiato quelle regole "drogate" da una classe politica ed imprenditoriale incontentabile) a far venir fuori quelle risorse economiche che si pensava non esistessere semplicemente da coloro che le avevano "distratte": le banche insieme a quei politici che le avevano assecondate!
Il rischio è quello di vedere l'Italia sempre più coincidere con l'Argentina dei primi anni del 2005 che questo documentario di F. Solanas bene descrive: "Diario del saccheggio" http://ildocumento.it/economia/diario-del-saccheggio-2003.html
Certo che non è cambiato quasi nulla dalla descrizione che Ippolito Nievo faceva dei regnanti siciliani e della Sicilia in generale al suo sbarco con i mille di Garibaldi; un luogo dove si rubava a tutti i livelli dagli ultimi dei poveracci ai nobili!

E' una guerra, occorre un punto di vista da economia di guerra

Anche se siamo il Paese degli eufemismi e dei legulei, se bastasse dire “lavoro di cittadinanza” per crearlo saremmo a posto. Purtroppo, è ovvio, non è così. Occorre un mix di misure: agire sulla crescita e potenziare gli strumenti di protezione sociale.

PUNTI FERMI DI MACROSCENARIO.
a) l'attuale crisi economica ed occupazionale è grave, di sistema e sarà lunga (forse almeno 15 anni, perché riflette il riequilibrio della produzione, della ricchezza e del benessere in ambito planetario); b) ad essa preesisteva, in Italia, uno dei maggiori tassi EFFETTIVI di disoccupazione (testimoniato dal tasso di occupazione, agli ultimi posti nei Paesi UE); c) la crisi ha prodotto un aumento della disoccupazione; d) la ripresa tarda a venire e comunque riassorbirà solo una parte di questi ultimi; e) la crisi ha accresciuto le disuguaglianze sociali sia in Italia che nel mondo; f) pochi giorni di scambi sui mercati finanziari equivalgono a un anno di scambi di beni e servizi; g) nel 1700, la Cina era il Paese più ricco del mondo e l’India (Indostan) tra i più ricchi; il pendolo della storia ha ripreso ad oscillare verso l’Oriente; parecchi ancora non vedono (o non vogliono vedere?) la complessità (anche se ormai è piuttosto semplice da interpretare) del mondo in cui viviamo, investito da un planetario processo di riequilibrio, con conseguenti morti e feriti nel nostro campo, che non può – se non riusciamo a correre ai ripari – non innescare una lotta darwiniana, dove un’esigua minoranza – aiutata da milioni di utili idioti, parte ben retribuita, la più parte gratis – detta le regole del gioco, in parte con motivazioni egoistiche e predatorie, ma in parte – ed è questo il punto – per far fronte alla nuove, mutate condizioni della competizione mondiale; h) per la Cina, sta succedendo quello che successe 40 anni fa col Giappone: all’inizio copiavano i prodotti occidentali, vendendo a prezzi inferiori potendo anche contare su salari bassi, poi piano piano, nell'arco di una decina d'anni, aumentarono sia la qualità che i costi di produzione e quindi i prezzi di vendita (ora i salari giapponesi - ma anche i prezzi interni - sono comparativamente altissimi); succederà la stessa cosa con la Cina, ma il processo di allineamento dei costi di produzione e dei prezzi di vendita sarà più lungo (almeno una quindicina d'anni) perché i Cinesi sono 1,3 mld (contro i 130 mln di Giapponesi) e quindi hanno un serbatoio di manodopera a bassissimo costo da cui poter attingere molto più cospicuo; i) si tratta di governare al meglio questo processo che sta arricchendo un’esigua minoranza ed impoverendo tutti gli altri.

E’ UNA GUERRA.
Questa è una guerra economica: occorre perciò un punto di vista da economia di “guerra”.

I DATI.
E’ inutile fare ammuina con i termini; si deve partire dai dati: i disoccupati sono quasi 3 milioni; quelli in CIG (di aziende ormai decotte) 500 mila; gli inattivi 15-64 anni sono 14 milioni (in maggioranza donne e al Sud); se si volesse dare a tutti un reddito di cittadinanza, ipotizzando 500 € al mese x 12 mensilità, occorrerebbero (500x12x17.500.000) 105 mld. Se se ne disciplinasse l’erogazione introducendo una griglia di accesso minimale (almeno la disponibilità a: iscriversi al Centro per l’impiego; frequentare corsi di formazione; prestare lavoro socialmente utile), i potenziali beneficiari scenderebbero presumibilmente a 6 milioni ed il fabbisogno finanziario si ridurrebbe a 36 mld. Forse ancora troppi. Occorre quindi ridurre l’importo a 300 € al mese, il che porterebbe il fabbisogno a 21,6 mld.

PIANO DI EDILIZIA PUBBLICA E POPOLARE.
Va considerato che al reddito di cittadinanza (o come lo si voglia chiamare) di 300 € va abbinato in-di-spen-sa-bil-men-te un piano corposo pluriennale di alloggi pubblici di qualità (sovvenzionato, convenzionato e autocostruito, nonché recuperando edilizia da rottamare) per dare anche un alloggio ad affitto sociale, che è l’elemento imprescindibile che rende congruo un reddito di quell’ammontare; ipotizzando un costo/appartamento di 100 mila € per 25.000-50.000 appartamenti all’anno, vanno reperiti altri 2,5-5 mld.

RISORSE.
Le risorse per la crescita (e per la riduzione del debito e conseguente riduzione degli interessi) e per il welfare possono venire soltanto prendendoli da quelli che i soldi ce li hanno, dopo che i 330 mld cumulati di manovre finanziarie varate nella scorsa legislatura sono stati addossati in gran parte sui ceti medio e basso e persino sui poveri (taglio della spesa sociale), e cioè:
– all’interno, a) dall'introduzione di un'imposta patrimoniale ordinaria (e/o prestito forzoso) sui grandi patrimoni, proposta persino, nel settembre 2011, dalle associazioni degli imprenditori, come contropartita della riforma del lavoro e delle pensioni di anzianità; ma, come si dice, "passata la festa, gabbato lo santo"; b) dalla ritassazione una tantum dei capitali scudati e dalla tassazione di quelli esportati in Svizzera; c) da una maggiore contribuzione dei redditi alti ai servizi pubblici; d) da un aumento dell’IVA sui beni di lusso; e) dalla lotta all’evasione fiscale e contributiva (150 mld); f) da una lotta alle false indennità d’invalidità (16 mld con le indennità di accompagnamento); g) dalla spending revuew; ed h) da una riduzione (tramite il turn-over) dei dipendenti pubblici;
- all’esterno (UE), a) dal varo dei project bond e degli EuroUnionBond; e b) dalla TTF.

reddito o lavoro

..sono d'accordo che è infinitamente migliore il lavoro e non il reddito garantito, però nell'esposizione non si chiarisce il punto cardine da cui poi poter applicare queste politiche.
Si citano infatti anche gli USA e il Giappone che in qualche modo stanno applicando politiche post-keynesiane, ma c'è un "piccolo" particolare, ossia che FED e BOJ (autorizzati dai relativi governi) possono "stampare" moneta per il fatto che una moneta loro la possiedono.
Ma come forse sfugge ai più, i 17 paesi che adottano l'Euro (Italia compresa) non sono possessori di tale moneta, ergo non sono più sovrani e non decidono più se, quando e quanta "stamparne".
Questo comporta l'impossibilità pratica di adottare tali politiche "espansive", e la "soluzione più europa" è piuttosto fuorviante, sia perchè già ora volendo la BCE potrebbe pompare liquidi e non lo sta facendo, sia perchè nei tempi biblici che la messa in pratica di una "stati uniti d'europa" comporterebbe saremo tutti.... come nel lungo periodo... diciamo "estinti".
La via più pratica e percorribile mi pare quella indicata dalla Modern Money Theory che in Italia è divulgata tramite questo sito (www.memmt.info)

Saluti

Ridefinizione del Patto Sociale - proposta politica



1) CIO' CHE CI E' SFUGGITO


Due sono le questioni che attendono urgentemente la nostra attenzione:

- l'assenza di un reale Stato di democrazia;
- la mancanza di un moderno sistema lavoro.

Per capire come risolvere entrambi i problemi, occorre prendere coscienza che negli ultimi sei decenni insegnanti e docenti, costituzionalisti e giuristi, ogni figura dello Stato e pubblico dipendente, si sono trovati in forte conflitto d'interessi. Per conservare il privilegio di una eterna impersonificazione del potere o vicinanza ad esso, hanno diffuso una interpretazione della democrazia ridotta ai minimi termini, in cui il coinvolgimento dei cittadini era limitato al solo momento elettorale. Perfino nella sua forma più celebrata, la cosiddetta "democrazia diretta", è stata concepita una partecipazione ristretta al solo ambito delle DECISIONI, omettendo le ben più importanti, onnipotenti ed onnipresenti, MANSIONI pubbliche.



2) CIO' CHE NON DOBBIAMO MANCARE


Affinché la vita inizi a girare per il verso giusto, occorre costruire un sistema lavoro aperto e dinamico, FLUIDO, in cui le attività produttive vengano tarate sulla base delle variabili esigenze dei lavoratori e commerciali e sia in grado di accogliere tutti gli umani che desiderino parteciparvi, potendo ognuno godere di un LAVORO MINIMO GARANTITO, coi periodi tra un impiego e l'altro coperti da un REDDITO da CITTADINANZA.

Per ottenere un tale moderno sistema d'organizzazione del lavoro, non possiamo non dedicarci subito alla ristrutturazione del PUBBLICO IMPIEGO. Questo è una parte importante della nostra Res Publica e va dunque aperto e partecipato, quindi assegnato a TEMPO DETERMINATO, da chiunque voglia prestare servizio, purché dotato dei requisiti necessari al ruolo. La temporaneità, lungi dall'essere una sciagura funzionale o reddituale, è proprio quel che ci vuole per assicurare una costante evoluzione dei servizi e la totale scomparsa della corruzione.

Il settore pubblico, riorganizzato su basi eque e partecipative, privilegerà quell'aspirante lavoratore che abbia prestato servizio, nel pubblico o nel privato, meno di altri. In tal modo fornirà quell'ECONOMIA di BASE, EQUA e SOLIDALE, quel serbatoio di impieghi, da espandersi o contrarsi sulla base delle esigenze dei singoli e della società, in grado di garantire ad ognuno una vita degna di essere vissuta. Il PUBBLICO IMPIEGO PARTECIPATO è anche necessario al fine di liberare il settore privato dai gravami sociali di cui ingiustamente soffre oggi.

Al punto in cui siamo è inevitabile, per risolvere non solo problemi specifici ma proprio per fornirci di un energico propellente economico, osservare il nostro sistema nel suo insieme e modificarlo di conseguenza. Si tratta di far sì che il settore pubblico si faccia carico dei suoi doveri democratici e di liberare il settore privato da incombenze che non gli competono.



3) RIDEFINIZIONE DEL PATTO SOCIALE


Una tale ristrutturazione della società abbisogna di essere percepita innanzitutto da noi stessi proponenti in tutti i suoi aspetti e potenzialità. Va poi comunicata estesamente ai cittadini al fine che anch'essi l'apprezzino e desiderino. Proprio in ciò si configura la riformulazione del nostro PATTO SOCIALE. Concretamente il progetto andrà realizzato attivando un sito web, confezionato intorno ad un software gestionale in grado di evolvere costantemente per avere una taratura sempre perfetta del sistema, con cui interfacciare domanda ed offerta di lavoro pubblico, meglio ancora se su base europea oltre che nazionale. Su questo sito potranno essere pure segnalate le attività improduttive al fine di virare energie umane e risorse finanziarie dove invece più opportuno. A quest'ultimo riguardo, alla moneta unica europea si affianchi anche più d'una nuova valuta locale (non la lira, ché ci porterebbe detrimento) al fine si abbia piena libertà di gestione nell'economia interna.


Realizziamo questo progetto e diverremo
il PAESE di RIFERIMENTO per l'intero Globo.


Danilo D'Antonio

PUBBLICO IMPIEGO DEMOCRATICO
http://www.hyperlinker.com/ars/pre_index_it.htm

Reddito di cittadinanza:Ma è proprio questo il problema?

Ci sono Migliaia di lavoratrici e lavoratori che a 50 e più anni hanno perso il posto di lavoro e altri lo perderanno.
I processi di riorganizzazione della produzione daranno prospettive ai giovani con elevato titolo di studio ma difficilmente faranno rientrare in produzione la maggior parte di queste persone che si troveranno senza pensione e senza ammortizzatori.
Più che parlare di reddito di cittadinanza sarebbe opportuno affrontare questo problema assieme a quello del futuro previdenziale dei giovani.
Invece questi argomenti che le persone e le famiglie vivono quotidianamente sono trascurati , forse perchè richiedono risposte concrete (e forse politicamente poco avvicenti) e dunque strumenti e risorse da mettere subito a disposizione.
Invece si continua con cassa in deroga, invenzioni quali la staffetta generazionale o complicati ragionamenti sul reddito di cittadinanza mettendo cappelli più o meno sofisticati sulla realtà e tirando a campare
Dopo i 50 anni senza qualifica specifica non ci sono corsi di formazione che diano risposte adeguate a tutti quei lavoratori che hanno lavorato in aziende nelle quali la professionalità non era richiesta. Una grande parte è destinata a restare fuori dal lavoro ed il problema si presenta a mio avviso più grande di quello della disoccupazione giovanile.
Così come il fatto che una grande parte dei giovani costituirà un esercito di nuovi poveri è dibattito da talk show più che argomento che appassioni o turbi gli economisti di varia estrazione. Ne vogliamo parlare?