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Sanatoria migranti, i perché di un flop

26/10/2012

Meno di 135mila domande, mentre i sans papier sono almeno il triplo. A causa di un'operazione partita male e finita peggio. Un “vorrei ma non posso” che ha penalizzato tutti

Un autentico flop, l’operazione “emersione-regolarizzazione” imbastita dal governo. E il flop riguarda tutte e due le finalità del decreto estivo con cui si è tardivamente recepita una direttiva europea sul lavoro nero dei migranti. Hanno funzionato poco e male, infatti, sia la chance offerta ai datori di lavoro che impiegano irregolarmente i migranti di sanare l’illecito accedendo a una sorta di condono, sia la possibilità, per i sans papier, di uscire dallo scomodo status di “clandestini” attraverso la regolarizzazione lavorativa. Possibilità, quest’ultima, sospirata da un bel po’ di tempo visto che da anni non si fanno più decreti-flusso e che l’ultima sanatoria, limitata alle sole badanti, risale al 2009. Ma le cose sono andate storte – sebbene il ministro Riccardi continui a minimizzare lasciandosi perfino andare a dichiarazioni di giubilo – anche per chi nel governo guardava solo a far cassa. Il 15 ottobre, ultimo giorno utile, di domande ne erano arrivate solo 134.576. Molte meno rispetto ai 380.000 migranti in nero stimati dalla Fondazione Moressa e ai 450-500mila di Caritas e di altre associazioni. Non solo. La parte del leone l’ha fatta ancora una volta il lavoro domestico – 115.969 domande tra colf e badanti – mentre sono solo 18.607 le domande che interessano commercio, agricoltura, allevamento, industria.

Flop del resto ampiamente annunciato. Per mesi, e inutilmente, da sindacati, associazioni, giuristi. Molto pesanti, intanto, gli obblighi economici dei datori di lavoro eventualmente intenzionati ad approfittare del condono: avrebbero dovuto un'una tantum di 1.000 euro, raddoppiata rispetto al 2009 e a fondo perduto, non restituibile cioè nel caso in cui le domande, per mancanza di qualche requisito, dovessero essere respinte; e un'altra somma consistente, fino a 6-7.000 euro, per sanare, per i settori diversi dal lavoro domestico, i sei mesi prescritti di contributi non versati e di retribuzioni inferiori ai minimi contrattuali. Un onere non sempre sostenibile, insomma, anche se già nella sanatoria del 2009 si è visto che sono sempre più spesso gli stessi migranti ad accollarselo del tutto o in parte. Ma deve aver contato anche lo squilibrio tra il peso economico del condono e una fin troppo fondata previsione di impunità, visto che di controlli sul lavoro irregolare – dei migranti e anche degli autoctoni – da noi non se ne fanno poi molti. E visto, soprattutto, che è la ricattabilità stessa dei migranti irregolari sancita a chiare lettere dalla Bossi-Fini a rendere piuttosto improbabile che siano loro stessi a sporgere denuncia. All’ingordigia di uno Stato interessato in primo luogo a introitare risorse, e non solo quelle sottratte indebitamente all’Inps, si è intrecciata una inspiegabile scarsità di sostegni per il lavoratore che, sfidando il sicuro doppio effetto della perdita del lavoro e di un’autodichiarazione di irregolarità, dovesse risolversi a sporgere denuncia: al quale era garantito solo un permesso “umanitario” di sei mesi “eventualmente” rinnovabile. Eccessivamente alte, inoltre, le soglie di reddito richieste ai datori di lavoro per poter accedere al condono. Non c’è da meravigliarsi, dunque, che i risultati dell’operazione rimandino come in uno specchio deformante una composizione così alterata dell’immigrazione che lavora. Solo nel caso del lavoro domestico, infatti, erano previsti oneri economici più ragionevoli, 2-3.000 euro per l’illecito pregresso più i 1.000 di una tantum, e inoltre più modeste soglie di reddito dei datori. È comunque molto probabile che, come già nel 2009, attraverso il varco di un finto lavoro domestico siano passate molte domande di uscita dalla situazione di clandestinità. Con quali forzature della norma e con quale ineccepibilità della documentazione si vedrà più avanti, dal numero cioè delle domande che saranno respinte.

Non è però un messaggio di credibilità del nostro paese, delle sue istituzioni e delle sue regole, quello che ancora una volta si è trasmesso ai migranti. Come spiega chi studia l’immigrazione, la prima cosa che i migranti imparano appena messo piede in Italia è che qui vale soprattutto il raggiro, l’imbroglio, l’illecito. Magari anche il mercato di documentazioni false. Un fattore non proprio promettente per una buona integrazione.

Ma le difficoltà da superare non finivano qui. La preoccupazione del governo di esorcizzare in ogni modo l’accusa di aver introdotto quasi di soppiatto, in un testo sull’emersione del lavoro nero, una scandalosa procedura di regolarizzazione dei sans papier – “una insostenibile e irresponsabile sanatoria”, ebbe a tuonare in agosto l’ex ministro Maroni – ha prodotto nel testo del decreto e poi nelle disposizioni applicative una quantità di condizioni ostative e di ambiguità interpretative davvero eccessiva. Tra cui l’impossibilità di accedere all’emersione per i rapporti di lavoro a part time, anche se quello a part time non fosse l’unico e se con gli altri rapporti si arrivassero a cumulare le ore canoniche di un lavoro a tempo pieno o magari, come spesso succede, strapieno. L’aspetto più significativo, e più tormentoso per persone giuridicamente “invisibili”, di questo sconcertante vorrei ma non posso, è stato l’obbligo di documentazione della presenza in Italia al 31 dicembre 2011, e di una documentazione rilasciata dal “pubblico”. Per mesi, e fino a una settimana prima della scadenza dell’invio delle domande, potevano disporre di una documentazione “pubblica” solo gli invisibili finiti al pronto soccorso, coinvolti in incidenti o reati, colpiti da ancora non eseguiti decreti di espulsione. Col “pacchetto sicurezza” di Maroni, infatti, e l’esenzione dall’obbligo di denuncia dei “clandestini” limitata come noto ai soli operatori della sanità e della scuola, la possibilità dei sans papier di disporre di una certificazione di presenza di natura pubblica dovrebbe essere più che una rarità un ossimoro. Ma il ministero degli interni non si è preso la responsabilità di produrre in proprio un’interpretazione estensiva di quella nozione di “pubblico”e ha preferito lavarsene le mani ricorrendo all’Avvocatura dello Stato, e ai suoi tempi mai rapidissimi di risposta ai quesiti. Il risultato è stato che solo agli sgoccioli della procedura si è saputo che potevano essere presi in considerazione anche contratti nominali con le aziende municipalizzate e abbonamenti ai mezzi di trasporto pubblico. Forse anche attestati dei centri e dei servizi di accoglienza. Forse anche i registri di presenza delle scuole del volontariato che insegnano l’italiano. Troppo tardi per molti degli interessati, e comunque con rischi ancora consistenti , in sede di analisi della documentazione, di rigetto delle domande. Vane, ovviamente, sono state anche le richieste di riapertura dei termini e di proroga oltre il 15 ottobre della “finestra”. Non finiscono qui, dunque, le fatiche della regolarizzazione. Ci saranno contenziosi, tribunali, sentenze. Il senso politico di tutto ciò è fin troppo chiaro, ma qual è il vantaggio che questi modi di gestione dell’immigrazione portano alla società italiana? La politica, anche quella dei tecnici, continua a tacere.

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