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Riforme del lavoro sbagliate: lo dice il Tesoro
Le riforme del lavoro fatte finora sono state un fallimento. A dirlo non è la Fiom o un qualche studioso “antagonista”, ma uno studio del ministero dell’Economia, che non ha avuto molta eco e che, soprattutto, non sembra essere preso in considerazione per l’annunciato job acts, che appare voler proseguire sulla stessa linea delle precedenti modifiche.
Lo studio si intitola “Valutazione di interventi di riforma del mercato del lavoro attraverso strumenti quantitativi” e gli autori sono Germana Di Domenico, del Mef-Dipartimento del Tesoro e Margherita Scarlato dell’Università Roma Tre. Sul paper è indicata la formula di rito “Il documento riflette esclusivamente le opinioni degli autori e non impegna in alcun modo l’Amministrazione”, la stessa che appare, per esempio, sugli studi della Banca d’Italia, ma si può considerare una foglia di fico istituzionale, usata per dire che cosa si pensa senza farlo apparire una presa di posizione ufficiale.
Vengono esaminate la varie modifiche alla legislazione sul lavoro a partire dal “pacchetto Treu” del 1997, passando per la mini-riforma del 2001 considerata un prologo del Decreto legislativo del 2003 impropriamente chiamato “legge Biagi” e giungendo fino alla riforma Fornero. La metodologia è complessa e i richiami teorici numerosi, ma le conclusioni sono molto chiare. Parlando della riforma Biagi (p. 27), si osserva che “l’effetto netto dell’introduzione della politica è stato di ridurre piuttosto che favorire l’occupazione”. E all’inizio della pagina successiva, tante volte qualcuno non avesse capito bene: “La riforma Biagi ha causato un peggioramento della dinamica occupazionale”.
Più in particolare (p. 30): 1) in seguito alla riforma si stima una probabilità minore di transitare da stati di non occupazione verso contratti a tempo indeterminato; 2) per i soli soggetti in uno stato iniziale di contratto a progetto (collaboratori), si registra una maggiore probabilità di transitare verso contratti a tempo indeterminato (circa 1 per cento), mentre si registra una diminuzione sostanziale della probabilità di transitare da contratti a tempo determinato verso contratti a tempo indeterminato (circa 10 per cento); 3) per i soggetti con contratti a progetto e contratti a tempo determinato, aumenta la probabilità di uscire dal mercato del lavoro.