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Fisco, salari e pensioni pagano per tutti

20/10/2010

L’appuntamento è fissato per mercoledì 20 novembre presso il ministero dell’Economia. Sul tavolo c’è la legge delega sulla “riforma fiscale” su cui il ministro Tremonti ha fatto sapere che intende incominciare a raccogliere le proposte e le opinioni delle parti sociali. Partirebbe così quella che lo stesso ministro ha battezzato la “fase dello sviluppo”, dopo che giovedì 14 sarebbe stata chiusa quella della “stabilità”, con l’approvazione in Consiglio dei ministri della legge che ha sostituito la vecchia Finanziaria. Durante il torneo oratorio che si preannuncia lungo (e presumibilmente inconcludente) verrebbe affrontato anche il tema di “una radicale riforma fiscale”. Allo stato non è affatto chiaro in cosa consista. Ma dal poco che è dato di intuire dovrebbe servire ad eludere l’unica questione davvero urgente. Vale a dire la necessità di correggere un prelievo fiscale su salari e pensioni che, nel tempo, si è trasformato in un sostanziale esproprio.

Malgrado la cortina fumogena alzata dal ministro dell’Economia per conto del governo, come stiano realmente le cose la maggioranza degli italiani dovrebbe finalmente incominciare a percepirlo. Ed il punto è che l’Irpef, da imposta sul reddito delle persone fisiche, si è di fatto tramutata in imposta specifica su salari e pensioni. Qualche dato può servire a rinfrescare la memoria dei più distratti. L’incremento del prelievo fiscale sui salari e stipendi negli ultimi due decenni è stato impressionante. Sale infatti dal 40 per cento al 60 per cento delle entrate totali Irpef. Mentre per i redditi non da lavoro dipendente si riduce dal 37 a poco meno del 10 per cento. Questo è successo intanto che la quota del lavoro dipendente sul totale del Pil è diminuita, passando dal 66 al 53 per cento. In altre parole significa che, mentre i redditi da lavoro calavano costantemente come quota del reddito nazionale, il prelievo su di loro è continuamente aumentato. In compenso gli altri redditi, sebbene in costante crescita, hanno pagato sempre di meno.

Del resto i dati tributari parlano da soli. Lo scorso anno le entrate Irpef sono state pari a 146 miliardi. Comprese le addizionali comunali e regionali. Di questi miliardi i lavoratori dipendenti ne hanno pagati 88,5, i pensionati 44,5. Per differenza si deduce che tutti gli altri (imprenditori grandi e piccoli, professionisti, commercianti ed autonomi) hanno pagato solo 13 miliardi. Ne consegue che l’Irpef è pagata per il 60,6 per cento dai lavoratori dipendenti, per il 30,4 dai pensionati e solo per il 9 per cento da tutti gli altri. E’ una diseguaglianza che permette all’Italia di raggiungere un poco invidiabile primato mondiale. E poiché, come ben sappiamo, “piove sempre sul bagnato”, con la trovata del “federalismo fiscale”, senza che nessuno facesse una piega, si è stabilito che, tanto per allargare ulteriormente le diseguaglianze in materia di prelievo fiscale, l’addizionale Irpef nelle cosiddette regioni “meno virtuose”, entro il 2015, potrà aumentare del 300 per cento (in pratica dallo 0,9 al 3 per cento).

Se fossimo un paese serio si direbbe: hic Rhodus, hic salta. Questo è infatti il vero problema. Il resto è solo chiacchiera per perdere tempo. In sostanza, la discussione di futuribili riforme palingenetiche diventa la via di fuga per scansare interventi indispensabili ed assolutamente urgenti. Non è certo una pratica nuovissima nella politica italiana. Ma il governo in carica si è dimostrato il più pervicace. Quello cioè che con maggiore costanza ha fatto proprio il suggerimento di Flaiano secondo il quale: “ci sono molti modi di arrivare, il migliore è di non partire”. Soprattutto quando si tratta di questioni che riguardano il lavoro.

Risultato: tra il tempo ed i problemi veri da risolvere è una continua lotta a chi ammazzerà prima l’altro. Naturalmente i commentatori più comprensivi e benevoli verso il potere (che da noi sono sempre in maggioranza) sono però propensi a capire e giustificare. Essi ritengono infatti che sia inevitabile limitarsi a parlare del più e del meno cercando di guadagnare tempo. Tanto più ora che, considerato lo stato comatoso dei conti pubblici, non ci sarebbero i soldi per ridurre le tasse. Anche solo per salari e pensioni.

Per la verità i soldi ci sono. Anzi ci sarebbero. Eccome! Basterebbe infatti mettere all’asta le frequenze televisive del digitale terrestre, come hanno fatto gli altri paesi europei. Da noi però questa possibilità non viene nemmeno presa in considerazione. Per la buona ragione che si rischierebbe di mettere in discussione il conflitto di interessi del premier. E, come si sa, Berlusconi la considererebbe una “persecuzione” nei suoi confronti. D’altra parte, parliamoci chiaro, mentre i poveracci si debbono preoccupare solo del prezzo dei generi alimentari, delle tariffe, dei trasporti, della mancanza di lavoro, della cassa integrazione, e così via, uno come Berlusconi ha ben altri pensieri. Basti considerare le spese che è costretto a sostenere per mantenere (in Italia ed all’estero) una ventina di dimore e ville, per provvedere a due ex mogli, a cinque figli, all’acquisto dei piccoli gioielli per le veline e le escort chiamate ad allietare le sue serate. Insomma, una vitaccia di angustie e preoccupazioni.

Giustamente Tremonti ed il “ministro di famiglia”, che si è appena insediato al ministero dello Sviluppo, non ci pensano nemmeno a sottoporlo ad altri assilli, altri crucci. Come appunto quelli che gli potrebbero derivare dal dover acquistare all’asta i diritti all’uso di un bene pubblico come le frequenze del digitale terrestre. Pazienza, se per la sua tranquillità, il paese è costretto a rinunciare a qualche miliardo di euro.

Si potrebbe poi uniformare la tassazione delle rendite al 20 per cento. Cosa che fanno i principali paesi europei. Che, non a caso, vanno meglio di noi. Si potrebbe inoltre correggere la misura demagogica che ha portato ad abolire l’Ici anche sulle abitazioni di lusso. Abolizione la cui unica spiegazione consiste nel fatto che i ricchi sentono più dei poveri le ingiustizie di cui si considerano vittime e la loro capacità di indignazione (anche elettorale) non ha limiti.

Un capitolo a parte è invece quello della lotta all’evasione fiscale. Evasione che, come si sa, ha ormai raggiunto vette inimmaginabili in qualunque altro paese democratico. Purtroppo da noi le cose vanno diversamente perché gli evasori hanno un complice nello Stato. Condoni e scudi fiscali sono infatti un chiaro incentivo all’evasione. Tuttavia, se finalmente si decidesse di voler correggere il corso delle cose non sarebbero necessari proclami e nemmeno particolari sforzi di fantasia. Basterebbe infatti adottare, né più né meno, le stesse misure in vigore nei paesi che lamentano una evasione pari solo ad un terzo od un quarto della nostra. Purtroppo bisogna dire che questa scelta di buon senso è del tutto estranea agli orientamenti dell’attuale governo e della sua maggioranza. In ogni caso, le risorse derivanti dalla lotta all’evasione (quando finalmente potrà essere fatta sul serio) non dovrebbero venire utilizzate per una riduzione più o meno generalizzata delle tasse. Sarebbe infatti più opportuno destinarle alla riduzione del disavanzo e del debito pubblico. Che, se non ridimensionati, rischiano di trasformarsi in un cappio intorno al collo del paese e quindi di tutti noi.

Per ora, resta il fatto che si è deciso di non fare nemmeno ciò che sarebbe assolutamente necessario e possibile. In effetti, con le intenzioni annunciate dal ministro Tremonti, il governo ha semplicemente confermato la sua propensione a continuare con l’astuzia e l’espediente di sempre: discutere dei massimi sistemi con l’intento abbastanza scoperto che “tutto cambi, perché tutto possa in realtà restare come prima”. Per il conseguimento di questo suo proposito non basta però la semplice ispirazione letteraria al “gattopardismo”. Occorre assecondarla anche con una appropriata tattica politica. Ed il modo più sicuro quando si vuole scansare un problema (nel nostro caso la disparità del prelievo su salari e pensioni rispetto agli altri redditi) è di inventarne un altro. Che è appunto ciò che prova a fare Tremonti con la “trovata” di una “radicale riforma fiscale”.