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Tutti i limiti del Jobs Act di Renzi
Dopo una defatigante contesa tra parti in commedia fatta di barricate dapprima erette e poi rapidamente demolite si è giunti alla direzione del Partito democratico chiamata a esprimersi sul Jobs Act targato Renzi.
La paventata scissione tra maggioranza e minoranza del partito non si è materializzata e il documento presentato da Renzi ha potuto contare su 130 voti favorevoli contro 11 astenuti e 20 contrari. La durezza dei toni usati da esponenti del calibro di Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, i quali sono sembrati colpiti più dal metodo del segretario che non dal merito del documento presentato, ha messo in luce i tratti di uno scenario da fine corsa per coloro che si consideravano i padri nobili della socialdemocrazia italiana.
Di fronte ai loro occhi si è consumato un dibattito alla fine del quale fra un tecnicismo e qualche distinguo è stato approvato un documento che solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile discutere nella direzione di quel partito. Il rovesciamento di natura quasi antropologica operato da Renzi ha visto, tra le altre cose, l’inscrizione del diritto di licenziare (liberamente e senza perdere tempo con giudici e tribunali) tra le stelle polari del nuovo corso democratico. Si è dunque completato quel percorso dal sapore blairiano che, avviato nella seconda metà degli anni 90 dalla stessa vecchia guardia che ieri gettava strali sul segretario, ha portato all’eliminazione di qualunque residuo di cultura lavorista ancora presente nel Pd.
Ma vediamo che provvedimento è uscito dalla direzione e quali sono stati i principali oggetti del contendere tra maggioranza e minoranza del Pd.