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Il declino e la sfida. Domande sul sindacato

14/11/2008

Marina D’Agati*

Che i sindacati stiano perdendo iscritti, forza e influenza nella maggior parte delle economie industrializzate è un fenomeno sotto gli occhi di tutti. Da più parti ci si interroga sul ruolo del sindacato nell’ambito del quadro politico-istituzionale del nostro Paese e dei nuovi scenari internazionali: su com’è e come dovrebbe essere, sullo spazio che gli è proprio nella società, sui rapporti con la politica e con le istituzioni, sul modello organizzativo ad esso più consono per svolgere al meglio la sua funzione. Con Luciano Gallino, Professore emerito e già ordinario di Sociologia presso l’Università degli Studi di Torino nonché autore di numerose ricerche nel campo della sociologia del lavoro e dell'industria, proviamo ad affrontare alcuni nodi cruciali della questione sindacale oggi, con un occhio rivolto al futuro.

 

D – Prof. Gallino, la globalizzazione e i cambiamenti nei sistemi di produzione hanno mutato il ruolo del sindacato? Con quali modalità?

 

R - Sicuramente il ruolo del sindacato è mutato con i cambiamenti nei sistemi di produzione, con la frammentazione della produzione in catene internazionali di produzione o, come si usa dire, di creazione del valore.

 

Quando uno stesso prodotto – che può essere un prodotto anche di non grande contenuto tecnologico – viene fabbricato in dieci o dodici fabbriche che stanno in dieci o dodici paesi differenti è chiaro che il ruolo del sindacato cambia. Questo è un dato che non emerge mai nel dibattito sulla produttività. Sembra che la produttività consista nel fatto che la gente tra quattro mura lavora più o meno svelta o più o meno efficacemente. Di fatto la gente tra quattro mura lavora a un segmento della produzione, completa certe operazioni che sono state cominciate da altri e andranno poi ancora da qualche altra parte, e in genere nessuno fra quelli che lavorano sa bene dove. In queste condizioni è chiaro che il ruolo del sindacato è profondamente mutato e sarebbe molto importante una maggiore internazionalizzazione dei sindacati. Esiste a dire il vero una federazione europea dei sindacati, esiste l’International Labour Organization, ci sono i sindacati di alcuni settori come il tessile, l’abbigliamento, l’automobile, che fanno accordi internazionali.

 

I sindacati internazionali sono molto deboli, c’è un enorme terreno scoperto, forse le centrali sindacali potrebbero fare di più per cercare di internazionalizzare il sindacato in una misura prossima alla internazionalizzazione della produzione, e ciò vale sia per i beni che per i servizi, perchè il sindacato possa recuperare quel ruolo che nacque storicamente quando i produttori stavano tutti fra quattro mura. Il sindacato ha perso moltissimo terreno rispetto alla trasformazione della produzione, rispetto alla globalizzazione, che è stata ed è in prevalenza una nuova e influentissima forma di politica del lavoro, che ha fatto di tutto per far perdere terreno al sindacato.

 

D - Il declino dei sindacati era inevitabile oppure i sindacati sono stati (e sono) incapaci di adeguarsi ai cambiamenti della società?

 

R - Il declino dei sindacati certo non era inevitabile anche se è vero che i sindacati sono stati e sono in grandi difficoltà a adeguarsi ai cambiamenti della società. Bisogna tenere presente che dalla fine degli anni ‘70 i sindacati, a partire dal Regno Unito con la Thatcher e poi dagli Stati Uniti con Reagan, sono stati oggetto di attacchi senza precedenti sul piano politico, economico e mediatico. Si è veramente sparato a zero sui sindacati e come risultato i sindacati hanno perso decine di punti di iscritti. Oggi negli Stati Uniti i sindacati hanno un certo peso nel settore pubblico mentre nell’industria e nei servizi privati le adesioni raggiungono il 10%, nel migliore dei casi. In Europa, al seguito della Gran Bretagna, i sindacati sono stati messi sotto attacco in molti paesi, come ad esempio in Francia e in Germania. Ci sono stati un certo numero di attacchi senza precedenti. In Francia quando si parla di sindacato si usano ormai termini come arretrato, superato, obsoleto, roba da museo.

 

D - Finiremo così anche qui?

 

R - La spinta è quella, l’attacco al sindacato c’è anche qui. Mi pare che le strutture siano un po’ più solide che non altrove. I sindacati d’altra parte non sono scomparsi nemmeno in Francia o in Germania. In Francia nel pubblico sono in grado di organizzare uno sciopero di trenta giorni dall’oggi al domani. E anche in Germania non scherzano. Ma sicuramente anche da noi sono stati molto indeboliti dall’attacco politico delle riforme del mercato del lavoro, come in Francia e in Germania.

 

In Francia ci sono testi e leggi sulla “modernisation du droit du travail” e quando si parla di “modernisation du droit du travail” vuol dire sta per accadere qualcosa di sgradevole. E non si è mai visto un articolo che dice che l’autore delle leggi francesi era il responsabile delle risorse umane della Renault e il signor Hartz era il capo del personale della Volkswagen. Quando dei grandi paesi mettono in mano a rappresentanti delle imprese le riforme del mercato del lavoro vuol dire che la politica ha deciso di attaccare il sindacato e di indebolirlo il più possibile.

 

D - Quanto il sindacato è rappresentativo dell’insieme dei lavoratori e quanto invece si limita a difendere i cosiddetti “insider”?

 

R - Io credo che il sindacato sia rappresentativo dei lavoratori che lavorano e su questo si è speculato molto. La difesa dei cosiddetti insider è essenziale per la protezione degli outsider, perché altrimenti gli outsider entrerebbero nel mercato del lavoro a 700 euro al mese, con contratti di un mese e mezzo, 65 ore di lavoro settimanali e cose del genere. Quindi è un po’ è sciocco o un po’ è malintenzionato l’attacco posto su questo piano; poi è chiaro che un’organizzazione difende i propri membri.

 

D - La normativa europea che prevede il prolungamento dell’orario di lavoro quale effetto può avere sul sindacato?

 

R- Questo è un aspetto dell’attacco al sindacato. Quando i ministri del lavoro si sono riuniti per dire che l’orario può essere prolungato fino a 60 ore – fino a 65 se si considerano i tempi di sosta e di pausa – il Commissario degli affari sociali ha dimostrato un gran senso dell’umorismo definendo questo un “grande progresso”. Perché in effetti c’è una direttiva europea sull’orario di lavoro che permette in astratto allo Stato di portare l’orario di lavoro a 78 ore; tale direttiva dice che i lavoratori hanno diritto ad almeno 11 ore consecutive di riposo, ergo si può lavorare 13 ore al giorno, inoltre hanno diritto ad almeno 24 ore consecutive di riposo: possono perciò lavorare 6 giorni, e 6 per 13 fa 78. Quel commissario ha detto che lavorare solo 60-65 ore, rispetto alle 78 ore settimanali a cui si potrebbe arrivare, è un progresso! In Gran Bretagna ci si sta avvicinando a tale limite con la clausola opting out per cui anche se l’orario normale rimane, per esempio, di 42 ore, il singolo può optare per lavorare molto di più. Con i ritocchi apportati in primavera nell’ultima riunione dai ministri del lavoro – o dai ministri degli affari sociali, come si chiamano in altri paesi – in realtà la cosiddetta libertà individuale nella scelta dell’opting out è sparita perché c’è il vincolo dei contratti nazionali e di quelli di categoria; esistono quindi clausole che di fatto valgono per circa il 90% dei lavoratori, in seguito alle quali non si può uscire dal vincolo dei contratti di categoria; se allora, secondo il contratto di categoria, si deve lavorare, per esempio, 58 ore, non c’è più scelta e si devono lavorare 58 ore. In passato si poteva dire “No, io lavoro le mie 40 ore”. Ora, se entra in vigore un contratto o un accordo internazionale, secondo cui l’orario passa, per esempio, da 40 a 55 ore, questo si applica a tutti, e non solo a chi ha optato per un orario più lungo.

 

D - Mentre si verifica una crisi della rappresentanza sindacale, si sviluppano enti bilaterali, patronati fiscali, eccetera: il sindacato rischia di diventare un sindacato di servizi?

 

R - Sì, la spinta è in questa direzione. Personalmente sono un po’ scettico perché ritengo che la funzione fondamentale del sindacato sia quella di trasformare un’oggettiva debolezza di fronte all’impresa in un minimo di forza attraverso l’organizzazione, la solidarietà, ecc. Però non bisogna nemmeno dimenticare che i sindacati si sono sviluppati, e sono cresciuti, in forma di, o attorno a casse di mutuo soccorso. Già a metà dell’Ottocento c’erano casse che avevano la funzione di sostenere qualcuno che aveva un incidente, si ammalava, perdeva il posto, ecc. Questa era una funzione che poi è stata fatta propria dallo Stato sociale. Se per servizi non intendiamo semplicemente compilare la dichiarazione dei redditi e cose simili, ma intendiamo anche forme di solidarietà e di sostegno, questo fa parte della storia del sindacato. Naturalmente oggi parlare del sindacato come società di mutuo soccorso vuol dire avere rinunciato di fatto allo Stato sociale o cercare di demolire la funzione dello Stato sociale in quanto ente che ha assorbito a livello collettivo, nazionale, la funzione del mutuo soccorso. Questo è uno degli obiettivi della politica contemporanea.

 

D - Il legame del sindacato con i partiti, un tempo forte, si è oggi indebolito. Come può essere interpretato questo indebolimento? E’ un elemento di forza o di debolezza per il sindacato?

 

R - Ma… i partiti sono scomparsi e questo è certamente un elemento di debolezza per il sindacato, perché anche un dialogo conflittuale, anche un confronto, è meglio dell’assenza. Attualmente la debolezza sta da ambedue le parti perché i partiti – parliamo delle grosse formazioni – non sanno più bene che cosa vogliono, insomma non hanno più un modello di società verso cui puntare e attorno al quale organizzare consenso. E anche per il sindacato questo indubbiamente pesa molto perché un conto è dire “Non vogliamo la società esistente, ne vogliamo un’altra” e un conto è non avere alcun riferimento.

 

D - Quale deve essere il rapporto tra il sindacato e la politica?

 

Oggi siamo di fronte a un mondo del lavoro sempre più parcellizzato, in cui a un’allergia padronale alla contrattazione sindacale fa da contrappunto un sempre più diffuso individualismo. Se alla politica può essere chiesto di indicare la strada per la costruzione di un nuovo e migliore mondo dellavoro, al sindacato si deve chiedere di lottare per affermare i propri principi o di adattarsi alla realtà del nostro tempo al fine di tutelare i lavoratori?

 

R - Il rapporto del sindacato con la politica dovrebbe essere mediato, come di fatto è stato per decenni se non per generazioni, da un’idea di società, da un modello di convivenza che poi la politica persegue per quanto ne è possibile realizzare. Il sindacato procede lungo un’altra strada. Però il rapporto dovrebbe essere attorno a un’idea di società in cui si dovrebbe vivere, in cui dovrebbero crescere i figli e i nipoti. In qualche misura questo c’è ancora ma siamo ormai ai minimi termini e non credo che ciò sia dovuto principalmente alla parcellizzazione del mondo del lavoro. C’è un attacco che è anche culturale e mediatico per cui “Il sindacato non ha nulla a che fare con la politica”. Penso che trovare un punto di incontro e di dialogo sarà molto difficile: probabilmente ci vorranno decenni perché non si vedono le basi della ricostruzione. E l’assenza di un modello in cui riconoscersi, in cui credere, e su cui litigare, è sicuramente anche alla base dell’individualismo. L’individualismo, poi, ha un alleato nella frammentazione della produzione, nella riduzione della dimensione delle imprese. È anche un progetto culturale e politico di primissimo piano che da ormai una trentina d’anni spinge in direzione del “ciascuno per sé”. Anche le forme del mercato del lavoro vanno tutte in questa direzione. I tedeschi evidentemente non hanno gran senso dell’umorismo: in una delle leggi Hartz si chiede agli individui e alle famiglie di concepirsi come società anonime, di pensare e agire come una Gesellschaft, quindi fare i bilanci con entrate e uscite, il corso delle azioni, eccetera. Tutto ciò è tragicamente divertente.

 

Anche da noi le cosiddette “riforme” del mercato del lavoro, sono andate tutte in direzione dell’individualizzazione: a ciascuno il suo contratto. La legge 30 e soprattutto il suo decreto attuativo, il 276, va precisamente in quella direzione. Il che significa che la giovane o il giovane con buone competenze professionali, che ha buoni agganci famigliari, ecc., per qualche anno può trovarsi molto bene perché può spuntare fior di contratti ma poi potrà trovarsi in difficoltà. Però la spinta è in questa direzione. Per smontare, per analizzare, per indagare su questo progetto culturale, politico ed economico – che ha anche componenti etiche – si è fatto poco. E si è fatto pochissimo nella scuola e nelle Università; semmai si è teorizzato che andava bene così.

 

D - Il sindacato cosa può fare in un contesto di questo genere? È chiaro che incontra enormi difficoltà…

 

R - Quando parlo con qualche dirigente sindacale di queste cose mi dice “Ma, io debbo chiudere i contratti in un’azienda o due al giorno, chi con 20, chi con 50, chi con 200 dipendenti” oppure “Non riesco assolutamente a farlo”. Il sindacato è sicuramente oberato da assillanti vicende economiche, industriali, infinite riunioni, vertenze. Detto questo, visto che il sindacato ha anche delle scuole, ha delle riviste, ha dei centri studi, avrebbe potuto far molto di più per analizzare e combattere questa cultura individualistica, che vuol dire anche cultura del consumo, cultura del privato, cultura delle privatizzazioni. Il sindacato non ha fatto molto per far capire che le privatizzazioni non sono per niente un fatto economico ma sono un grosso fatto politico e che ogni azienda pubblica, municipale per esempio, che viene privatizzata significa un pezzo di democrazia, un pezzo di politica, sottratto alla discussione, sottratto al libero confronto tra le parti. Lo scriveva Hannah Arendt almeno una cinquantina di anni fa.

 

D - Il sindacato non fa molto: perché non vuole o perché non riesce?

 

R - Certamente ci sono tante idee, tante posizioni diverse. Il sindacato ha grossi problemi di democrazia interna – mi riferisco un po’ più alla Cigl che non agli altri. Ma pesa anche sul sindacato la cultura dell’individualismo e della globalizzazione come fatto inevitabile, vista come la legge di gravità contro la quale non c’è nulla da fare. Ed è questa la cultura che ha travolto il centrosinistra e anche nel sindacato ha pesato molto. In qualche caso mi sono trovato a fare degli interventi a convegni con dirigenti Cgil e mi sembrava di sentire parlare qualcuno del centrodestra, tanto erano ormai calati nell’idea che non ci sono alternative al modello attualmente in auge. Mi pare che da qualche mese le cose stiano un po’ cambiando, che sia un po’ cresciuto il coefficiente di attrito.

 

Però sta di fatto che la politica sindacale non ha conseguito grandi successi negli ultimi anni. In parte per proprie debolezze ma anche per gli attacchi di cui abbiamo parlato. Poi le persone sul lavoro sono, in una certa misura, opportuniste: se vedono che da un sindacato ottengono miglioramenti di orario o di condizioni di lavoro, o un premio mensile un po’ più alto, ecc., per un po’ lo votano, almeno finché serve. L’adesione ideologica al sindacato sicuramente è molto diminuita. Una volta si votava la Cgil non perché spuntava dieci mila lire al mese in più, ma perché era la Cgil, ed era il futuro dei lavoratori, era la solidarietà. Era un’identità. Gli insuccessi dei sindacati, la loro perdita di forza sono anche la conseguenza di un maggior opportunismo spicciolo. C’è chi alle elezioni magari vota Rifondazione però sul posto di lavoro vota Uil, Cisl e perfino UGL, se in un particolare contesto lavorativo ha risolto un qualche problema. Come c’è gente nella Fiom che vota a destra, non essendoci un modello di società di riferimento a cui guardare.

 

D - Il protocollo del 1992 e gli accordi del 1993 possono essere considerati la fonte dei problemi del sindacato in Italia?

 

R - Non credo possano essere considerati “la” fonte ma una delle fonti sì. Gli accordi del ’93 hanno rappresentato un’apertura al lavoro flessibile, che poi ha trovato attuazione nel pacchetto Treu del 1997. Si è trattato dell’inizio di un percorso di resa, di un allentamento di quello che era stato, invece, il progresso nelle condizioni di lavoro ispirate dall’idea che il lavoro non è una merce.

 

D - Gli accordi del ‘92-‘93 hanno aperto anche un periodo di forte moderazione salariale?

 

R - Certamente la moderazione salariale dal 1993 a oggi ha fatto sì che in questi quindici anni si siano persi circa 3 punti, 3.5 punti di PIL, trasferiti dal lavoro dipendente alle rendite e ai profitti. Sull’arco di 25 anni i punti di PIL persi sono più di 8. Questo è avvenuto anche in altri paesi, come in Francia e in Germania. A questo proposito in Germania c’è adesso una grossa polemica – sostenuta anche da studi mi pare molto seri – sul fatto che la moderazione salariale ha giovato alle esportazioni tedesche, ma ha giovato pochissimo ai lavoratori. Il numero dei lavoratori poveri in Germania – dove “povero” significa percepire due terzi o meno del salario mediano – ha superato il 22% del totale dei lavoratori dipendenti. Un dato recente ci dice che i “mini jobs” sono quasi 5 milioni, e circa 2 milioni sono i lavori da 800 euro, o meno, al mese. Questo è uno dei frutti della moderazione salariale. I tedeschi sono fra i primi esportatori del mondo e ciò significa anche posti di lavoro; però il costo è molto elevato. Il sindacato, sotto il ricatto permanente delle delocalizzazioni, è stato sicuramente indebolito dalle riforme del mercato del lavoro in Germania come altrove. Bisogna essere a un tavolo di trattative per capire quanto sia dura questa situazione.

 

D - La contrattazione di secondo livello è uno strumento per i lavoratori che vogliono vedere premiato il merito o è un boomerang che depotenzia i contratti nazionali e rischia di lasciare i lavoratori alla mercé dei datori di lavoro?

 

R - La contrattazione di secondo livello è uno strumento che può essere utile a fronte di realtà produttive estremamente diversificate. Però va solidamente inquadrata in una contrattazione di primo livello che dovrebbe avere in modo esplicito la funzione di distribuzione e redistribuzione del reddito perché è con la contrattazione di primo livello – e non con quella di secondo livello – che si perdono o si guadagnano punti di PIL a favore del lavoro o dei profitti. Invece, sembra che il sindacato abbia paura di parlarne: si dovrebbe dire “Abbiamo perso 3 punti e mezzo in 15 anni, non ne vogliamo perdere altri e anzi ne vogliamo recuperare almeno una parte”. Un punto di PIL sono 15 miliardi l’anno. Insomma c’è stato un trasferimento di reddito dal basso verso l’alto e il sindacato dovrebbe parlare di più di questo.

 

La proposta di Confindustria per la riforma del modello contrattuale va precisamente nella direzione di indebolire ulteriormente il contratto nazionale. Non so se lo facciano in modo consapevole ma certamente hanno dei consulenti economisti e credo che si rendano conto che è nella contrattazione di primo livello che si gioca la ripartizione del reddito, non in quella di secondo livello. La Confindustria è stata bravissima nell’occultare il problema, nel far finta che non ci sia e quindi continuare nella stessa direzione. Mi pare che la Cgil si sia un po’ mossa in questi ultimi tempi con un po’ più di conflittualità di quanto non avesse fatto anche solo sei mesi fa.

 

Il protocollo del 23 luglio 2007 era davvero brutto, era esangue; lo hanno firmato tutti, perché ciascuno ne ricavava qualche piccolo vantaggio. Forse la Cgil di oggi non lo firmerebbe. La presa di posizione di Epifani oggi mi pare abbastanza interessante come segno di un po’ più di dialettica.

 

D - Prospettive future: quali strade dovrebbero percorrere i sindacati per difendere e rafforzare il proprio ruolo?

 

R - Tenuto conto che dalla loro parte hanno dei giuristi molto bravi, i sindacati dovrebbero far molto di più sul piano della legislazione del lavoro. Perché fino a quando si discute se modificare dei commi del decreto attuativo 276 per ridurre un po’ i lavoratori a progetto si parla davvero di minuzie. È chiaro che una legge non si può fare dall’oggi al domani, però il sindacato dovrebbe mettere sul piatto una nuova e robusta legge sul lavoro nel suo complesso. C’era la proposta Alleva già di qualche anno fa che poteva essere un buon punto di inizio anche se, a mio avviso, questa ha un’ottica un po’ ristretta perché non collega il fatto che le condizioni di lavoro qui sono legate non solo alle condizioni di lavoro in Germania ma anche a quelle di India e Cina. Ma non se ne è fatto nulla. Insomma, si giochicchia attorno ai dettagli della legge 30 mentre un intero sistema andrebbe rimesso in discussione magari con proposte e iniziative che non saranno votabili domattina ma che, tuttavia, potrebbero far discutere, aprire nuove prospettive, mostrare che la scena non è quella che oggi viene regolarmente presentata.

 

D - I sindacati oggi non sembrano essere in grado di affrontare i cambiamenti nelle relazioni industriali che derivano dalla crescente finanziarizzazione dell’economia. Quali strategie possono adottare i sindacati di fronte a tali cambiamenti?

 

R - Il problema è che non solo i sindacati non sono in grado di affrontare i problemi della finanziarizzazione ma sembra che nessuno sia in grado di farlo.

 

Sto scrivendo un altro libro che continua un po’ L’impresa irresponsabile (ndr. Torino, Einaudi, 2005), ma è specificamente sul sistema finanziario, sugli investitori istituzionali. Ho impiegato almeno due anni per capirne qualcosa talmente è intricato, talmente è opaco. Trichet, Sarkozy, Tremonti, ecc. dicono “Ci vuole più trasparenza sui mercati”… Ma per piacere! È stato fatto il possibile e l’impossibile per rendere opaca tutta l’attività bancaria, tutta l’attività economica, tutta l’attività finanziaria e voi parlate di trasparenza. Sicuramente, da questo punto di vista, i sindacati sono molto indietro. E hanno anche pochi dalla loro parte in grado di aiutarli. Di economisti che abbiano affrontato in modo un po’ approfondito la questione della finanziarizzazione in Italia ce ne sono proprio pochi, mentre sarebbero necessari gruppi di studiosi, perché la questione è tremendamente complicata. Però, certamente, non dovrebbe essere soltanto Marchionne a dire “L’economia finanziaria ha perso ogni rapporto con l’economia reale”. Dovrebbero dirlo anche i sindacati con analisi e controproposte.

 

Il sindacato è rimasto indietro di parecchi anni. Però quando lo faccio presente ai sindacalisti, quelli mi fanno notare che devono fare contrattazione, cercare di evitare licenziamenti nelle imprese in crisi, ecc. È un mestiere molto assorbente. Però sta il fatto che anche a livello di istituti e di riviste sindacali il livello è basso. Vien da chiedersi: “Dove sono gli universitari che danno una mano ai sindacati?”. Tra i giuristi, tra i giuslavoristi, qualcuno qualcosa fa. Però tra gli economisti sono veramente pochi e anche nei centri dove un po’ si studia certamente qualcosa di più si potrebbe fare. Uno che al mattino alle 7 e 30 è già a far contrattazione e torna a casa alle 11.00 di sera avrebbe bisogno di cinque pagine di sintesi su che cosa significhi la finanziarizzazione della Fiat. Insomma, ci vorrebbe un po’ di produzione di questo tipo.

 

D - Samuelson ha detto agli italiani “Voi non vi rendete conto ma i vostri sindacati sono il gioiello della corona”. Invece, oggi quasi tutti dicono “Come si starebbe bene senza sindacati, che sono ormai solo un elemento di disturbo”. Un mondo senza sindacati come lo vedrebbe?

 

R - Il sindacato sembra un po’ un carro di pionieri circondato dagli indiani: chi è che non spara sul sindacato? – perché “è vecchio, obsoleto, non serve più”, eccetera. Anche una grossa fetta del centrosinistra. Non è che non sia giusto e doveroso criticare il sindacato. Il problema è che non ci si rende conto della solitudine in cui il sindacato è stato ad arte confinato. Un mondo senza sindacato vorrebbe dire il mondo del contratto individuale. Alcuni, con buona professionalità, giovinezza, energia, disponibilità a fare 60 ore a settimana (che sono tra quelli che pensano che il sindacato sia un elemento di disturbo) se la potranno cavare anche bene; per milioni di altri un mondo senza sindacato vuol dire un ritorno all’Italia del 1950. All’epoca l’Italia aveva il 41% di lavoratori addetti all’agricoltura e, tra questi, metà erano braccianti a giornata che lavoravano, in media, 160 giorni l’anno. Tutti chiamati a giornata. Era l’Italia dei caporali.

 

Le conquiste del sindacato non devono mai essere date per scontate. Oggi siamo ancora su un livello piuttosto alto. Sebbene le condizioni siano peggiorate, appaiono ottimali rispetto al lavoratore americano medio, per il quale le condizioni di lavoro, di vita, di protezione sociale – che un’infinità di persone anche da noi vorrebbero smantellare, a cominciare dalla privatizzazione di ospedali e sanità – sono un miraggio. Anche il centrosinistra non ha scherzato: la cultura dominante è quella.

 

 

* Marina D’Agati insegna Sociologia all'Università di Torino

Tratto da www.nuvole.it