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Politiche sul clima: sfatiamo alcuni miti

25/11/2011

E’ possibile dimostrare, attraverso un’analisi di genere, come alcune caratteristiche delle politiche sul clima, e alcune ipotesi alla base di queste, attengono più alla sfera del mito che alla realtà.

 

In fin dei conti, si tratta di consumi

 

Partiamo dall’assunto che la misurazione della quantità di gas serra prodotto nel territorio di una nazione sia il modo corretto per determinare il grado di responsabilità imputabile a ciascuno stato per il cambiamento climatico, e denoti quindi l’impegno richiesto nel fare qualcosa al riguardo. È certamente il modo più semplice per attribuire le emissioni a ciascuno stato, ma è significativo solo fino ad un certo punto in quanto non tiene conto del consumo di beni e merci che vengono importate da altri paesi. Così, ad esempio, lo spostamento delle industrie ad alta intensità energetica dai paesi ad alto reddito ad alcuni paesi emergenti porta solo ad un’apparente riduzione delle emissioni nelle nazioni a capitalismo avanzato.

 

Invece di questa metodologia -stabilita per i rapporti nazionali richiesti dal United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) - le emissioni di carbonio delle nazioni possono essere calcolate[1] valutando le emissioni totali dei beni consumati in un paese, tenendo conto anche della catena di approvvigionamento. Se le emissioni di carbonio sono attribuite alle nazioni in questo modo, si vedrà come le rispettive responsabilità in termini di dispersione dei gas serra risultino leggermente diverse: emergerà chiaramente che la maggior parte delle emissioni nocive è dovuto ai consumi delle famiglie.

 

Cosa ha a che fare tutto questo con le questioni di genere? Da una serie di indagini, sappiamo che per quel che riguarda la politica climatica, le donne tendono a porre in misura maggiore l’accento sul cambiamento dei modelli di consumo quando si parla di misure idonee a mitigare il cambiamento climatico.[2] Più degli uomini credono che le principali soluzioni al problema del clima siano i cambiamenti nello stile di vita e nel comportamento, piuttosto che lo sviluppo di tecnologie dal lato dell’offerta. Quindi riteniamo che se le donne fossero maggiormente coinvolte nei processi costitutivi delle politiche climatiche, ci sarebbe più attenzione a livello pubblico sul cambiamento dei consumi, sulla riduzione del consumo energetico, e sulla messa in discussione dei comportamenti legati allo spreco energetico.

 

Oltre le tecnologie

 

Un’altra credenza diffusa è che le tecnologie siano lo strumento principale per combattere il cambiamento climatico. Nonostante le tecnologie “pulite” - come le energie rinnovabili e le auto ecologiche- giochino un ruolo importante, possono rappresentare solo in parte una soluzione. Un drastico taglio delle emissioni di gas serra richiede una transizione verso stili di vita, strutture e sistemi che producano minime se non nulle emissioni di carbonio. Ciò comporterebbe cambiamenti comportamentali verso la sufficienza energetica, e trasformazioni strutturali, a livello di infrastrutture, servizi e governance.

 

Ad esempio, la pianificazione e la progettazione territoriale e urbanistica sono ambiti cruciali per costruire edifici e ambienti di vita energeticamente efficienti, e per ridurre al minimo la domanda di trasporto. Di fatto, sono oramai necessari investimenti in infrastrutture e servizi pubblici, sistemi efficienti di riscaldamento e raffreddamento degli edifici, e opzioni efficaci per il riciclaggio e il riutilizzo dei prodotti. Politiche a livello internazionale e nazionale non sono più sufficienti per ottenere una riduzione delle emissioni di gas serra. Gli enti locali e le autorità regionali, così come le imprese private ed i consumatori devono occupare un ruolo più significativo. Con politiche multi-livello si apre la possibilità di aumentare il coinvolgimento delle donne nelle politiche del clima, visto che l’accesso delle donne ai processi partecipativi e decisionali tendono ad essere migliori a livello locale.[3]

 

Il mercato del carbonio

 

Un altro mito della politica climatica ruota intorno alla compensazione delle emissioni attraverso il mercato del carbonio. L’ipotesi sottostante è che è irrilevante la zona sul pianeta in cui i tagli alle emissioni hanno effettivamente luogo, ciò che importa è la concentrazione complessiva di gas serra nell’atmosfera globale.

 

Pertanto, l’obiettivo dei meccanismi di mercato è quello di sfruttare le potenzialità più convenienti in termini di costi per investimenti atti a ridurre le emissioni di gas serra per tonnellata di emissioni evitate.

 

Tuttavia, ancora una volta, la compensazione non è un’opzione efficace per ottenere cambiamenti profondi e sostenibili nel tempo. Per l’atmosfera, non è importante dove abbiano ridotto le emissioni. Per la società e il loro sviluppo futuro è essenziale che queste azioni siano adottate sia su scala macro che micro. Se i paesi industrializzati continuano a mantenere questo sistema introducendo cambiamenti strutturali solo marginali, non potranno mai raggiungere stili di vita e emissioni pro capite sostenibili. Eppure un giorno – il prima possibile! – le emissioni pro capite dovranno essere portate a un livello eco - sostenibile (e anche al di sotto, se si tiene conto delle responsabilità storiche).

 

I cambiamenti sistemici e strutturali menzionati sopra produrranno effetti in tempo utile solo se si inizia da subito, ad esempio, a ridefinire i sistemi urbani in modo da facilitare stili di vita a basse emissioni. Tuttavia, tali sforzi non vengono premiati dal mercato del carbonio, perché è difficile quantificare il loro impatto in termini di riduzioni delle emissioni, a meno che queste non aumentino nel prossimo futuro. Non ricevendo crediti di carbonio, tali attività sono spesso trascurate, anche se ridurrebbero non solo le emissioni di carbonio nel lungo periodo, ma apporterebbero benefici in termini di filtro dell’aria, miglioramento della salute dei cittadini, di incidenti e rumore ridotto.

 

Inoltre, la mancanza di affidabilità ecologica del Clean Development Mechanism (CDM), motivata da una serie di studi, è la causa di carenze istituzionali e procedurali superabili solo attraverso il miglioramento delle norme e dei dispositivi amministrativi. Si tratta piuttosto di un problema intrinseco del CDM: se le attività di riduzione delle emissioni sono guidate esclusivamente da interessi di profitto, si tenderà sempre verso l’opzione meno costosa, così come si cercherà di scoprire e valorizzare soluzioni rapide, piuttosto che le alternative sostenibili che, in molti casi o sono più costose, o richiedono tempi più lunghi, o comportano meno crediti di emissione.

 

La ripartizione delle riduzioni certificate delle emissioni (Certified Emission Reductions – CER) nell’ambito del CDM mostrano come il 48% di progetti CER provenienti da idrofluorocarburi (HFC) a buon mercato, non apportino alcun beneficio aggiuntivo[4] . Il numero di certificati CER, invece, rilasciati per progetti per migliorare l’efficienza energetica a livello familiare è pari a zero, e i progetti CER in cantiere sono meno del 39%. Questo perchè i progetti in questo settore sono di piccole dimensioni e dispersivi, ad alta intensità di manodopera, e comportano così costi di transazione elevati. Pertanto, anche se essenziali per i cittadini e in particolare per le donne al fine di risparmiare sui costi e di accedere all’energia pulita, non possono competere con i progetti a larga scala o industriali nel mercato del carbonio.

 

Un’altra carenza del mercato del carbonio, in particolare del CDM, è il sottostante e unidimensionale punto di vista incentrato esclusivamente sulle emissioni di gas a effetto serra. In verità, la politica climatica deve essere un approccio multidimensionale, prendendo in considerazione le emissioni di gas a effetto serra, ma anche aspetti di equità sociale e di genere, le capacità di riciclo delle comunità, le questioni ambientali come la riduzione dell’inquinamento e la conservazione della biodiversità - in altre parole lo sviluppo sostenibile in tutti i suoi tre pilastri - il benessere economico, la giustizia sociale e la protezione dell’ambiente - più un quarto pilastro, come molti sostengono: quello del buon governo. La partecipazione universale di tutti e tutte, sulla base di pari diritti e opportunità, può sembrare un nobile obiettivo ma lontano, perché richiede troppo tempo, soprattutto in un periodo – come quello che viviamo - in cui la lotta ai cambiamenti climatici è urgente.

 

Eppure non c’è alternativa. O forse dovremmo davvero cercare di salvare il pianeta, senza pensare alle persone che ci vivono?

 

* Quest'articolo è tratto e tradotto, su autorizzazione dell'autrice, dal più lungo testo di Gotelind Alber "Gender perspectives: debunking climate policy myths"

Tratto da www.ingenere.it