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Contratto unico e art. 18: da parole magiche a temi di riflessione
Regolare il mercato del lavoro significa predisporre un sistema di “payoffs” che incentivi gli agenti razionali (datori di lavoro e lavoratori) a compiere scelte conformi agli obiettivi stabiliti. Parimenti, le regole devono essere congegnate in maniera tale da impedirne l’abuso (mentre a volte sembrano addirittura pensate per favorirlo).
Con questo criterio, e non con un criterio di astratta eleganza giuridica che prescinda dagli effetti sul comportamento degli agenti, vanno valutati gli assetti istituzionali e le proposte di riforma del mercato del lavoro. L’attuale assetto italiano del mercato del lavoro è pessimo e va riformato profondamente; ma, sebbene non si conoscano i dettagli degli orientamenti del governo, dalla stampa e dalle labbra di molti orecchianti si leva in proposito un cantico di “parole magiche” che si ripetono e si propagano senza una valutazione critica. Vorrei, al contrario, sollevare alcuni dubbi e alcuni spunti di riflessione su ciò che, per quanto è dato di sapere al momento, bolle nella pentola del governo “tecnico”.
Primo: il contratto unico a tutele crescenti nel tempo. E’ plausibile ipotizzare che questo comporti una riduzione della precarietà? Non si tratta piuttosto del mantenimento della precarietà sotto diverso nome? In realtà, la “precarietà” che prima caratterizzava il contratto a termine e i vari “contratti non standard”, ora verrebbe estesa nel tempo per la durata di tre anni ed associata ad un’altra denominazione di contratto. In più, il meccanismo previsto sembra contenere un potente incentivo che induce l’imprenditore razionale a impedire il superamento della fatidica soglia di tre anni ogni volta che il valore della perdita di produttività dovuta alla “curva di apprendimento” sia reputata inferiore al costo complessivo dell’ingresso del lavoratore nell’area di tutela piena. Considerando accettabile un periodo di prova di una durata congrua di sei mesi, non sarebbe preferibile inserire subito dopo il lavoratore nella tutela piena? Come si giustifica questo ipotizzato limbo di tre anni? Con la difficoltà di accertare l’idoneità del lavoratore? Inverosimile. Con l’incertezza sulle fluttuazioni economiche? Ma, come è noto, questa incertezza è maggiore sul lungo piuttosto che sul breve periodo. E come si spiega la penalità inflitta al datore di lavoro con l’obbligo di pagare un indennizzo crescente in caso di licenziamento? Come sanzione per non aver saputo effettuare previsioni corrette sull’evoluzione dello scenario economico? Ma allora questa sanzione dovrebbe essere decrescente perché la colpa è più grave quando l’errore di previsione riguarda il breve periodo; nel lungo periodo infatti, come sottolineava Keynes, siamo tutti nell’incertezza assoluta. Se lo scenario economico cambia e richiede il licenziamento non si vede perché il datore di lavoro debba pagare un “indennizzo”; se non cambia, non si vede perché debba aver luogo il licenziamento. Infine, poiché è possibile che un imprenditore abbia bisogno di utilizzare una certa quantità di forza lavoro (effettuando previsioni corrette sull’andamento del livello della sua attività economica) per un periodo limitato di tempo, perché non mantenere qualche forma di lavoro o di collaborazione a termine? Sono i dilaganti abusi di queste forme a dover essere impediti; ma questi sarebbero scoraggiati se retribuzioni, condizioni di lavoro, oneri previdenziali e altri diritti non fossero mantenuti inferiori a quelli dei lavoratori a tempo indeterminato, o se fossero, ancor meglio, fissati a livello più alto. Ancora, è sensato in linea generale privilegiare la seniority? Già il prolungamento obbligatorio in servizio dei lavoratori anziani ostacola l’accesso ai giovani e rallenta quel turnover che favorirebbe il ricambio generazionale e la ristrutturazione organizzativa. E’ possibile analizzare, come si usa dire, “laicamente” questi aspetti anziché procedere come un treno senza freni sul binario unico del contratto unico?
L’altra “riforma” su cui la riflessione va approfondita riguarda il taboo o il totem (a seconda dei punti di vista) dell’art. 18. La questione dovrebbe essere inquadrata nell’obiettivo della riduzione dei “costi di aggiustamento” (che peraltro non riguardano soltanto il fattore lavoro). Questo obiettivo richiede che il costo del lavoro sia per l’impresa pienamente configurabile come costo variabile e non più come costo fisso e in secondo luogo che la flessibilità si realizzi anche nelle dimensioni della flessibilità funzionale interna all’impresa. Ma fermiamoci sulla flessibilità esterna, o numerica, legata quindi alla questione del licenziamento. E’ da considerare condizione necessaria (non sufficiente) per ottenere una efficiente allocazione del lavoro la facoltà dell’impresa (sia grande, sia piccola) di procedere a licenziamenti (sia individuali, sia collettivi) per rispondere alle esigenze di aggiustamento imposte dalle fluttuazioni della domanda e dai processi di ristrutturazione produttiva. L’art. 18 impedisce forse questo? Sembrerebbe di no. A contrario, l’assenza dell’art. 18 nelle imprese di piccola dimensione ne riduce forse il ricorso a forme contrattuali “atipiche” in favore di contratti a tempo indeterminato? Inoltre, per quali ragioni in presenza di licenziamenti economicamente fondati si dovrebbe imporre all’impresa di pagare un indennizzo? Non se ne vedono. Visto che l’art.18 impedisce soltanto licenziamenti privi di motivazioni economiche se ne potrebbe addirittura considerare l’estensione a tutte le imprese, di qualsiasi dimensione. Sia chiaro, questa libertà di licenziamento con azzeramento dei costi di aggiustamento, non produce un incremento dell’occupazione, o della domanda di lavoro, ma rende possibile una migliore allocazione del lavoro alla quale potrebbe conseguire nel medio-lungo termine, a condizione che questa sia accompagnata da crescita della competitività e della domanda (è l’andamento del mercato che spinge le imprese a espandere o contrarre la produzione e l’occupazione) un maggior assorbimento di forza lavoro.
Possiamo chiedere ai giuristi che (magari d’intesa con gli economisti) provvedano a trasformare in formulazioni normative questi principi? Al momento tali principi sembrano vanificati da due circostanze: a) il grado di libertà concesso al giudice nel valutare la presenza di motivazioni economiche; b) la lunghezza dei tempi concessi per esprimere questa valutazione. Queste due circostanze producono troppa incertezza e introducono un onere insopportabile e ingiustificato per l’impresa. Potrebbero i giuslavoristi esercitarsi nel ridurre questi due aspetti (al di fuori della “trivial solution” di considerare legittimo ogni e qualsiasi licenziamento)? Si potrebbe suggerire di lavorare su due o tre linee; per esempio, una drastica riduzione dei tempi delle decisioni giudiziali; una restrizione dei margini di discrezionalità del giudice specificando più precisamente la cause di licenziamento legittimo; l’affidamento di un ruolo di rilievo alle parti sociali (datore di lavoro e rappresentanza dei lavoratori) nel concordare le soluzioni, così come ora avviene per i licenziamenti collettivi.
La storia tuttavia non finisce qui. Riconosciuta la facoltà di licenziamento a costo zero per l’impresa, resta il fatto che se il costo del lavoro ha da essere un costo variabile per l’impresa, per la società esso va considerato un costo fisso. Il che significa che la flessibilità totale per i processi di “aggiustamento” delle imprese deve essere accompagnata da una protezione del reddito del lavoratore nel periodo in cui non lavora, anche a prescindere dalle considerazioni macroeconomiche in prospettiva anticiclica. Ma poiché il sostegno del reddito dei lavoratori in cerca di occupazione a carico della società è molto oneroso, tutti i soggetti devono essere responsabilizzati in un reciproco e interdipendente quadro di impegni. In particolare: le imprese (cui si deve chiedere la formulazione di piani industriali di ristrutturazione e l’impegno in attività di outplacement); i lavoratori (cui si deve chiedere il non rifiuto di offerte di lavoro e la partecipazione a percorsi di formazione, più la partecipazione alla formulazione di piani di ristrutturazione attraverso le rappresentanze sindacali); i responsabili pubblici e privati delle politiche di attivazione (in particolare i servizi per l’impiego e i programmi di formazione); le autorità di politica economica (cui si deve chiedere che la rinuncia alla microstabilità del posto di lavoro abbia un corrispettivo nella macrostabilità occupazionale ottenuta attraverso adeguate politiche di carattere finanziario e di carattere reale). Se questo intreccio è necessario, forse più che di “tavoli separati” per affrontare la riforma del mercato del lavoro ci sarebbe bisogno di tavoli integrati. In ogni caso bisogna dissipare l’illusione che queste due riforme all’ordine del giorno producano di per sé crescita del reddito e di posti di lavoro; a questo scopo ben altre leve, come altrove ricordato, sono da azionare.