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Reddito e lavoro devono coincidere
Lavoro e reddito di cittadinanza non vanno posti in alternativa ma devono procedere insieme. La loro separazione sarebbe foriera di gravi problemi personali, economici e sociali
Buon senso, logica economica e la nostra stessa Costituzione, pure richiamata da Giorgio Lunghini, ci dicono che reddito di cittadinanza e lavoro di cittadinanza non vanno posti in alternativa, ma possono e debbono coincidere.
La Costituzione
La nostra Costituzione, oltre ad affermare che la Repubblica democratica è fondata sul lavoro ( art. 1), riconosce quest’ultimo come un diritto ed insieme un dovere. E l’art. 4 non lascia dubbi: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Ma altri articoli non meno rilevanti (in particolare quelli dei titoli I, II, III e IV, dedicati rispettivamente ai rapporti civili, etico – sociali, economici e politici), configurano un disegno e un progetto organico di democrazia industriale (aziendale), economica, sociale e politica, che le forze progressiste e lo stesso sindacato non hanno generalmente colto nella sua interezza.
Lo esprime bene il filosofo Guido Calogero: “La più solida democrazia nasce dalla molteplicità delle democrazie”.
La logica economica
In quanto alla logica economica, basti ricordare la convinzione di Keynes che “i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria ed iniqua della ricchezza e del reddito”. Sono due fallimenti che si causano reciprocamente e che vanno affrontati congiuntamente.
Oggi, lo possiamo meglio comprendere dall’esame delle vicende successive ai “trenta gloriosi” ( anni ’40 – ’70) con l’abbandono delle politiche keynesiane e post keynesiane e del welfare che mettevano al primo posto, e come presupposto del welfare stesso, l’obiettivo della piena occupazione (che si ripaga tramite il moltiplicatore).
Uno studio inglese, nell’immediato dopoguerra, (trad. it. L’economia della piena occupazione, Rosenberg & Sellier, Torino, 1979 ), metteva ben in chiaro che, per debellare la disoccupazione, era necessario ricorrere ad interventi pervasivi della mano pubblica, “limitatori, incentivanti, sostituitivi”; infatti: “tutti i ‘controlli’ direttamente associati con il pieno impiego si rendono necessari, in effetti, per l’assunzione dei compiti precedentemente svolti dalla disoccupazione e al ciclo economico. E non vi è alcuna ragione perché questi controlli non debbano essere democratici al pari di ogni funzione dello Stato. L’ideale è di sostituire al ‘controllo’ antisociale della disoccupazione, controlli consapevolmente adottati e manovrati democraticamente nell’interesse pubblico”. Federico Caffè aggiungeva, nella sua introduzione al volume: “le modificazioni imposte nel tempo trascorso rispetto all’epoca in cui questi convincimenti venivano espressi non dipendono, a mio avviso, dal fatto di aver costatato che la gestione dei controlli è difficile, ma dall’aver gradualmente dimenticato quell’ideale”.
Una crisi, quella attuale, nata dalla pretesa di separare l’efficienza dall’equità (prima l’efficienza capitalistica, poi la redistribuzione, una separazione che risale almeno a J. S. Mill e che è alla base di tutte le politiche dei due tempi); il mercato dalla democrazia (autoritarismo ed opacità nella produzione e nella economia e – dimidiata - “democrazia” nel politico); la finanza dalla produzione (ma che finisce prima o poi a ricadere rovinosamente sull’economia reale), l’ “Homo dignus” (“dignità” fondata sul lavoro sociale che “è venuta ad integrare i principi fondamentali già consolidati – libertà, eguaglianza, solidarietà -, facendo corpo con essi e imponendo una reinterpretazione in una logica di indivisibilità”(i) dall’ “Homo oeconomicus” dello sciocco utilitarista (A. K. Sen), con separazione dell’ “economics” dall’economia civile di Sylos, Zamagni e – a ben vedere - dello stesso Smith .
Se si prende a riferimento il modello della dinamica intersettoriale di Pasinetti dove lo sviluppo (o il declino) delle varie industrie e i relativi coefficienti di lavoro dipendono dalle variazioni della domanda ( interna ed internazionale) per i rispettivi prodotti e dalla differenziata produttività indotta dalle innovazioni, una garanzia di piena e durevole occupazione per un paese, non può che richiedere consapevoli politiche economiche e sociali.(ii)
La stessa tendenza storica della dinamica capitalistica vede la dislocazione della forza lavoro dai settori primari e secondari verso quelli terziari. Con incrementi di produttività che rallentano in direzione dei servizi, e in modo differenziato tra questi (Baumol), con il limite logico dei servizi alla persona (almeno di non volerli sostituire con i robot). Servizi, questi ultimi, che poco si prestano ad una produzione capitalistica, cioè al perseguimento del massimo profitto.
Punto centrale è la redistribuzione della maggiore produttività dei settori che la riscontrano, di volta in volta, in quel processo prima ricordato. Ciò può avvenire in più modi. Dalla redistribuzione del lavoro con diminuzione delle ore lavorate, con diminuzione della occupazione e dei prezzi, con la tassazione fortemente progressiva, con costituzione di fondi solidali nazionali contrattati tra le parti sociali da reimpiegare per l’occupazione di mercato e di non mercato(iii).
Scriveva Caffè: “L’esigenza di eliminare la destinazione a lavori squalificanti, e per l’intera esistenza, di una frazione soltanto, della popolazione è stata da tempo lucidamente analizzata presso la cattedra di pedagogia della facoltà di lettere dell’Università di Roma e ha portato ad esplicitare proposte per un ‘servizio civile obbligatorio di lavoro’ che dia diritto a un ‘credito educativo’ da spendere in ‘periodi educazione permanente nel corso della vita produttiva” (iv). E riprese, da un articolo dell’Economist (!), il concetto dello Stato come “occupatore di ultima istanza”; che non ha nulla a che fare con i lavori inutili ma da riferire a quanto detto sopra. Garanzia di un’adeguata domanda globale, ma anche una gestione selettiva della stessa (v), oltre che politiche attive del lavoro.
Una questione di buon senso
Ci conforta, infine, lo stesso buon senso. Lo espresse in modo appassionato, nell’immediato dopoguerra, Giorgio La Pira, richiamandosi al Beveridge: “La disoccupazione è un consumo senza corrispettivo di produzione: è, perciò, uno sperpero di forze produttive (oltre che essere un disastrameno morale e spirituale della persona). E la ragione è evidente: i disoccupati esistono: se esistono devono vivere: per vivere devono consumare: è questo il paradosso economico della disoccupazione”(vi).
Giuseppe Bagarella, edile da tre mesi senza lavoro, si suicida lasciando un biglietto: “Se non lavoro non ho dignità. Adesso mi tolgo dallo stato di disoccupazione”.
Il noto psicologo Erickson ci avverte che si diventa veramente adulti quando si riconosce di aver bisogno di chi ha bisogno di noi. E il lavoro sociale è sicuramente il veicolo, forse il principale, di tali riconoscimenti.
Non basta “spartire” in modo più ragionevole ed equo il lavoro esistente, ma occorre moltiplicare e migliorare quel “pane”(vii).
In una delle sue ultime riflessioni, Claudio Napoleoni ritornava sul concetto di alienazione di Marx, come caratteristica della produzione capitalistica, è cioè della separazione tra la persona e la “forza lavoro”, intesa come merce esitata sul mercato. A differenza di quanto avviene [nei sistemi precapitalistici], il capitalista e l’operaio sono entrambi “dominati” dalla cosa, “attraverso il meccanismo impersonale del mercato”. Si verifica un’ “inversione di soggetto e predicato … per la quale l’uomo il ‘soggetto’ non è altro che il predicato del proprio lavoro”. [ …] La differenza tra proletario e capitalista può essere individuata nel fatto che la liberazione determinata dall’azione del primo è la liberazione di entrambi da una condizione comune, e che non è meno comune per il fatto che dall’uno è vissuta come ‘sofferenza’ e dall’altro come ‘appagamento’”.(viii)
E Paolo Sylos Labini vedeva, nelle forme di democrazia industriale, una modalità di superamento di questa alienazione: “In prospettiva, la fine dell’alienazione può significare la fine del capitalismo così come lo abbiamo conosciuto”.(ix)
La storia delle battaglie del lavoro e del movimento sindacale è parte della battaglia per la libertà non meno che per la giustizia sociale. Nonostante i molti “disincanti” non dobbiamo rinunciare alla libertà dell’utopia, ci consiglia Claudio Magris, ma senza abbandonare il coraggio del concreto riformismo, per una “civiltà possibile” (Keynes) qui ed ora.
Dunque, lavoro e reddito di cittadinanza. Il lavoro” che va diminuendo è quello capitalistico, non quello della concezione estensiva dell’art 4 della Costituzione; quello capitalistico, quello faticoso ed alienante va meglio distribuito, l’altro (soprattutto quello dei servizi alla persona) deve essere in qualche modo finanziato per interessare sempre di più tutti (liberati progressivamente dal primo, come pensava lo stesso Keynes). La loro separazione – salvo i periodi di transizione nei suddetti processi congiunturali e strutturali - sarebbe foriera di gravi problemi personali, economici e sociali.
i S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza Roma-Bari 2013
ii Cfr. L. L. Pasinetti, Dinamica strutturale e sviluppo economico: un’indagine teorica sui mutamenti nella ricchezza delle nazioni, Utet Torino 1984.
iii Una recente proposta per la costituzione di un fondo solidale per l’occupazione con contributi volontari del mondo del lavoro attivo e pensionato, avanzata dalle Associazioni Generazioninsieme e Centro studi Federico Caffè in un seminario del 28 gennaio u.s., presso il CNEL, non ha catturato l’interesse delle forze sindacali alle quali era prevalentemente indirizzata. (http://www.cnel.it/application/xmanager/projects/cnel/attachments/shadow_riunioni_attachment/file_allegatos/000/230/500/Invito_20al_20convegno_20del_2028.pdf).
iv F. Caffe, Un economia in ritardo, Boringhieri, Torino, 1976, p. 73
v L. Klein, Teoria dell’offerta ed ella domanda, Giuffrè 1984
vi “L’attesa della povera gente”, Cronache sociali, n. 1, 15 aprile 1950
vii G. Mazzetti, Quel pane da spartire, teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro, Boringhieri, Torino 1997
viii C. Napoleoni, Discorso sull’economia politica, Boringheiri, Torino 1985, pp. 53-57.
ix In P. S. Labini e A. Roncaglia, a cura, Per la ripresa del riformismo, Nuova Iniziativa Editoriale, Milano 2002, p. 208.
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