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Quando la ricerca fa bene al paese

25/05/2015

E’ appena stato presentato in parlamento il “Rapporto Annuale 2015” dell’ISTAT. Prima di commentarne il contenuto, appare opportuno considerare il Rapporto nel contesto scientifico, istituzionale e culturale in cui si colloca. A partire dalla sua istituzione, all’ISTAT spetta il compito cruciale di produrre statistiche caratterizzate da piena indipendenza; non a caso è stato attribuito all’Istituto l’appellativo di “magistratura del dato”. Un compito dunque da assolvere documentando attraverso i dati i vari aspetti della vita nazionale pubblicando numeri e tabelle. L’assunzione, quanto meno implicita, era che l’analisi dei dati fosse affidata ad altri, quasi a rimarcare la distanza dell’ISTAT dal “contagio” del dibattito e del confronto su tematiche sociali che, inesorabilmente, vanno a debordare nell’arengo politico. Quando l’ISTAT è stato trasformato da ente alle dipendenze della presidenza del Consiglio dei ministri ad ente di ricerca, il suo raggio di azione è stato esteso all’analisi dei dati. Chi produce le informazioni è nelle migliori condizioni per interpretarle – e un ente di ricerca ha i requisiti per farlo nel pieno rispetto delle regole della comunità scientifica che prevedono indipendenza di giudizio e trasparenza nelle procedure. Dunque l’ingresso nel comparto della ricerca andava considerato come una scelta ricca di implicazioni e impegnativa per l’ente. Allorché, sotto la presidenza di Guido M. Rey, venne predisposto il primo Rapporto annuale, vi furono vari scetticismi sulla “uscita in mare” dell’ISTAT, ma la sfida fu superata ed oggi il paese ha a disposizione il Rapporto annuale che, a tutti gli effetti, può essere considerato un libro di ricerca che fa bene al paese. Ora starà dunque ai cittadini, alle istituzioni, alle organizzazioni pubbliche e private, farne un uso intelligente e oculato.

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Tratto da www.roars.it