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Il nuovo accordo farà davvero decollare i contratti?
Il nuovo accordo sui contratti che ha visto la firma di Cisl e Uil e l'isolamento della Cgil merita considerazioni di carattere politico e di carattere economico. Dal punto di vista politiico e di politica sindacale l'isolamento della Cgil è figlio della coincidenza di due volontà: la volontà del ministro Sacconi che voleva lasciar fuori dall'accordo la Cgil (tanto è vero che nella trattativa non si è realmente trattato sull'indice dei prezzi proposto dal governo che era particolarmente inviso alla Cgil) e probabilmente della volontà della Cgil stessa che ha trovato nel mancato accordo un'occasione per giocare una partita politica che la vede sul lato sinistro del partito democratico.
Le ragioni della mancata firma appaiono quindi molto politiche e poco di merito, ma un giudizio di merito sull’accordo si può egualmente tentare di dare.
Questo accordo è stato firmato con l’intento di spostare la negoziazione di parte del salario dalla contrattazione nazionale a quella di secondo livello; quindi ci sembra corretto valutare l’efficacia di questo accordo in relazione a un criterio preciso: l’estensione del numero di aziende che stipuleranno contratti di secondo livello. Non quindi l’incidenza della contrattazione di secondo livello nelle imprese che fanno già contrattazione aziendale, ma la diffusione della contrattazione aziendale in un numero maggiore di imprese.
I punti ancora incerti di questo accordo che ne impediscono la valutazione sul piano economico sono tre. Il primo riguarda l’utilizzo del nuovo indice di inflazione che invece di essere inflazione programmata (un tasso fisso sulla base degli obiettivi di inflazione) è inflazione prevista (una previsione sulla base non dei desiderata ma degli indicatori reali di inflazione) al netto dei beni petroliferi importati. Alcune simulazioni elaborate dalla CGIL Lombardia (link) e dalla Fondazione Debenedetti mostrano come la tutela dall’inflazione che offrirebbe il nuovo indice convenuto sarebbe minore di quella precedente basata sull’inflazione programmata, anche in conseguenza del fatto che il salario base di riferimento sarebbe contrattato nei contratti settoriali. Fin qui poco male, nel senso che se il nuovo accordo è stato firmato per spostare il baricentro della contrattazione dal contratto nazionale a quello di secondo livello, ovviamente non si può che ridurre la quota di salario che é determinata dal contratto nazionale.
Il secondo punto diventa quindi centrale: quanto saranno in grado i lavoratori di recuperare la quota di salario perduto a livello nazionale con la contrattazione decentrata? L’accordo prevede due modi per recuperare: la contrattazione aziendale o, in mancanza di contrattazione aziendale, l’elemento retributivo di garanzia.
Tutti si auspicano che si diffonda di più la contrattazione aziendale e l’accordo prevede tre modi che la facilitino: che vi sia un diritto delle rappresentanze sindacali ad instaurare la contrattazione in azienda, che i premi di produttività siano detassati, che la contrattazione si possa svolgere anche al ribasso. Purtroppo nessuno dei tre modi, a nostro modo di vedere, offre la garanzia di una effettiva maggior diffusione della contrattazione aziendale. Primo perché un diritto a contrattare in azienda non comporta nessun obbligo per il datore di lavoro a concludere l’accordo; secondo perché i premi di produttività sono detassati ma questa misura è temporanea e, oltre ad essere largamente inutile e costosa in periodo di crisi economica, corre il rischio di incentivare una opportunistica riclassificazione di altre voci di salario come premi di produttività; infine perché una contrattazione al ribasso può forse incentivare le aziende a praticare la contrattazione aziendale in periodi di crisi aziendali o di mercato, ma certo non consente un recupero della capacità di acquisto dei salari.
Rimane quindi la contrattazione dell’elemento retributivo di garanzia. Ma la determinazione della sua entità non è stabilita dall’accordo, ma è integralmente rimessa alla contrattazione di settore e, in assenza di parametri guida che ne fissino i criteri, è alla fine rimessa ai rapporti di forza tra sindacato e datori di lavoro sul piano nazionale di ogni categoria contrattuale.
Il giudizio nel merito di questo nuovo accordo è quindi molto incerto. È dubbio che riesca nell’intento di incentivare la diffusione del contratto di secondo livello perché gli incentivi offerti alle parti sindacali e datoriali non sono quelli giusti.
Indubbio, però, è anche che il vecchio modello di contrattazione non funzionasse e una valorizzazione del secondo livello di contrattazione fosse necessario, specialmente per la determinazione di incrementi retributivi connessi a miglioramenti della produttività individuale e/o aziendale. Da questo punto di vista forse la CGIL avrebbe potuto rischiare di più e accettare la sfida di sostenere e far sviluppare una contrattazione di secondo livello ma di ambito territoriale (attraverso le confederazioni regionali) piuttosto che aziendale. Se ha rifiutato la firma solo per opportunità politica lo vedremo presto quando si tratterà di fare un accordo sulla rappresentanza sui luoghi di lavoro.