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Sviluppo, meglio l'opera da tre soldi

14/10/2011

Mentre - come avevamo purtroppo previsto - la produzione industriale nel terzo trimestre cala dell'1,4% rispetto all'anno precedente e rimane di oltre il 18% inferiore ai massimi dei tempi del governo Prodi, la maggioranza blocca il Parlamento in dibattiti sulla pubblicazione di intercettazioni relative alle cene di Trimalcione. Deus amentat quos perdere vult.

Siamo frattanto in attesa di una manovra "per la crescita e lo sviluppo", che ci verrà presentata, come di consueto, senza alternative e senza dibattiti. L'opinione pubblica ha constatato che il dibattito parlamentare è praticamente nullo, per il ricorso sistematico ai cosiddetti "maxiemendamenti". Violazione di fatto delle procedure previste dall'art. 72 della Costituzione, secondo il quale i disegni di legge debbono essere votati articolo per articolo, più votazione finale. Peraltro lo stesso maxiemendamento non è oggetto di dibattiti. E' invalso l'uso di condirlo con battute, slogans, calcoli a livello di balle spaziali (abbiamo azzerato 54.000 poltrone) con discussioni che si svolgono in abitazioni private, intervallate da pranzi tricolori e polenta taragna.

Uno dei punti prevedibilmente importanti della nuova manovra sarà costituito da una politica per le opere pubbliche, del resto invocata anche dalla comunità industriale. E' stata preceduta, con rullo di tamburi, dalla presentazione di un rapporto sul patrimonio pubblico, stilato con copia-incolla da uno studio effettuato dal governo Prodi, arricchito da grafici privi di dati sia sulle ascisse che sulle ordinate, come puntualmente rilevato da La Stampa. Con ciò si spiega la chiusura, per concorrenza sleale, del Bagaglino.....

Quasi sicuramente l'accento sarà posto, anzichè sul pagamento dei 40 miliardi di arretrati di opere già eseguite da aziende che navigano sull'orlo del fallimento, sulle cosiddette "Grandi Opere": per spiegarci, quelle di Atlante, che reggeva il mondo sulle spalle. Magari sostenute da quei fondi europei, che, dopo il prosciugamento dei Fas che dovevano costituirne l'indispensabile complemento nazionale, sembrano assomigliare sempre più ai villaggi di cartapesta che il favorito Potemkin presentava in Crimea alla Grande Caterina.

Come avevamo osservato oltre un anno fa e come appare chiaramente nel programma del Pd (al quale la Camera ha dedicato esattamente 3 minuti di attenzione, bocciando in massa tutti gli emendamenti) una soluzione alternativa potrebbe consistere in una miriade di piccole opere e di lavori di manutenzione. Sarebbe però scorretto preferire acriticamente questa soluzione rispetto a quella probabilmente preferita dal governo. E cioè i Puffi rispetto ad Atlante. Esamineremo quindi vantaggi e svantaggi comparati delle grandi opere rispetto alle piccole opere ed alle attività di manutenzione o revamping, sotto il profilo: a) degli effetti moltiplicativi; b) degli incrementi occupazionali; c) dei meccanismi di finanziamento; d) del timing, e cioè dell'arco temporale entro il quale si esplicano appieno gli effetti positivi sia a livello territoriale che nazionale.

A prima vista, gli effetti moltiplicativi delle Grandi Opere sono, o sembrano, maggiori. In parte per le loro stesse dimensioni e in parte perché superano il cosiddetto livello dei minimi quanti, e cioè quella barriera inerziale al di sopra della quale incomincia ad operare il moltiplicatore della domanda sull'intera filiera produttiva investita da una grande infrastruttura (dai cementifici alle fabbriche di tondini ed a quelle di macchine movimento terra),

Sulla occupazione gli effetti sono molto minori per i motivi altre volte accennati, e cioè per l'alta intensità di capitale che caratterizza le infrastrutture di grandi dimensioni in un Paese a tecnologia avanzata, come il nostro.

I meccanismi di finanziamento sarebbero caratterizzati, secondo il Governo, da project financing a costo zero per la pubblica amministrazione. Abbiamo dubbi sia sul primo punto che sul secondo. In piena crisi non sarà facile trovare, almeno nel prossimo futuro, aziende pronte ad impegni finanziari cospicui e prolungati. Quanto al costo zero, non è altro che uno slogan propagandistico: i privati chiedono concessioni con pagamento pluriennale di costi di utilizzo da parte di cittadini e di imprese. Su di essi dunque ricadrà il costo dell'opera, aggravato dal tasso di interesse delle banche finanziatrici e del saggio di profitto del costruttore dell'opera. Infine, quasi sempre le grandi infrastrutture implicano opere di interconnessione con il territorio (svincoli, sistemi fognanti, etc.) che sono a carico delle amministrazioni locali.

Il timing è necessariamente lungo, non solo per motivi tecnici, ma anche perché le dimensioni impongono gare di tipo comunitario, con eventuali ricorsi delle imprese soccombenti.

Gli effetti moltiplicativi delle Piccole Opere, disseminati su una miriade di unità locali, sono più difficili da valutare. In molti casi l'impatto sulla filiera produttiva a monte non è immediato, perchè ci si avvale di risorse parzialmente inutilizzate a livello locale. Superfluo rilevare, però, che gli effetti sono più diffusivi sul territorio. Soprattuto per la manutenzione ordinaria e straordinaria il coefficiente lavoro per unità di capitale è più alto e gli effetti sulla occupazione sono sensibilmente maggiori.

Per quanto concerne il timing, le procedure di aggiudicazione degli appalti sono più semplici, anche se influenzate da pressioni clientelari.

Per quel che concerne invece il finanziamento occorre sfatare un'opinione diffusa e colpevolmente non chiarita, secondo la quale gli enti locali "virtuosi" avrebbero disponibili le somme per finanziare queste opere, ma ne sono impediti da un malvagio Patto di Stabilità. Si tratta di residui passivi, e cioè di importi accreditati ma non spesi. Sono mere registrazioni contabili. Per trasformarle in denaro sonante bisogna "trarre" sul Tesoro o ottenere anticipazioni dalle banche. Operazioni non facili a questi chiari di luna. Anche i Puffi, dunque, hanno bisogno di un volano di sviluppo, perchè gli attivi contabili diventino reali.

In conclusione:

- le grandi infrastrutture hanno effetti notevoli come stimolo allo sviluppo, producono riduzione di costi per molti settori e generano una domanda che si estende ad una filiera complessa. Hanno però tempi lunghi, procedure complicate, difficoltà di finanziamento, effetti occupazionali limitati.

- Le piccole opere hanno tempi rapidi, difficoltà di finanziamento un po' minori, effetti occupazionali molto più alti e un moltiplicatore territoriale diffuso.

Ambedue le manovre, comunque, appartengono alla cosiddetta "supply side economy". Però l'economia di manutenzione presenta un ulteriore vantaggio: se e quando incide positivamente sul reddito disponibile dei cittadini, libera risorse dai bilanci individuali per rianimare la domanda.

Rimane comunque l'interrogativo di fondo, più volte proposto: se è assodato che la crisi si incentra sullo spostamento massiccio di redditi che generano carenza di domanda globale, ambedue le manovre sembrano lontane dall'obiettivo. Tuttavia, come abbiamo detto, le piccole opere e i servizi possono produrre indirettamente incrementi di reddito per supplenza rispetto a bisogni primari. E' noto che garantendo cure sanitarie gratuite ai cittadini si stimola indirettamente la domanda di beni di consumo.

Vorremmo aggiungere qualche considerazione sul modello di sviluppo che si sta preparando nella cucina della maggioranza. Modello che potremmo definire "digitale" in quanto poggia sul dito medio alzato del principale alleato ed i cui lineamenti cominciano ad affiorare. Sarà - come prevedibile - un David Letterman show: società veicolo, valorizzazioni, proclami roboanti, etc. La battuta più fulminante ce l'ha riservata l'impagabile Tremonti: alla domanda sull'ammontare del patrimonio pubblico, lo sventurato manzonianamente rispose "1.800 miliardi di euro". Con ciò certificando il default potenziale del suo ("per quanto tempo ancora?") Paese, dato che il debito pubblico ha largamente sforato questa cifra.

E del resto, cosa ci potevamo aspettare da una maggioranza che reagisce alla bocciatura dell'Agenzia di rating facendo spallucce ("ce lo aspettavamo", così come quel cavaliere che sbalzato da cavallo osservò che tanto prima o poi doveva scendere) o sollevando quasi un problema di bon ton ("che modi questa Moody's")?