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Come siamo arrivati in basso

31/07/2009

"L'economia italiana nel nuovo millennio". Crescita, occupazione, produttività, distribuzione. Un libro di Saltari e Travaglini sugli antefatti della crisi

Con l’avanzare della crisi l’interesse relativo alla situazione e alle prospettive dell’economia italiana tende per molti aspetti ad aumentare. La nostra struttura produttiva appariva sostanzialmente stagnante già prima dell’arrivo delle difficoltà recenti e ci si può chiedere se al momento della, del tutto eventuale, ripresa mondiale essa riuscirà a ritrovare, dati anche i precedenti, la via giusta per tornare a crescere.
Per cercare di rispondere a tali questioni può apparire opportuno partire dalle profonde trasformazioni che hanno toccato la nostra economia negli ultimi quindici anni. E’ quanto cerca di fare, ad esempio, il testo di Enrico Saltari e Giuseppe Travaglini, dal titolo L’economia italiana del nuovo millennio, pubblicato poche settimane fa dall’editore Carocci. I due autori, docenti di materie economiche e finanziarie, hanno posto il tema al centro dei loro interessi di ricerca recenti ed hanno già pubblicato nel 2006, presso l’Utet, un libro dal titolo Le radici del declino economico: occupazione e produttività in Italia nell’ultimo decennio. Il volume appena stampato appare, per molti aspetti, una sorta di continuazione del discorso aperto con quello precedente, che aveva ricevuto a suo tempo una buona accoglienza.
Il libro si compone di due parti.
La prima, dal titolo Come è fatta l’economia italiana, è una ricostruzione della struttura e dei mutamenti recenti della nostra economia; in essa vengono analizzati, in vari capitoli, il mercato dei beni dal punto di vista della domanda e da quello dell’offerta, il mercato del lavoro, il settore pubblico, il sistema finanziario. Questa prima sezione del testo è pensata soprattutto per chi non è molto addentro a tali questioni e vuole farsi un’idea di quanto è avvenuto. Il linguaggio utilizzato appare, in coerenza con l’obiettivo, abbastanza semplice e piano.
La parte centrale del libro è comunque la seconda, che affronta, in particolare nei capitoli sei e sette, i principali fatti che hanno caratterizzato negli anni recenti l’economia del nostro paese e cerca di dare una possibile interpretazione di tali avvenimenti. L’ultimo capitolo, infine, l’ottavo, volge l’attenzione agli aspetti reali della crisi mondiale attuale e alle possibili sue conseguenze per la nostra economia.
Il cuore del discorso parte dall’analisi dell’effetto combinato dei mutamenti tecnologici e di quelli istituzionali del mercato del lavoro sul nostro sistema produttivo.
Vi si rileva, a questo proposito, come l’introduzione delle tipologie dei contratti flessibili, a partire a suo tempo dalla legge Treu, abbia indubbiamente contribuito ad accrescere il livello dell’occupazione in Italia. Per quanto riguarda il secondo tema, si sa intanto che la produttività del lavoro aumenta in generale con l’introduzione di nuove tecnologie, fattore quest’ultimo centrale e determinante della crescita economica di un paese.
Ora, è successo che abbiamo assistito alla crescita di otto punti nei tassi di occupazione nel periodo che va dal 1995 sino alla metà del 2008, anche se il tasso di occupazione italiano resta alla fine inferiore di circa 4 punti a quello medio europeo – si potrebbe peraltro aggiungere che, se si prendesse in considerazione anche il lavoro nero, le differenze quantitative con il resto dell’Europa si ridurrebbero su questo fronte a poca cosa. Accanto alla rilevante crescita del tasso di occupazione, bisogna ricordare che si è assistito invece, nello stesso tempo, ad un aumento più lento di prima dei livelli del salario monetario e, nello stesso tempo, ad un rallentamento nella crescita della produttività del lavoro; tale ultimo fenomeno si può quantificare come pari ad un punto percentuale in meno all’anno dai primi anni novanta ad oggi rispetto al periodo precedente. La stessa linea di tendenza si registra a livello europeo, ma in misura meno accentuata.
Contemporaneamente, è aumentata nel tempo nel nostro paese la quota dei profitti sul pil, proprio nel periodo in cui la crescita della produttività ha subito un rallentamento. Tale quota è passata in effetti dal 37% nel 1991 al 46% nel 2008, anche in questo seguendo una tendenza più generale a livello europeo, ma di nuovo con caratteri più marcati nel nostro caso. Specularmente, si è ovviamente ridotta la parte che va al lavoro.
L’aumento della flessibilità del lavoro non è stata accompagnata da un aumento della concorrenza nel mercato dei beni e servizi, ciò che, insieme alla contemporanea crescita molto lenta dei salari monetari, ha avuto come conseguenza una sostanziale stagnazione del potere d’acquisto degli stessi salari. La flessibilizzazione e la moderazione salariale non hanno in ogni caso spinto a grandi innovazioni tecnologiche e ad una crescita economica più sostenuta, ma hanno invece indirizzato le imprese verso produzioni a maggiore contenuto di lavoro ed a più basso contenuto tecnologico, deprimendo così il progresso tecnico e la produttività del lavoro, in relazione al fatto che quest’ultimo fattore è diventato meno caro del capitale. In ogni caso, inoltre, i redditi da lavoro sono aumentati meno della crescita della produttività.
Abbiamo comunque assistito a questo proposito ad una divaricazione rilevante negli andamenti tra il settore manifatturiero e quello dei servizi, in particolare per quanto riguarda la distribuzione del reddito tra profitti e salari. Di fatto, nel primo settore la quota del reddito da lavoro sul valore aggiunto è rimasta pressoché costante nel tempo, mentre in quella dei servizi essa si è ridotta di sette punti percentuali negli ultimi venti anni. Questa differenza di comportamento potrebbe essere spiegata per i due autori proprio dalla diversa dinamica settoriale della produttività; essa è cresciuta poco nei servizi sia per la scarsa diffusione di nuove tecnologie, sia anche per la scarso livello di concorrenza presente nel settore, ciò che ha permesso alle imprese di aumentare i prezzi più del costo del lavoro per unità di prodotto, accrescendo i margini di profitto.
A livello generale, la stagnazione salariale ha contribuito al rallentamento della domanda interna, fenomeno che non è stato per niente compensato da una maggiore dinamica delle esportazioni, una tradizionale punto importante di sbocco delle produzioni del nostro paese. Questo è avvenuto per la ridotta capacità competitiva del nostro sistema, sia in relazione all’aumento della concorrenza dei nuovi paesi che si sono di recente fortemente affermati sui mercati internazionali, sia per il venir meno della possibilità delle svalutazioni competitive della moneta, che sostituiva per noi un’ancora di salvezza fondamentale prima dell’avvento dell’euro. Più in generale, hanno pesato su tali andamenti la particolarità della nostra struttura produttiva e la scarsa capacità complessiva di adattamento delle nostre produzioni e delle nostre imprese al mutato contesto competitivo indotto dai processi di innovazione tecnologica e di sviluppo della globalizzazione.
Chissà se al momento della stesura della legge che porta il suo nome l’allora ministro Treu avrebbe potuto immaginare le conseguenze che essa avrebbe scatenato sul sistema economico del paese. Probabilmente no. Oggi egli, del tutto ragionevolmente, dichiara che le disposizioni sui contratti atipici avrebbero dovuto essere accompagnate nel tempo da altre riforme nel settore, quale, tra l’altro, quella sugli ammortizzatori sociali. E’ arrivato invece il governo di destra che ha ulteriormente e fortemente liberalizzato il fenomeno senza porsi alcuno scrupolo di tipo sociale. Per altro verso, si può pensare che l’allora governo di centro-sinistra abbia varato la riforma anche per venir incontro alle richieste della Confindustria e di tanti economisti che sostenevano che la misura era necessaria per aumentare la competitività delle imprese. Si è visto come la cosa sia poi andata a finire.
Sarebbe interessante capire bene cosa stia succedendo ora con la crisi: almeno in parte i lavoratori atipici stanno perdendo i loro posti di lavoro; neanche tali forme contrattuali servono oggi ai padroni. Peccato che probabilmente ciò, oltre a danneggiare i lavoratori, non gioverà neanche a spingere in alto i livelli di produttività del sistema, dal momento che i livelli di produzione delle imprese stanno probabilmente cadendo ancora più fortemente della riduzione del numero degli occupati atipici.
L’ultimo capitolo del libro, che tocca i temi della crisi internazionale, risulta, almeno in parte, un po’ staccato dal resto del volume; comunque se ne traggono le conclusioni che la politica economica dal governo nell’affrontare il fenomeno non è certamente stata, almeno sino a questo momento, molto attiva. Peraltro, affermano i due autori, i vincoli di bilancio frenerebbero la possibilità di varare migliori forme di ammortizzatori sociali e misure incisive di sostegno all’economia reale. Corriamo così il rischio, scrivono Saltari e Travaglini, di uscire dalla crisi con un apparato produttivo ancora meno solido e competitivo di prima, quando sarebbe invece necessario, come invoca il testo, un miglioramento della dinamica della produttività e del modello di specializzazione produttiva della nostra economia. Su come fare per rovesciare tali tendenze, ciò che comunque appare, allo stato dei fatti, come un’impresa quasi disperata, bisognerebbe scrivere un altro libro. Sullo sfondo sta minaccioso il declino strutturale o comunque un destino di tipo giapponese, ma di seconda classe.






































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