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L’état c’est moi
I “professori” hanno poca consapevolezza del loro ruolo “tecnico” di ministri della cosa pubblica. L’idea balorda che siano loro a mettere una “paccata di miliardi” è una versione casareccia de “l’état c’est moi”
La ministra Fornero ne ha detta un’altra. “Se uno comincia a dire di no, perché dovremmo mettere lì una paccata di miliardi e poi dire: voi diteci di sì? No, non si fa così!”, ha sostenuto a commento delle difficoltà della trattativa con i sindacati sulla riforma del mercato del lavoro, qualche giorno fa. È sorprendente quanto poco i “professori” hanno consapevolezza del loro ruolo “tecnico” di ministri della cosa pubblica. L’idea balorda che siano loro a mettere una “paccata di miliardi” è una versione casareccia de “l’état c’est moi” in un contesto che su un punto cruciale del programma di Governo sembra prospettare lo scambio «ditemi di sì e io vi do un po’ di miliardi».
Non è così che dovrebbe svolgersi il confronto tra le parti sociali nella ricerca di soluzioni per una delle riforme istituzionali che, giustamente o meno, è ritenuta essenziale per il rilancio dell’occupazione e della crescita. L’obiettivo di ridefinire le regole del mercato del lavoro favorendo la “flessibilità buona” (?), e quindi aumentando il costo dei lavoratori in termini di insicurezza sulla stabilità del posto di lavoro, comportava implicitamente l’allestimento di un sostegno economico di carattere più universale (che peraltro, nei fatti, sembra inferiore per dimensione e durata di quanto previsto dalla normativa attuale). Uno scambio le cui ragioni risiedono nel contenere le preoccupazioni dei lavoratori per l’insicurezza delle loro future condizioni occupazionali (e quindi di reddito) che incidono pesantemente (soprattutto nelle attuali condizioni di recessione) sulle loro condizioni di vita personale e famigliare. Anche trascurando questa dimensione “sociale”, vi sono ragioni “economiche” per l’impatto che l’insicurezza del lavoratore ha sull’impresa in quanto ne deprime motivazioni e qualità dell’impegno e ne allenta la sua identificazione con gli obiettivi dell’impresa. Se questi sono gli aspetti “reali” della questione, ai tecnici è delegata la ricerca di una soluzione politicamente accettabile che concili esigenze economiche e esigenze sociali.
I ministri non hanno quindi niente di proprio da mettere sul tavolo e, per quanto sia apprezzabile l’impegno del Ministro del lavoro nel cercare le risorse che permettano di trovare una soluzione politicamente convincente al meccanismo di sostegno sociale del reddito, esso è un atto dovuto dal momento che la riforma è posta come punto qualificante del programma di governo. È sorprendente comunque che, una volta nella stanza dei bottoni, non ci si accorga più che la “paccata” di miliardi con cui si ha a che fare non è una dotazione personale del Ministro o del Governo, ma è il risultato di una redistribuzione dei redditi dai lavoratori ai lavoratori, sia perché sono fondi che provengono direttamente dagli stessi (e dalle imprese) sia perché la parte proveniente dalla fiscalità generale grava anch’essa sul medesimo settore sociale, come è risultato evidente dall’intervento salva-Italia di questo Governo. La questione non è quindi se aprire o chiudere il rubinetto dei miliardi; la sfida è se sia realistica la possibilità di realizzare l’idea del Governo di favorire il rilancio della crescita tramite un’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro compensata da un’appropriata redistribuzione del reddito in grado di garantire (nell’ottica del flex-security del “modello sociale europeo”) livelli adeguati di “sicurezza” nel futuro. Ma forse l’espressione piuttosto “naive” della Fornero può essere una spia della frustrazione che tutti questi miliardi non ci sono e che in prospettiva non ci saranno.
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