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Libertà sindacale sequestrata
Nel 1987, invitato da un periodico a raccontarsi, Gino Giugni scrisse di sé: “non saprò mai se sono un giurista prestato alla politica o un politico prestato al diritto”. In effetti, se in qualità di giurista prestato alla politica ha dato molto, in qualità di politico prestato al diritto certamente non ha dato di meno e, anzi, forse ha dato di più. Fin dal suo esordio negli studi giuridici, si assegnò il compito di fertilizzare il terreno culturalmente più favorevole ad orientamenti legislativi che facessero dell’impresa uno spazio di agibilità sindacale senza regolare né il sindacato né la contrattazione collettiva e nemmeno lo sciopero.
La sua opzione era fondata su di una certezza e animata da una fiducia. Giugni credeva che l’auto-organizzazione degli interessi che nell’impresa s’incontrano e si scontrano fosse espressione della libertà sindacale ed era persuaso che, messo nella condizione di far-da-sé, il sindacato avrebbe gestito l’auto-regolazione sociale secondo criteri ordinanti e all’interno di vincoli di sistema il cui insieme si sarebbe tradotto in un quadro di legalità spontanea.
Dunque, questo straordinario intellettuale ha fatto quel che poteva per dare al movimento sindacale la chance di svilupparsi in un clima impermeabile alle seduttive suggestioni che, malgrado tutto, l’esperienza corporativa seguitava a produrre. Poi, è accaduto quel che doveva. E quel che è accaduto costituisce, nella storia delle idee giuridiche, un mix di opposti. Verità e falsità. Finzione e realtà. Pragmatismo e infatuazione ideologica. Piccole astuzie ed euforia progettuale.
Per questo, al di là delle intenzioni si è consolidata una situazione di a-legalità sospesa tra quel che in una democrazia costituzionale non può più essere e quel che non potrebbe mai formarsi: un ordinamento auto-sufficiente, originario e sovrano, capace di produzione normativa, di amministrazione e anche di giurisdizione. Infatti, pur rivendicando il merito di avere insegnato a generazioni di giuristi del lavoro “che, anche in assenza di un intervento legislativo attuativo del particolare tipo di contratto previsto dalla Costituzione, il sistema contrattuale non era extra legem e tanto meno contra legem”, lo stesso Giugni non esiterà ad ammettere che “questo ordinamento di fatto oggi è un po’ sgangherato”. Un bel po’.
La performance compiuta dall’autonomia contrattuale collettiva tra il 2012 e il 2014 lo ha ridisegnato appunto per migliorarne l’aspetto e soprattutto il rendimento, a modo suo assumendo come paradigma proprio “il particolare tipo di contratto previsto dalla Costituzione”. Si tratta perciò di capire se le parti sociali siano finalmente riuscite a trovare fuori della Costituzione ciò che in essa è già scritto.
L’art. 39 della costituzione stabilisce che “i sindacati, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Come dire: ogni categoria ha la sua “legge” negoziata, la delegazione trattante è un organismo comune a tutti i sindacati aventi il diritto di accedervi ed è paragonabile ad un mini-parlamento il cui funzionamento è governato dal principio di proporzionalità. Insomma, la Costituzione è permissiva, se non proprio a-selettiva, quanto ai soggetti partecipanti al processo di formazione del contratto collettivo perché ciò che conta è assicurare la più ampia condivisione dei contenuti di un atto che, avendo un’efficacia para-legislativa, implica un sacrificio della libertà decisionale delle organizzazioni sindacali minoritarie e dissenzienti.