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La fabbrica per aria

12/10/2015

Con 34 mila dipendenti e un indotto di circa 100 mila addetti, Finmeccanica è la più grande impresa metalmeccanica italiana. Eppure oggi, nel vuoto di una strategia industriale a indirizzo pubblico, Finmeccanica risulta un paradigma del caso Italia. La prefazione al libro di Vincenzo Comito, uscito per Meta Edizioni

La più grande impresa italiana metalmeccanica a controllo pubblico; e tra le più importanti ad alta tecnologia e per qualificazione professionale. Questa è Finmeccanica, che solo in Italia ha 34.000 dipendenti diretti - cui vanno aggiunti circa altri 100.000 dell'indotto – e complessivamente, nel mondo, supera i 60.000 occupati. Con un'immagine suggestiva si potrebbe dire che Finmeccanica è “tutto ciò che vola con il marchio Made in Italy”. Detta così, tra numeri e immagini, il quadro potrebbe apparire idilliaco, sembrerebbe che stiamo parlando di un'impresa vincente e proiettata con fiducia verso il futuro, di quelle che tanto piace evocare il Presidente del Consiglio quando vuole elargire ottimismo o prendersela con i gufi. Non è per difendere gli incolpevoli animaletti notturni, ma spiace rilevare che proprio così non è. Basterebbe confrontare i numeri di oggi con quelli del recente passato, a partire da quelli sull'occupazione, visto che meno di dieci anni fa – nel 2006 – Finmeccanica occupava in Italia 41.700 persone; che negli “anni d'oro”, mentre si concentrava l'azione del gruppo sul settore militare a scapito di quello civile, alla crescita di fatturato non corrispondeva un aumento dell'occupazione e nemmeno degli utili, ma solo degli “affari”; che, come abbiamo saputo qualche anno dopo – dal 2012 – non erano del tutto puliti, anzi; perché anche Finmeccanica si alimentava di quella corruzione che costituisce una piaga connaturata al business militare.

Ora siamo negli anni della “grande bonifica”, per usare un'espressione cara all'amministratore delegato Mauro Moretti. Che qualche mese fa ha descritto l'azienda come “una palude”, bocciato l'operato dei suoi predecessori, denunciando un forte indebitamento anche a causa di acquisizioni sbagliate, processi aziendali fuori controllo e clientele negli appalti come negli acquisti, vendite di pezzi pregiati al solo scopo di far cassa per aggiustare i bilanci. Critiche e osservazioni fondate. Quel che sembra molto meno condivisibile è la cura proposta dall'amministratore delegato nel piano di riorganizzazione aziendale presentato la scorsa primavera. A partire dalla dismissione di aziende considerate «non strategiche» (come è stato il caso dell'assurda vendita di gioielli come Ansaldo-Breda e Sts, privatizzando nei fatti tutto il settore della costruzione di mezzi di trasporto del nostro paese), fino all'accentramento di tutte le funzioni di controllo e gestione; ma ciò che non convince è soprattutto il cercare nuove risorse esclusivamente da un piano di risparmi interni, senza alcun nuovo investimento della proprietà pubblica. E' da questo punto di vista – nel vuoto di una strategia industriale a indirizzo pubblico – che il caso Finmeccanica risulta un paradigma del caso Italia: nell'assenza di una politica industriale che veda il soggetto pubblico come centrale nelle definizioni delle strategie e non soltanto ridotto a una “cassaforte” o a un ente collaterale utile solo a intervenire sulle politiche del mercato del lavoro, liberalizzandole il più possibile e precarizzando la condizione delle lavoratrici e dei lavoratori proprio in un'era segnata da alta disoccupazione e bassa crescita.

Investire in imprese ad alta tecnologia come Finmeccanica richiede grandi risorse: è impensabile che i “risparmi aziendali” possano essere sufficienti, servirebbe un intervento forte dell'azionista di riferimento – cioè del governo – per puntare al rilancio, dalla progettazione alla fabbricazione. Anche perché quel che servirebbe davvero – per Finmeccanica come per il resto della realtà industriale del paese – è uno “sforzo di fantasia” che ridefinisca non soltanto il “come si produce” ma anche il “cosa”, in questo caso a partire dall'inversione di tendenza rispetto alla scelta del “tutto militare” che ha caratterizzato le scelte dell'azienda nell'ultimo decennio. In assenza di ciò l'ultimo piano aziendale presentato finisce semplicemente per mettere in discussione tutta la presenza di Finmeccanica nel Paese per come l'abbiamo conosciuta finora, con il rischio di un suo ridimensionamento.

In questa fase decisiva per le sorti dell'azienda, nel momento in cui si tracciano le sue nuove strategie e il suo futuro occupazionale, Finmeccanica è chiamata a misurarsi a tutto campo e ha bisogno di scelte precise: dagli investimenti a un vero aumento di capitale; da nuove alleanze e sinergie a piani di formazione, ricerca e sviluppo; dalla formazione per aumentare le competenze professionali a un reale investimento sulla contrattazione collettiva come strumento per le relazioni sindacali.

In questo panorama e a partire da queste preoccupazioni, vogliamo fornire con questo libro e con la puntuale l'analisi di Vincenzo Comito uno strumento di conoscenza, un contributo per una discussione vera e aperta a partire dalla condizione concreta di vita e di lavoro delle donne e degli uomini che come sindacato siamo chiamati a rappresentare. Convinti che solo con la partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori si possono conquistare quelle trasformazioni di cui la Fiom vuole farsi portavoce.

Il testo pubblicato è l'introduzione al volume di Vincenzo Comito, La fabbrica per aria, Meta edizioni, 10 euro (acquistabile qui)

 

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