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Rottamare il Pil e gli economisti?

28/01/2014

Il ridimensionamento del ruolo del Pil nelle scelte politiche comporta un ridimensionamento del potere tecnocratico, perché intacca l’assolutezza della teoria economica e sollecita la consapevolezza della necessità della riacquisizione di spazi di effettiva democrazia. Perciò il superamento del Pil costituisce un nodo culturale per la democrazia

Da lungo tempo vi è una sollecitazione a “rottamare” il Pil in quanto, come unico indice del progresso economico, risulta inadeguato a dar conto del progresso civile di una società. In effetti, ristretto com’è alla valutazione del solo valore monetario della produzione di mercato, esso non è in grado di esprimere il livello e l’evoluzione del “ben-essere” di una popolazione. La necessità di orientare la politica (economica) per tener conto degli aspetti qualitativi che incidono sulla qualità della vita è stata ancora una volta riproposta, come ce lo ha ricordato su questo sito Mattia Ciampicacigli (old.sbilanciamoci.info/content/pdf/21790), dall’Alliance for Sustainability and Prosperity (http://numerus.corriere.it/2014/01/17/giovannini-e-altri-esperti-e-ora-di-superare-il-pil/) che prospetta addirittura la possibilità di disporre, entro il 2015, di un insieme di nuovi indicatori delle condizioni economiche e sociali.

È ampiamente noto – e non intendo soffermarmi su questo punto [1] – che, volendo valutare la qualità della vita (di una persona o di una società), non è sufficiente considerare la sola produzione di mercato poiché il suo valore non tiene conto né degli effetti negativi non monetari che la accompagnano (deperimento delle risorse ambientali, sociali, culturali), né degli importanti fattori che incidono sul benessere (salute, istruzione, relazioni interpersonali, sicurezza) che risultano sempre più importanti per il vivere civile (old.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/L-economia-che-verra.-Benessere-e-non-Pil-20295). La necessità-possibilità di disporre di informazioni a questo riguardo è testimoniata dal lavoro decennale di Sbilanciamoci per la costruzione dell’Indice di Qualità dello Sviluppo Regionale (Quars: old.sbilanciamoci.org/quars/).

La necessità di considerare esplicitamente gli elementi qualitativi del progresso sociale richiede di ampliare gli indicatori in modo da orientare, come sostengono giustamente Ruffolo e Sylos Labini (Liberiamoci dal Pil, La Repubblica, 24 gennaio 2014), in modo più intelligente le decisioni di politica economica. Al criterio oggettivo della produzione di mercato va sostituito un criterio normativo capace di esprimere la scelta di come la società intende procedere alla costruzione del proprio futuro.[2]

Si tratta di una proposta che non potrà che incontrare molti freni e ostacoli e non tanto, a mio avviso, per motivi “tecnici” riguardanti la costruzione di nuovi più adeguati indicatori – che pur ci sono, anche se sembrerebbero essere ad uno stadio di avanzato condiviso superamento – ma per ragioni che essa incontra su due terreni decisivi per la politica economica: quello della teoria e quello della democrazia.

Per quanto riguarda la teoria della politica economica, adottare, come valutazione della sua efficacia, indicatori che tengano conto degli effetti dell’intervento economico sulla situazione ambientale, sociale, psicologica (e, in genere, delle diverse dimensioni socio-culturali) rischia, allo stato attuale delle scienze sociali, di rendere del tutto incommensurabili tra loro le proposte alternative di tali interventi. Si consideri, ad esempio [3], il caso nel quale alla crescita della produzione di mercato perseguita attraverso le attuali politiche di austerità si accompagni, come avviene, il degrado delle risorse esistenti per il deterioramento delle condizioni dei lavoratori e per il ridimensionamento delle condizioni di sicurezza sociale della popolazione. Appare allora evidente la difficoltà, e presumibilmente l’impossibilità, per il policy maker di valutare l’effetto complessivo in termini di benessere dato che non è possibile confrontare gli effetti economici (per di più sperati) con i costi sociali (molto più certi). In altre parole, se (i) l’obiettivo politico è il benessere della popolazione e il livello della produzione di mercato ne rappresenta solo una parte e se (ii) le argomentazioni degli economisti hanno come riferimento (prevalente, se non esclusivo) gli effetti attesi in termini di prodotto, non si può allora non concludere che l’attuale “lavoro” degli economisti, e le conseguenti loro prescrizioni, sono, per la loro parzialità, risulta altamente distorsivo e quindi sostanzialmente destituito di rilevanza per il governo di una società.

D’altra parte, ampliare i fattori che devono orientare le scelte della società nella costruzione del proprio futuro implica di dover riconoscere che, all’interno di società complesse come la nostra, non esiste un’unica idea di progresso sociale e civile. L’eventuale scelta tra contesti qualitativi diversi, ovvero che combinano in maniera diversa le componenti materiali e morali del benessere, richiede necessariamente meccanismi di democrazia partecipata fondati su uno spazio pubblico, aperto e trasparente, in grado di garantire una mediazione tra prospettive e interessi inevitabilmente diversi, se non contrapposti. La liberazione dal Pil impone forme più avanzate di democrazia.

Ma proprio la considerazione di questi due versanti – della teoria e della democrazia – permette di comprendere come, nell’attuale contesto politico-culturale, le resistenze dei poteri costituiti non possano che essere radicali. In effetti, un effettivo ridimensionamento del ruolo nel Pil nel dibattito e nelle scelte politiche comporta un ridimensionare del potere tecnocratico perché ne intacca l’assolutezza della teoria economica su cui esso si fonda e sollecita la consapevolezza della necessità della riacquisizione di spazi di effettiva democrazia. È una proposta che contesta l’attuale egemonia culturale la cui pretesa “scientificità” si fonda su argomentazioni che, in maniera arbitraria e pretestuosa, assumono un concetto ristretto (prodotto invece che benessere) dei fattori che rilevano per il futuro della società. Non è troppo sostenere che l’obiettivo di un superamento del Pil costituisce, in definitiva, un nodo culturale per la democrazia.

[1] Una esposizione sistematica del problema è il Rapporto Sarkozy redatto da Stiglitz, Sen e Fitoussi (www.stiglitz-sen-fitoussi.fr/documents/rapport_anglais.pdf) che ha avuto una significativa evidenza anche a livello pubblicistico con diverse traduzioni, anche in italiano (La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il Pil non basta più per valutare benessere e progresso civile, Rizzoli Etas, 2010).

[2] Bartolini S., Manifesto per la felicità: Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere, Donzelli, Roma, 2010, sull’esigenza di cambiare indicatori per cambiare l’ottica della politica economica.

[3] Tratto dal mio “If «Well-being» is to be the Key-Concept in Political Economy ...”, Economic Thought Paper Review. A Forum for Open Peer Discussion of proposed papers for Economic Thought, 2013. (http://etdiscussion.worldeconomicsassociation.org/?s=gnesutta)

 

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Commenti

In discussione è l'economia, sostanziale e formale

Considero rilevanti e condivido pienamente sia le considerazioni di Andrea Molocchi che quelle di Francesco Indovina. Entrambi rilevano che in questa fase storica (di trasformazione profonda dell'assetto sociale) sia importante cambiare la rappresentazione dei risultati dei processi economici e sociali. Molto si è fatto come dice Molocchi e molto si deve ancora fare come dice Indovina. Quello che mi piace sottolineare nei due interventi, che ringrazio, è l'indicazione, più o meno implicita, che la trasformazione dell'economia nella sua dimensione "sostanziale", ovvero nei loro processi reali, richiede anche la trasformazione della sua dimensione "formale", ovvero nei processi di teorizzazione della realtà. E' su questo terreno, il ruolo degli economisti nella società, che si gioca la possibilità di un reale cambiamento di prospettiva. Su questo punto, sono meno certo che si debba "rimanere nell'ambito della prospettiva economica, della misurazione del valore economico"; dato che ritengo che un nuovo modo di interpretare il processo sociale richieda una diversa scienza "sociale", non ristretta all'economico. Ma sono anche consapevole che su questo tema ci sia ancora molto da lavorare.

MIgliorare e non rottamare il PIL, rinnovare gli economisti

Mi pare che si faccia confusione, in questo dibattito, sul ruolo del PIL come indicatore (e degli economisti nella società): il PIL non ha mai avuto la pretesa di un indicatore di benessere sociale, bensi solo un indicatore di benessere economico. Commetteremmo un grosso errore di prospettiva (e di violenza sulla libertà di coscienza individuale) se pretendessimo di misurare la felicità o la qualità della vita con un unico indicatore sostitutivo del PIL o con un set di indicatori alternativo al PIL.
Quel che possiamo fare intervenendo sul PIL è cercare di migliorare la misura economica del benessere (migliorare la misura del benessere economico). Dobbiamo però essere consapevoli di rimanere nell'ambito della prospettiva economica, della misurazione del valore economico.
Possiamo migliorare il PIL includendo non solo i costi e i ricavi delle attività economiche ma anche i costi esterni ambientali e i benefici esterni delle attività economiche, in particolare recependo gli avanzamenti nella teoria e nelle applicazioni empiriche delle esternalità ambientali. La visione economica può e deve continuare a integrare tutte le discipline che concorrono alla misurazione del benessere economico, ad esempio proponendosi come aggregatore dell'informazione prodotta con la modellistica ambientale (che, ad esempio, fonde ingegneria, chimica, demografia, epidemiologia, ecologia, etc.).
L'indagine sui costi esterni dei settori dell'economia italiana, pubblicata nel 2013 da ECBA Project sulle pagine della rivista Nuova Energia, realizzata utilizzando da un lato le metodiche raccomandate a livello UE per l'analisi costi benefici dei progetti d'investimento (finalizzata alla misura degli effetti di variazione del benessere economico) e dall'altro lato le migliori statistiche disponibili di contabilità nazionale (NAMEA), così come la recente riforma legislativa delle modalità di spesa pubblica in conto capitale (DLGs 228/2011 E DPCM 3 agosto 2012) che ha reso obbligatoria l'analisi costi benefici nella programmazione e valutazione ex ante, testimoniano in due diverse e parallele sfere (quella delle metodologie statistiche e quella della valutazione delle politiche), che il miglioramento del PIL come indicatore non è più solo un tema di dibattito intellettuale, ma una riforma a portata di mano, capace di incidere immediatamente sulle nostre scelte di vita. Basta riconoscere che non è l'economia in sé da rottamare (a favore dell'emergere di nuove discipline), ma una certa visione dell'economia. Non abbiamo alternative al rinnovo, perchè l'economia finchè esiste il valore economico è solo una prospettiva sulla felicità, non la felicità.

superamento del PIL

Non si può non essere d'accordo sulla necessità di avere indicatori diversi dal PIL per valutare lo stato del benessere di una collettività. Questi indicatori sono stati individuati con abbastanza condivisione, ma essi sono, almeno a mio parere, integrativi a quello del PIL. Nella fase attuale di crisi (senza sbocco) e di austerità (suicida), per esempio, la contrazione del PIL non pare produrre effetti positivi, infatti connessa a questa diminuzione anche gli indicatori "altri" peggiorano. Le politiche keynesiane richieste, che non risolvono la crisi ma possono costituire un tampone nell'attesa di una comprensione feconda della natura della crisi economica, sono tese all'aumento del PIL, ma insieme almeno in parte, potrebbero incidere sugli altri indicatori (penso alla scuola, penso alla manutenzione del territorio, ecc.), ma anche in questo caso inciderebbero non sufficientemente sull'indicatore di benessere, forse principale, che potremmo considerare la disponibilità "necessaria" di reddito delle famiglie e una occupazione stabile.
Il problema vero è che la crisi è di sistema sociale e che intervenire in tale crisi, anche per garantire miglioramenti effettivi nella situazione di benessere degli individui e delle famiglie, sarebbe necessario prima prendere coscienza della natura di tale crisi, e poi attrezzarsi con gli strumenti politici (non di sola politica economica) per costruire un diverso sistema sociale. Solo entro questo nuovo sistema sociale gli indicatori di benessere possono svolgere ruolo significativo perché si sarà inciso sulla distribuzione e sulla riduzione drastica delle diseguaglianze.