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Colosseo: lavoro pubblico e diritti essenziali

24/09/2015

L’obiettivo del Governo sembra quello di sostituire il lavoro pubblico con forme coercitive di lavoro gratuito, laddove l'erogazione dei servizi pubblici dovrebbe avere un ruolo e una qualificazione adeguata

La spregiudicatezza con cui il governo Renzi sta conducendo una vera e propria battaglia contro i lavoratori e i loro diritti rischia di imprimere un duro colpo all’intero impianto costituzionale. La progressiva riduzione delle tutele individuali e collettive attraverso l’esautoramento delle funzioni di controllo politico e istituzionale (come sta avvenendo con la riforma istituzionale) si traduce nella realtà di molti lavoratori e lavoratrici nell’impossibilità di esercitare le libertà garantite dalla nostra carta costituzionale (diritto di sciopero, diritto alla rappresentanza sindacale, diritto di assemblea).

Questa contro-riforma autoritaria prende avvio dallo svuotamento delle prerogative dello stato che, da garante dei bisogni e dei diritti dei cittadini, si trasforma in mero strumento di accumulazione capitalistica e veicolo di processi di privatizzazione dei beni comuni.

La rottamazione promessa da Renzi appare quindi diretta esclusivamente a rafforzare gli squilibri di potere tra lavoro e capitale, che già prima del suo arrivo erano piuttosto sbilanciati a favore del secondo, grazie a una politica che va avanti da oltre trent’anni (dagli accordi del 1979 per arrivare a quelli del 1993 e così via fino alle Riforme Treu e Fornero), più che a sostituire blocchi storici di potere.

Guardando all’attualità, l’epilogo dell’assemblea sindacale, regolarmente indetta e svolta dai lavoratori del Mibact, che ha visto il Consiglio dei Ministri approvare in meno di tre minuti un decreto legge che equipara la gestione dei beni culturali ai servizi pubblici essenziali, non è che un pretesto per aggiungere un altro tassello alla dequalificazione e svalutazione del lavoro salariato. L’obiettivo non troppo celato del Governo pare quello di sostituire il lavoro pubblico con forme coercitive di lavoro gratuito, laddove invece le attività finalizzate alla produzione ed erogazione dei servizi pubblici dovrebbe avere un ruolo e una qualificazione adeguata. La strategia adottata con un procedimento di urgenza non è che il risultato di un calcolo ben preciso: al diritto di assemblea sindacale si risponde con un provvedimento, che riguarda principalmente il diritto di sciopero, sui cui la volontà di intervenire sul piano generale è palese, considerando che giacciono in Parlamento ben tre proposte volte a condizionare e restringere il diritto di sciopero.

Una misura che si inserisce nel solco di un’azione di governo che nei primi 16 mesi di attività ha eliminato i contratti stabili, abolendo l’articolo 18, liberalizzato la forma più estrema di precariato, i voucher, ridotto i diritti dei lavoratori a termine, trasferendo gli indennizzi dai lavoratori all’erario e abolendo l’obbligatorietà di assunzione a tempo indeterminato nel caso in cui il datore di lavoro impieghi una quota di dipendenti a termine oltre il 20% dell’organico a tempo indeterminato, e così via fino al demansionamento e alla finta abolizione delle dimissioni in bianco.

Il JobsAct non è l’unico attacco sferzato dal governo alla dignità del lavoro, ma un tassello di un disegno generale volto alla legalizzazione dello sfruttamento, da consumare dentro il perimetro del pubblico, in modo da arginare ogni barriera all’azione prevaricatrice nel settore privato. In questo modo, si palesa nettamente uno dei capisaldi del programma renziano, che fin dai suoi albori si scagliava contro l’impiego nel settore pubblico, reo di troppa protezione rispetto a quello privato.

Una visione che trova conferma nel protocollo di intesa, attivo dallo scorso febbraio, tra Ministero del Lavoro, Anci e Terzo settore, il quale prevede che i beneficiari di sussidi di sostegno al reddito (dalla cassa integrazione, assegni di disoccupazione, mobilià, ...) possano prestare volontariamente servizio presso le amministrazioni comunali o enti locali, “nell’ambito di progetti di utilità sociale realizzati dalle organizzazioni del terzo settore e da comuni e enti locali”. Quando venne firmato Poletti si premurò a precisare che non si sarebbe trattato di nuovi LSU (Lavoratori socialmente utili) e lo fece convintamente dato che a questi volontari non solo non sarebbe stata corrisposta alcuna retribuzione, ma neppure i contributi previdenziali.

La firma del protocollo è avvenuta nel silenzio generale e nessuna forza politica ha avuto la prontezza di aggredire le vistose contraddizioni contenute nel documento.

Mentre l’accordo ratificava un punto di svolta nel rapporto tra la sfera della produzione e quella della riproduzione sociale, rendendo poroso il rapporto tra il diritto al lavoro e la dimensione del volontariato come ambito di costruzione del legame sociale, i principali attori della sinistra italiana hanno preferito dibattere di formule e alchimie politiciste.

L’accordo, già attivato in via sperimentale in alcune città, rischia di lasciare spazio ad un abuso del lavoro volontario dentro gli enti locali, colpite nella propria autonomia di spesa dal patto di stabilità, che potranno ricorrere con maggiore disinvoltura a forme di impiego non retribuite per svolgere funzioni di pubblica utilità.

La vicenda del Colosseo traccia un filo rosso: alla rivendicazione salariale il governo contrappone il diritto dei turisti di godere del patrimonio artistico italiano, lo stesso che negli anni continua a subire tagli e negligenze da parte di un blocco di potere, che Renzi si è guardato bene dal rottamare.

Il diritto di assemblea non appartiene infatti strettamente alla sfera sindacale, che opera una mediazione nei rapporti di forza tra datori di lavoro e lavoratori, ma attiene all’ambito delle libertà sancite dalla Carta Costituzionale. Rivendicare il diritto ad una retribuzione equa o al rispetto dei principi di sicurezza sui luoghi di lavoro fa sorgere in capo al lavoratore un diritto soggettivo.

E’ proprio nel momento in cui l’apparato statale abdica alla sua funzione di garanzia del pieno esercizio dei diritti individuali e collettivi , che i rapporti di forza tra lavoro e capitale nel settore privato si inaspriscono, indebolendo il potere dei lavoratori di rinvendicare nell’ambito della contrattazione un diritto non più garantito neppure dallo Stato.

Per decenni, i governi di centro destra e centro sinistra, alternandosi, hanno delegato la politica industriale al mercato, abitato da un settore privato, che almeno in Italia, salvo rare eccezioni o periodi, è l’incarnazione del parassitismo, del vivere sulle spalle degli altri, notoriamente contribuenti e lavoratori. Finora il punto più basso era stato raggiunto permettendo che lo stato, piuttosto che esigere dalle imprese maggiore responsabilità sociale, maggiore partecipazione alla redistribuzione della ricchezza, rivolgesse il proprio potere coercitivo sui cittadini (anche, se non soprattutto attraverso la tassazione) affinché le imprese potessero accrescere i propri profitti indisturbatamente. Ad esempio, in Italia è minimo il ricorso alla leva fiscale per garantire una maggiore redistribuzione e produzione di beni e servizi pubblici essenziali, come ad esempio la cura dell’infanzia, il diritto allo studio, alla salute. Specularmente però essa ha permesso di alimentare clientele, sprechi, ridando linfa a forme di parassitismo privato.

Tuttavia, oggi, si compie un definitivo passo in avanti: sembra essere arrivato il momento in cui ad essere delegata è la definizione stessa dei diritti e delle tutele individuali e collettive. Ma nel momento in cui non è lo Stato, portatore di interessi collettivi e di un’idea di progresso, a definire e garantire lungo questa visione progressista quali siano i bisogni individuali e collettivi da soddisfare e proteggere, allora esso sarà inevitabilmente sostiuito da una forza altra, che in questo caso è il mercato privato o i gruppi di potere che maggiormente riescono a influenzare le dinamiche socio-economiche. La paralisi che oggi investe la politica, soprattutto a sinistra, è una conseguenza della scelta di lasciare campo aperto agli interessi privati e al dominio del forte contro il debole. Forse, per recuperare terreno occorrerebbe ripartire da lì, dalla vocazione storica della sinistra, la difesa degli ultimi contro lo strapotere dei potenti, mettendo finalmente da parte vecchi e nuovi rituali che stanno spegnendo ogni giorno la speranza di poter cambiare il corso della storia.

 

 

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