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I risparmi di Maria Calzetta e il riordino delle superiori

15/02/2010

 

Il 4 febbraio il consiglio dei ministri ha posto fine al balletto di decreti, regolamenti, pareri ecc. sui provvedimenti di riforma della secondaria superiore, è quindi possibile farne un primo bilancio complessivo e formulare qualche osservazione.

Nella tradizione popolare romana otto/novecentesca c’è un simpatico personaggio che si chiama Maria Calzetta, forse perché eternamente dedita all’utile, ormai obsoleto, lavoro di far la calza. La poverina, costantemente in affanno economico, oppressa da autorevoli figure maschili, marito o padre che siano, è sempre all’opera per ridurre/tagliare spese per far quadrare il bilancio. Maria si impegna con zelo, ma i risultati sono sempre poco lusinghieri, se non disastrosi, perché, utilizzando un miope buon senso, non il nobile common sense degli empiristi inglesi, ma proprio la piatta adesione al lamentoso sentire comune (non che questo non abbia un fondamento), senza guardare con attenzione a cause e conseguenze, cercando solo di cogliere il consenso sull’immediato, si trova, alla fine delle storielle di cui è protagonista, al punto di partenza, spesso con perdite notevoli e la necessità di dover riparare a disastri provocati dalle sue iniziative, con spreco di risorse e peggioramento delle condizioni di vita della famiglia; di qui l’espressione popolare: fai i risparmi di Maria Calzetta, che riconosce sicuramente la buona volontà della risparmiatrice, ma non certo la sua avvedutezza...

Il 4 febbraio il consiglio dei ministri ha posto fine al balletto di decreti, regolamenti, pareri ecc. sui provvedimenti di riforma della secondaria superiore, è quindi possibile farne un primo bilancio complessivo e formulare qualche osservazione.

Andiamo schematicamente per punti.

La riduzione delle sperimentazioni nei licei che, ormai da anni, rendono arduo identificarli tutti entro lo stesso indirizzo di scuola: una scelta saggia? Fatelo dire a chi nel corso degli anni, in sede di confronti con colleghi stranieri, si è spesso trovata nella difficoltà di spiegare perché in Italia le sperimentazioni sono eterne; perché si riproducono e crescono su se stesse, senza che nessuno prenda la decisione di tenerle e quindi di far passare da sperimentale a normale gli elementi, che dalla sperimentazione escono validati, eliminando quello che è inutile, pleonastico, ridondante. Una piccola domanda: siamo proprio sicuri che tutto andasse cancellato, senza gettare un occhio attento su scelte che, spesso, hanno cercato di dare risposte a problemi reali di apprendimento, alla necessità di rendere più rispondenti al sentire degli studenti le discipline di studio ed alle urgenze, che, dall’esterno, pongono alla scuola l’esigenza di approfondire e riflettere criticamente sui problemi dell’oggi? Tutto sparisce o va a finire a futura memoria; resta affidato alla buona volontà dell’autonomia scolastica il compito di ripescare spezzoni di esperienze, ovvero di inventare nuove soluzioni... senza riannodare i fili di lavori e percorsi già compiuti, con il rischio di riprodurre una continua babele di soluzioni, che difficilmente saranno a costo zero.

La riduzione delle ore di lezione, soprattutto nei tecnici e nei professionali: una soluzione ovvia e forse anche salutare? Sicuramente sì, se l’obiettivo fosse veramente quello di tener conto dei tempi reali di apprendimento e della necessità di dare coerenza e consistenza a percorsi tesi a far acquisire e consolidare la capacità di padroneggiare saperi fondamentali, agiti come competenze, e a orientare le scelte di prosecuzione degli studi e/o di avvio alla vita lavorativa dei giovani! Ma anche qui si pone una domanda, forse più grande di quella espressa sopra: come si organizza l’attività della scuola? Dove sono i laboratori che dovrebbero consentire lo sviluppo di pratiche concrete di apprendimento, di verifica critica e di approfondimenti multidisciplinari di quei saperi e saper fare, che sono il nucleo vitale della cultura scientifica di oggi? Lo spezzatino di orari e di materie non è certo una risposta valida, anche in termini economici, alla necessità di ricostruire “senso” ai processi culturali, che la scuola può e deve mettere a disposizione dei giovani.

La moltiplicazione dei luoghi in cui è possibile assolvere all’obbligo di istruzione. Qui il perverso buon senso ha giocato pesantemente: mentre non nega che fino a sedici anni di età tutti i giovani hanno diritto ad apprendere, o meglio, a essere istruiti (stiamo attenti, perché gli slittamenti semantici producono soluzioni inaspettate), dichiara esplicitamente che non conviene sprecare tempo e soldi per coloro che dentro una classe si sentono stretti; conviene invece favorire percorsi che si svolgono in sedi e istituzioni formative, in cui sparisce la scuola, come agente istituzionale di istruzione, e permettere che l’esercizio del diritto alla istruzione, in questa delicatissima fase della adolescenza, per i più refrattari allo studio, possa coincidere con l’inizio del lavoro. Se poi c’è una norma che impedisce che si vada a lavorare a 15 anni, come accade nel mondo e come era ormai previsto anche in Italia, viene prontamente superata e... il gioco è fatto.

Poco importa che oggi gli apprendisti in età dell’obbligo siano poche migliaia (i datori di lavoro, se devono prendere un apprendista, preferiscono che abbia compiuto 18 anni di età, come dimostrano ampiamente i dati dell’ultimo rapporto Isfol), l’importante è che si affermi il principio.

Qui non uno, ma molti quesiti si pongono. Siamo sicuri che i giovani, che soffrono dentro i bienni di scuola, siano refrattari allo studio e non piuttosto a modalità obsolete e solo trasmissive del sapere? Se l’obbligo di istruzione ha l’obiettivo di supportare processi di orientamento, come si concilia questa finalità con il precoce avvio alla formazione professionale? Chi sosterrà i costi di un incremento dei percorsi nella formazione professionale? Chi sosterrà i costi necessari per rispondere a un incremento di richieste di contratti di apprendistato? Al di là della rispolverata etica del lavoro (ma se il lavoro è, e sicuramente lo è, un elemento che struttura la personalità in formazione, perché non proporlo per tutti), chi pagherà questa formazione per gli apprendisti di 14-15 anni? Le associazioni padronali, mi pare, abbiano sollevato più di qualche obiezione in proposito.