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Marchionne, la sinistra e l'addio all'auto italiana
Vi è qualcosa di tristemente paradossale nel modo come Marchionne ha diviso il PD, oltre ai sindacati. Per Susanna Camusso, Marchionne ha rivelato un atteggiamento autoritario e antidemocratico, in altre parole, ricattatorio. Per una parte del PD si tratta, al contrario, di un richiamo alla realtà della globalizzazione e alla necessità di adeguarvi la strategia del sindacato. L’unica obiezione per questa posizione è l’esclusione della FIOM dalla rappresentanza dei lavoratori. Obiezione sacrosanta – sarebbe stupefacente il contrario – ma insufficiente. Questa è solo la punta dell’iceberg.
Per ragionare del piano di Marchionne bisogna partire dal fatto che il suo destino di manager internazionale è definitivamente legato alla Chrysler. Sarà Detroit a decretare il suo successo o il suo fallimento. La Chrysler viene da un passato travagliato. Negli ultimi decenni è stata ripetutamente sull’orlo del fallimento. Emarginata dal grande mercato americano, non può stupire che quando nel 2009 Barack Obama decise, dopo la procedura di fallimento, il salvataggio della GM e della Chrysler, nessun imprenditore americano si fece avanti per porre mano alla Chrysler con la quale si era cimentata la tedesca Daimler, produttrice della Mercedes Benz, rimettendoci miliardi di dollari, prima di ritirarsi nel 2007.
Ma per le ambizioni di Marchionne si trattava di un’occasione imperdibile. La Chrysler era ceduta a titolo gratuito con una dotazione del 20 per cento delle azioni e la possibilità di acquisire prima il 35 per cento, e poi la maggioranza del pacchetto azionario (ora nelle mani del sindacato dell’auto), una volta ripagato il debito di oltre sette miliardi di dollari ai governi americano e canadese. Non è difficile comprendere come per Marchionne riuscire a rilanciare la “Terza grande” di Detroit, acquisendone il controllo, è l’impresa della sua vita. E come la Fiat vi giochi un ruolo complementare e, per alcuni aspetti, residuale.
Proviamo a riassumere alcuni dati. Nel 2010 la Chrysler ha prodotto all’incirca un milione di auto (e veicoli leggeri). A metà di questo decennio ne aveva prodotte più di due milioni. Marchionne si è fissato l’obiettivo di arrivare a 2.800.000, poco meno del triplo della produzione corrente, entro il 2014. Per gli analisti più scettici è un traguardo velleitario. Ma nello schema strategico di Marchionne è un obiettivo essenziale per raggiungere il traguardo di cinque milioni e mezzo/sei milioni di unità fissato per l’alleanza Fiat-Chrysler.
Nel disegno strategico di Marchionne, il ramo più importante del gruppo Fiat è quello brasiliano, dove la Fiat è tra i produttori il numero uno, precedendo Volkswagen e General Motors. Non a caso, per la fabbrica di Betim alla periferia di Belo Horizonte, che è una delle più grandi fabbriche automobilistiche del mondo, la Fiat ha stanziato investimenti che consentiranno un aumento della capacità produttiva fino a un milione di unità. Un'altra fabbrica sarà costruita nello stato di Pernambuco per 200.000 unità. Con un milione e duecento mila auto, il doppio di quelle costruite nel 2010 in Italia, Fiat consolida il suo primato sul mercato brasiliano. Se a Detroit spetterà, con la Chrysler, il ruolo di capofila dell’alleanza, il Brasile diverrà il sito più importante del gruppo Fiat.
Se i due terzi del piano produttivo sono affidati alla Chrysler e al ramo brasiliano della Fiat, all’Europa non può che spettare un ruolo di supporto con diverse variabili. La Polonia consoliderà la sua posizione con una produzione di 600.000 unità a Tychy. Il “progetto Serbia”, per il quale esiste un accordo col governo serbo che conferisce i due terzi della proprietà a Fiat e un terzo allo Stato, prevede a regime la produzione di 200.000 unità negli stabilimenti ristrutturati della vecchia Zastava. Altre 100.000 unità sono in produzione a Bursa in Turchia. Ciò che rimane del grande progetto “globale” Chrysler-Fiat (a partire dalle 600.000 unità attuali, ma l’Alfa Romeo dovrebbe passare alla Volkswagen) potrà essere distribuito fra gli stabilimenti italiani, a seconda delle circostanze e delle convenienze .
Non può sorprendere che Marchionne rifiuti di mostrare il suo piano di investimenti in Italia. Sarebbe dura anche per i suoi più volenterosi estimatori del PD e dei sindacati firmatari degli accordi di Pomigliano e Mirafiori prendere atto che della vecchia FIAT – Fabbrica Italiana Automobili Torino – non rimarrà che una pallida ombra, con il centro trasmigrato a Detroit e la principale diramazione in America latina.
Rispetto al killeraggio della Fiat la globalizzazione evocata con forza da Sergio Romano e da Eugenio Scalfari è un alibi inconsistente. La Toyota, la Volkswagen, la Ford e la GM, come il gruppo PSA e la Renault francesi sono imprese “globali”che producono e vendono in diversi continenti, ma a nessuno verrebbe in mente di negare che, in primo luogo, si tratta di imprese i cui centri di riferimento, di ricerca e di sviluppo sono in Giappone, in Germania, negli Stati Uniti e in Francia.
Nel 2010 il gruppo Fiat avrà collocato sul mercato dell’Unione europea all’incirca un milione di auto, i due maggiori gruppi francesi tre milioni e i produttori tedeschi sei milioni. Dobbiamo questo scarto drammatico all’ingordigia dei sindacati italiani – in particolare, della Fiom – ignari dell’avvento della globalizzazione? Al rifiuto di adeguare i salari italiani a quelli polacchi e – perché no? – cinesi? Ma il Sole 24 ore (28 ottobre) onestamente ci ricorda che alla Volkswagen il salario lordo di base degli operai della linea di montaggio è di 2.700 euro al mese e quello degli operai della manutenzione di 3.300-3.500 euro. E non si tratta solo di salario. I rappresentanti dei lavoratori occupano il 50 per cento dei seggi del Consiglio di sorveglianza (come in tutte le grandi imprese tedesche), dove si discute la strategia dell’impresa, gli investimenti e le garanzie dell’occupazione. Quando un’impresa sostituisce un diktat alla pratica di un normale negoziato e al sindacato che dissente è negata la cittadinanza in fabbrica, il problema non è la globalizzazione, ma l’americanizzazione delle relazioni industriali.
Ma vi è qualcosa di più, qualcosa di tristemente grottesco. Tra la Germania, punta di diamante dell’industria europea e gli USA in piena crisi, una parte della sinistra e del sindacato sceglie il modello americano di Marchionne. Il modello della contrattazione aziendale che ha messo in ginocchio l’AFL-CIO, quello che fu il potente sindacato americano ridotto all’otto cento di iscritti nel settore privato. L’America dove, dopo Reagan e non ostante Barack Obama, chi sciopera può essere sostituito a tempo indeterminato dai crumiri. Dove si può lavorare nello stesso posto di lavoro con la metà del salario.
Landini ha detto: provate voi a lavorare alla catena di montaggio prima di parlare di ritmi, cadenze, pause, turni. Una questione banalmente demagogica per chi ragiona secondo i grandi paradigmi della globalizzazione e della modernizzazione. Eppure questo è il mestiere del sindacato. In ogni caso, basterebbe chiedersi se Marchionne avrebbe potuto presentare il suo progetto di marginalizzazione, se non di definitiva distruzione, della Fiat e di smantellamento del sistema di relazioni industriali, a un normale governo di destra come quello tedesco o francese, o a un sindacato come l'IG Metall, senza essere sbeffeggiato e considerato un semplice provocatore, bizzarro e arrogante. In Italia assume, invece, le sembianze di un “modernizzatore” e di un riformatore lungamente atteso.