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Il fallimento del bonus giovani

08/11/2013

Il bonus ha generato una scarsa domanda di lavoro da parte delle imprese, e in molti casi le domande si riferiscono ad assunzioni già realizzate, per le quali il bonus costituisce un aiuto non richiesto e non necessario. Perché creare posti di lavoro dove le opportunità di mercato dei beni sono più scarse, appare una illusione se non si interviene proprio sulla domanda di beni

Il 12 novembre si è aperta a Parigi la conferenza europea sulla occupazione giovanile. L’Europa nel luglio 2013 ha deciso di impegnare risorse pari a circa 50 miliardi di euro, tratte dal Bilancio pluriennale dell’Unione, dal Fondo sociale europeo della Commissione europea, e dalla Banca europea degli Investimenti, ed avviare il programma Youth Guarantee. Sono cifre modeste per rispondere ai circa 6 milioni di giovani disoccupati europei sotto i 25 anni, con un tasso di disoccupazione del 25%, doppio rispetto al 12% per tutte le fasce di età (Commissione europea, 2013). A questi si aggiungono 7,5 milioni di giovani che non sono occupati e neppure sono in formazione o istruzione (Neets). In Italia la situazione è persino peggiore: a settembre 2013 (www.istat.it/it/archivio/102484) la disoccupazione tra i giovani di età 15-24 anni presenti sul mercato del lavoro (attivi) ha superato la soglia del 40% (650 mila giovani), 11% del totale dei giovani in questa fascia generazionale, con disparità geografiche altissime (51% al sud, 29% al nord, 37% al centro) (http://dati.istat.it/Index.aspx). In Europa solo Spagna e Grecia hanno una disoccupazione giovanile più ampia di quella italiana, e competiamo per la terza peggiore posizione con il Portogallo.

Ci ricordiamo tutti che nel periodo estivo in campo economico il governo Letta ha “congetturato” molto sul tema lavoro e giovani, in particolare sulla occupazione giovanile e sul progetto europeo Youth Guarantee. Il Presidente del Consiglio dichiarava che l’occupazione dei giovani era al top nell’agenda di governo e che l’avrebbe posta al top anche nell’agenda europea.

Mentre si sta attendendo il 2014 per la partenza del piano europeo Youth Guarantee finanziato nell’ambito del bilancio pluriennale 2014-2020, in Italia i propositi governativi trovavano soddisfazione nell’estate 2013 nel Decreto Lavoro (Decreto legge n.76 del 28 giugno 2013, poi convertito Legge n.99 del 9 agosto 2013), che ha introdotto, fra l’altro, i bonus giovani per favorire l’occupazione nella fascia di età 18-29 anni.

Annunci e primi esiti

In Italia il dibattito su tale questione è pressoché inesistente. Si accende solo a seguito di dichiarazioni “impavide” del politico di turno.

La settimana scorsa, il Primo Ministro Letta, in polemica con un commento apparso nel blog di Grillo (www.beppegrillo.it/2013/11/letta_rifacce_tarzan_lettamente.html), ha dichiarato che “[…] Per tornare al Bonus (e alla verità), grazie ad esso ad ottobre 14 mila giovani hanno trovato lavoro. 14 mila. L'obiettivo finale dell'intero progetto, triennale, è di 100 mila giovani occupati.” (www.facebook.com/notes/enrico-letta/la-disinformazione-di-grillo/10153388318570411).

Proprio per tornare alla verità, nella stessa giornata un articolo del Corsera (www.corriere.it/economia/13_novembre_03/giovani-fallisce-bonus-assunzioni-incentivi-crisi-anche-sommerso-83f492b0-4457-11e3-b60e-fee364a304ed.shtml), peraltro citato da Letta, ci informava che da fonte “Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali” risultano a fine ottobre 13.770 domande presentate all’Inps, di cui 9.284 sono quelle confermate/accolte. Di queste circa 14 mila, 5.307 (39%) sono quelle provenienti dalle imprese localizzate nell’Italia meridionale e insulare, che è il destinatario di 500 (63%) dei 794 milioni di euro totali finanziati dalla legge. Inoltre, tra le domande presentate, l’82% si riferiscono ad assunzioni ex-novo con contratti a tempo indeterminato, mentre il 18% fa riferimento alle trasformazione da contratti a tempo determinato a quelli a tempo indeterminato. Si tratta comunque di domande e non di posti di lavoro creati ex-novo. Ancora più interessante è il dato relativo alle 8.308 domande che si riferiscono alle assunzioni per le quali l’attivazione è antecedente alla data del click day, di cui 3.485 (38%) nell’Italia meridionale e insulare. Se consideriamo le domande confermate/accolte come posti di lavoro creati siamo al 67% circa della cifra dichiarata da Letta, di cui circa il 90% attivate prima del click day. Questa ultima quota potrebbe costituire il potenziale numero di posti di lavoro che le imprese avrebbero comunque creato a prescindere della legge che prevede il bonus fiscale. Ma dovremmo anche considerare che il 18% sono trasformazioni della modalità contrattuale, e non posti di lavoro prima inesistenti. Se così è, dai 14.000 posti di lavoro “creati da Letta”, scendiamo presumibilmente ai più realistici 6.850 circa, il 50% di quanto Letta afferma, senza considerare comunque quanti siano i posti che le imprese avrebbero comunque attivato a prescindere del bonus. Purtroppo i dati forniti non consentono di calcolare questa quota (Giubileo, 2013), che per passati analoghi provvedimenti è risultata grandemente significativa (Cipollone, Guelfi, 2003) [1].

Questi dati sembrano comunque confermare i rischi che vari studiosi avevano segnalato già in estate. Anzitutto, l’impatto del bonus appare piuttosto contenuto sulla domanda di lavoro delle imprese, quando invece l’aspettativa governativa era quella di un impatto significativo immediato al varo della legge (effetto shock). Dall’altro, le domande si possono riferire in gran parte ad assunzioni già realizzate, e per le quali il bonus costituisce forse un “aiuto non richiesto e non necessario”. Infine, forse a supporto del rischio precedente, mentre il provvedimento era pensato soprattutto per affrontare la drammaticità della disoccupazione giovanile nell’Italia meridionale e insulare, esso attiva domanda di lavoro soprattutto nel resto dell’Italia, dove la domanda di lavoro (e di beni) è diminuita di meno. In altri termini, creare posti di lavoro dove le opportunità di mercato dei beni sono più scarse, appare una illusione se non si interviene proprio sulla domanda di beni.

D’altra parte, molto più caute sono state le parole del sottosegetario al lavoro Carlo Dell’Aringa, quando in una intervista all’Avvenire (www.avvenire.it/Economia/Pagine/dellaringa-un-brutto-colpo-il-cavallo-non-beve.aspx) ha dichiarato: «I primi incentivi stanziati a giugno sono stati poco utilizzati e sulle assunzioni dei giovani le imprese vanno con i piedi di piombo. Senza una ripresa dei consumi, le aziende non investono. Per questo dobbiamo cercare di dare alle famiglie qualche soldo di più da spendere. […] Abbiamo segnali sul fatto che, nel Mezzogiorno, è in crisi anche il sommerso. E se il “nero” manda a casa i lavoratori non c’è deregolamentazione o incentivo che tenga. Come dire: il rubinetto è aperto, ma il cavallo non beve». Capito Letta cosa afferma il tuo sottosegretario al lavoro?

Una inefficacia annunciata

Se questi sono gli esiti attuali, occorre allora ricordare quanto era stato osservato nel dibattito estivo, nella fase di discussione parlamentare. Anastasia (2013), Boeri (2013), Brandolini (2013), Bruno (2013), Mariucci (2013), Sestito (2013), Sterlacchini (2013), Treves (2013), avevano segnalato sia il possibile spreco di risorse per favorire contratti che sarebbero comunque stati realizzati dalle imprese anche in assenza dell’incentivo, sia fattori distorsivi a favore dei nuovi assunti ed a svantaggio dei potenziali lavoratori per i quali l’impresa potrebbe interrompere il contratto.

Vi era anzitutto da considerare l’esiguità delle risorse impegnate: 800 milioni circa nel quadriennio 2013-2016 a fini di sgravi fiscali sui contributi pagati dalle imprese che assumono, con contratti a tempo indeterminato, giovani (tra 18 e 29 anni) che ricadono in tre specifiche tipologie (disoccupati da almeno sei mesi, oppure privi di titolo di studio eccedente la licenza media, oppure soli con famigliari a carico). Quindi 200 milioni annui per una platea potenziale di svariate centinaia di migliaia di giovani. Considerando un numero di circa 2.900.000 potenziali beneficiari, secondo Brandolini (2013 www.bancaditalia.it/interventi/altri_int), si avrebbe un contributo di assunzione per disoccupato pari a circa 70 € annuali. Per il sud ed isole, dove la disoccupazione giovanile si concentra, lo stanziamento è di 500 milioni complessivi, 125 milioni annui. Boeri (2013 www.lavoce.info/la-leggenda-dei-200mila-nuovi-posti-di-lavoro/) ha calcolato che tenendo conto dei salari medi dei giovani sotto i 30 anni, e dei limiti degli sgravi fiscali, le risorse complessive possano finanziare circa 30.000 posti di lavoro annui aggiuntivi, una cifra ben inferiore ai 200.000 annunciati da Letta al varo del Decreto Lavoro, comprensivi della manutenzione della riforma Fornero, od i 100.000 annunciati da Giovannini per questo specifico provvedimento. Brandolini (2013) si tiene leggermente più largo: tra le 30.000 e le 50.000 nuove assunzioni.

Tuttavia, veniva segnalata anche una questione di fondo, ovvero: che stimoli può esercitare sulla domanda di lavoro una riduzione del cuneo fiscale per i nuovi assunti quando le imprese si trovano in una situazione di domanda di beni sul mercato fortemente razionata causa la crisi economica e le politiche di austerità espansiva? (Bruno, 2013 old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Non-sempre-e-oro-quel-che-luccica-19252). I dati di cui sopra sembrano confermare sia l’esistenza che la gravità di tale razionamento.

Inoltre, nel Decreto Lavoro poi convertito in Legge novità rilevanti riguardano cambiamenti della riforma Fornero e di normative pre-esistenti [2]. Vi sono elementi in queste misure che segnano una involuzione rispetto alla riforma Fornero, ed altri ancora intesi a rafforzare la “cattiva flessibilità” del lavoro in netto contrasto con le dichiarazioni che vorrebbero privilegiare la buona occupazione ed i rapporti di lavoro stabili. Ci appare appropriato riportare quanto scriveva Treves (2013 www.rassegna.it/articoli/2013/07/12/102702/intuizioni-e-limiti-d): “In questo ambito la misura sull’ulteriore fattispecie di contratti a termine acausali devoluta al contratto aziendale è diabolicamente pericolosa, perché rischia di stringere l’Rsu (ma anche il sindacato territoriale) nella morsa del ricatto dell’impresa: «Potrei assumere, ma solo se mi date l’acausalità». Non è difficile immaginare cosa potrebbe accadere in realtà con alta disoccupazione. Per questo si dovrà evidenziare, nel corso del percorso parlamentare, la contraddizione tra i soldi (pubblici) messi a disposizione per le assunzioni “aggiuntive” a tempo indeterminato e il rischio che questa misura sia elusa ed erosa dal comportamento opposto delle imprese, reso più agevole da norme contenute nello stesso provvedimento”.

Con una visione più “tecnica”, Brandolini (2013 www.bancaditalia.it/interventi/altri_int) osservava: “Gli effetti delle misure in esame possono essere valutati sotto vari profili. In primo luogo, l’entità contenuta e l’allocazione delle risorse finanziarie su più interventi ne limitano probabilmente l’efficacia nell’elevare i livelli occupazionali. In secondo luogo, va tenuto presente che gli incentivi di questo tipo presentano problemi noti di inefficienza”. Prosegue: “Da un lato, l’esperienza di analoghi schemi adottati in passato mostra che gran parte delle assunzioni agevolate sarebbe stata comunque effettuata: una quota significativa delle risorse verrebbe pertanto impiegata senza produrre effetti occupazionali aggiuntivi rispetto a quanto sarebbe altrimenti avvenuto. Dall’altro, condizionare l’incentivo a caratteristiche specifiche del lavoratore può riflettersi, soprattutto in un contesto di debole domanda, in una mera ricomposizione del flusso di assunzioni a vantaggio delle assunzioni dei lavoratori giovani svantaggiati a scapito delle altre, non incentivate dal provvedimento”.

E sul terreno della manutenzione della riforma Fornero, il giudizio di Brandolini era netto: “In generale, vi è il rischio di indebolire l’obiettivo di favorire il ricorso a rapporti a tempo indeterminato perseguito dalla riforma del 2012. Inoltre, appare inefficiente variare i margini di flessibilità in risposta alla situazione congiunturale attraverso modifiche degli istituti contrattuali. In alternativa, si potrebbe concepire un adeguamento lungo il ciclo, secondo regole prefissate, del differenziale tra gli oneri contributivi previsti per le diverse forme contrattuali. In punto di metodo, va altresì rilevato come modifiche normative sostanziali ad appena un anno da un’ampia riforma del mercato del lavoro, pur concepite come un aggiustamento in itinere, confermino l’incertezza dei percorsi legislativi che da numerosi osservatori è vista come un fattore di debolezza non trascurabile del nostro paese” (Brandolini, 2013, p.8 www.bancaditalia.it/interventi/altri_int).

Conclusione

È così evidente che rischi ed avvertimenti sono stati evidenziati da tempo, per cui l’impatto modesto del bonus giovani non può sorprendere.

Ha certamente ragione il Ministro del Lavoro Enrico Giovannini quando sul Corsera (www.corriere.it/politica/13_novembre_04/giovannini-sgravi-spingono-ripresa-imprese-assumeranno-ef4eb784-451a-11e3-9115-48b024bd67ed.shtml) scrive che “Ovviamente, come tutti sappiamo, sono le imprese a creare occupazione. Il Governo può favorire tale processo in vari modi e, per la prima volta dopo molti anni, il disegno di legge di Stabilità va esattamente in questa direzione, riducendo il costo del lavoro per le imprese e stimolando la domanda interna, anche attraverso maggiori investimenti pubblici”.[3]

La questione però è che la legge di stabilità non fa né una cosa né l’altra, e quindi la prospettiva che le imprese possano creare occupazione per i giovani rimane una chimera allo stato delle cose.

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[1] Si veda il testo completo per i riferimenti bibliografici puntuali.

[2] Per i dettagli si veda la versione completa pdf.

[3] Ma anche su questo aspetto, nell’intervista all’Avvenire già citata, Carlo Dell’Aringa è più onesto: “La legge di Stabilità ha come primo obiettivo quello di mantenere i conti pubblici in equilibrio, ed è giusto altrimenti si andrebbe al disastro. Per il taglio delle imposte si fa quel che si può, ma io sarei per concentrare le risorse sulle fasce più deboli, dando un contributo più consistente, magari in un’unica rata per cercare di innescare una ripresa dei consumi interni”.

 

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