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Pensioni, una bugia tira l'altra

15/09/2010

Le promesse non mantenute sulle pensioni al minimo, i numeri truccati su fondi e Tfr, le strane promozioni dell'ultimora nella Ragioneria. E altro ancora

Sulle pensioni si scaricano spesso pregiudiziali ideologiche e interessi di parte inconfessabili; non stupisce, allora, che la manipolazione dell’informazione sia all’ordine del giorno. Proviamo allora a toglierci qualche sassolino dalle scarpe.

Iniziamo con una proposta per la prossima (?) campagna elettorale: si potrebbe promettere di portare tutte le pensioni ad una certa cifra minima, diciamo 1 milione di vecchie lire al mese. Come dite, già fatto dal governo Berlusconi nel 2002? Non proprio, perché i beneficiari di quell’intervento tanto propagandato non sono stati gli asseriti 2 milioni, bensì (dati ufficiali) solo 1,5 milioni, compresi quelli che hanno ricevuto un aumento di solo pochi euro. Gli stringenti requisiti anagrafici (70 anni) e di reddito fanno sì che, tuttora, il milione di invalidi civili prenda una pensione media di 250 euro mensili, gli 800mila pensionati sociali arrivino attorno ai 370 euro, i 350mila pensionati di guerra a 340. Nel comparto delle pensioni “lavorative” (vecchiaia, invalidità e superstiti), poi, i 4,3 milioni di trattamenti integrati al minimo non superano, in media, i 450 euro mensili. Insomma, se qualcuno vuole farsi avanti, spazio per qualche promessa ancora ce n’è.

 

Più rischioso da portare in campagna elettorale è, invece, il tema dell’età di pensionamento. Ci si è già scottata Rifondazione nel 2007, quando aveva scommesso che impuntarsi sull’abolizione del famoso “scalone” introdotto da Maroni nel 2004 (l’aumento, dal 2008, di 3 anni dell’età minima di pensionamento) le avrebbe portato milioni di voti. Non è proprio finita così. D’altra parte, è vero che Pd e sindacati condividono, nei fatti, pienamente la politica di aumento dell’età di pensionamento sostenuta dall’Unione Europea e dalla destra. Non è un caso che Tremonti possa oggi rivendicare che il nuovo aumento dell’età pensionabile, contenuto nel decreto dello scorso luglio, col quale è stato, fra l’altro, definitivamente superato il limite dei 65 anni, sia stato deliberato senza un’ora di sciopero e con l’opposizione parlamentare e sindacale volutamente distratte. Neanche l’aumento di 5 anni dell’età di pensionamento delle dipendenti pubbliche ha suscitato clamori, ed è scontato che l’aumento verrà esteso a tutte le lavoratrici appena possibile. Il bello è che, in questo modo, si costringono a rimanere in servizio ad oltranza lavoratori che tipicamente hanno la V elementare o poco più (il grado di istruzione dei lavoratori anziani è molto basso in Italia) mentre si tengono fuori dal mercato del lavoro i giovani laureati…. Poi qualcuno si chiede come mai in Italia la produttività è tanto bassa.

In realtà, se i sindacati non si sono strappati le vesti per i ripetuti aumenti dell’età di pensionamento susseguitisi negli anni, un po’ di rumore a tratti l’hanno fatto, ma strumentale, finalizzato ad ottenere altro. Un esempio per tutti? La perseveranza con la quale (invero spalleggiati anche da partiti e organizzazioni padronali), hanno preteso la rimozione del divieto di cumulo fra redditi da pensione e da lavoro. Prima, o lavoravi o facevi il pensionato; adesso, sarebbe un pazzo chi, avendo garanzie di poter continuare a lavorare, rinunciasse a pensionarsi appena possibile. Si pensi, ad esempio, ai commercianti, che possono continuare a stare dietro il banco, solo con una pensione in più; o a molti funzionari politici o sindacali, che ora si possono godere una bella rendita pensionistica da affiancare ai redditi dell’attività “impegnata”. Così, da un lato si aumenta l’età pensionabile e si proclama al mondo la necessità di rinviare il pensionamento, dall’altro si fa in modo che molti si pensionino il prima possibile. Il bello è che l’ultimo vincolo ad essere stato rimosso (nel 2008) era anche l’unico privo di senso: quello che riguardava i lavoratori assoggettati al nuovo sistema contributivo, per i quali in realtà non rileva che continuino a lavorare (e contribuire) da pensionati, dato che il sistema pensionistico si limita a restituirgli, sotto forma di pensione, i contributi pagati nel corso della vita lavorativa.

Ma una certa pratica del predicare bene e razzolare male la ritroviamo anche nel santuario del rigore, nell’istituzione che, spesso sola contro tutti, si è erta a baluardo dell’equilibrio dei conti e del contenimento della spesa pensionistica: la Ragioneria Generale dello Stato. Invero, in un dibattito pensionistico tutto proiettato alla riforma contributiva introdotta nel 1995, pochi notano che ancora per quattro o cinque anni andranno in pensione quasi esclusivamente lavoratori assoggettati al vecchio sistema retributivo. In particolare, per i dipendenti pubblici che avevano più di diciotto anni di contributi nel 1995, la pensione è ancora calcolata in percentuale della retribuzione finale, cosicché, chi riesce a farsi promuovere anche per un solo mese prima di andare in pensione, avrà un enorme vantaggio. Varrebbe allora la pena di chiedere al Ragioniere Generale se non considera un po’ incoerente che proprio la Ragioneria continui ad utilizzare sistematicamente tale meccanismo, devastante per le finanze pubbliche, di promozione ai più alti gradi dei propri dirigenti poco prima del pensionamento.

Un ultimo sassolino riguarda i rendimenti dei fondi pensione. La stampa, soprattutto quella economica, continua a riproporre un vero falso: che i dati dimostrerebbero ormai che i fondi pensione sono più convenienti del Tfr. A tal fine, quando i mercati finanziari salgono, vengono riportati come rappresentativi i rendimenti degli ultimi mesi; quando calano, vengono presentate improbabili analisi su orizzonti di tempo lunghi. In ciò, si deve dire, la cattiva informazione è aiutata anche dalla, per il resto lodevole, Covip, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, che, ad un certo punto, ha deciso di far partire i dati ufficiali sui rendimenti dal 2003, “scordandosi” che raccoglieva e pubblicava i dati fin dal 1999. La scelta del 2003 non è casuale, dato che nel 2003 e 2004 i corsi azionari sono saliti molto, mentre nel 2001 e 2002 sono scesi parecchio. Di fatto, scegliendo opportunamente l’anno di partenza nel punto di minimo, si fa sembrare che le cose siano andate molto meglio del reale…. Se, invece, andiamo ad utilizzare tutti i dati disponibili, il quadro è un altro: dal 1999, al netto dell’inflazione, il TFR ha reso circa lo 0,6% annuo, da qualunque anno si parta. Sicuramente poco, ma i fondi pensione non hanno fatto meglio: ad un livello molto simile a quello del TFR arrivano i fondi pensione che investono solo in obbligazioni, mentre, i fondi che investono anche sull’azionario sono caratterizzati da una forte variabilità annua dei rendimenti, che, in molti casi, ad esempio per chi fosse entrato nel 2001, 2002, 2006, 2007, 2008, risultano addirittura, al netto dell’inflazione, negativi. Bisogna prendere atto che (purtroppo) i fondi pensione italiani non rendono significativamente più del TFR, a meno di non rischiare, investendo una parte rilevante del risparmio pensionistico nei comparti azionari; ma, in questo caso, i rischi sono elevati e vi è una effettiva possibilità non solo di avere rendimenti bassi, ma addirittura di perdere parte del capitale. Per fare l’esempio peggiore, i fondi pensione azionari italiani nel 2008 hanno perso un quarto del patrimonio, perdita non ancora riassorbita. Non è andata meglio all’estero, se l’OCSE ci dice che la crisi ha fatto evaporare in un solo anno, considerando i paesi nei quali i fondi pensione sono più sviluppati, il 35% del risparmio pensionistico in Irlanda, il 24% negli Stati Uniti, il 14% nel Regno Unito.

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