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Liberalizzazioni? No, più regole

17/01/2012

Liberalizzazioni? No grazie! Il Governo Monti è partito con un grande piano di (cosiddette) liberalizzazioni, ma davvero l’Italia potrà essere salvata e resa più moderna e competitiva se si faranno queste (e magari anche altre) liberalizzazioni? Più tassisti, più notai e più farmacie salveranno l’Italia?
In realtà, non di altre liberalizzazioni l’Italia e l’Europa avrebbero bisogno, ma di nuove e soprattutto urgenti regolamentazioni. E di nuove regole. Non solo di nuove regole elettorali, dopo la bocciatura da parte della Corte Costituzionale dei due referendum – referendum non tanto elettorali quanto di ri-costruzione/ri-fondazione della cittadinanza. Non solo di nuove regole morali ed etiche capaci di ri-fondare, questa volta, il saper con-vivere decentemente in società (senza gli egoismi degli ultimi decenni, senza nuovi casi Cosentino e Malinconico). L’Italia e l’Europa hanno in realtà soprattutto bisogno di nuove regole e di nuove regolamentazioni ai mercati: regole e regolamentazioni (non liberalizzazioni) che ridiano ordine, senso e scopo – ma soprattutto giustizia, libertà, uguaglianza e (nuovamente) vera cittadinanza – ai cittadini, agli individui, alle persone.
Regole per il mercato del lavoro e regole per i mercati finanziari.
Mercati finanziari. E’ scandaloso che le agenzie di rating – soggetti privati e in cronico conflitto di interesse con i loro proprietari (fondi di investimento speculativi) e quindi in conflitto con l’interesse generale degli stati e delle società/collettività di cittadini – si arroghino il diritto di giudicare stati e società (e ancor più scandaloso è che stati e società concedano loro il potere/diritto di giudicare). E’ scandaloso che (come S&P, venerdì) giudichino negativamente l’Europa e lo facciano subito dopo un inizio di ripresa di fiducia dei mercati per i buoni andamenti delle aste di titoli pubblici di Spagna e Italia. Ma è scandaloso – soprattutto - che dopo l’ultima crisi finanziaria – generata e indotta dal finanzcapitalismo (secondo l’ottima definizione di Luciano Gallino) – governi, Europa, Fmi e Bce tutto abbiano fatto, prodotto e indotto per compiacere questo stesso finanzcapitalismo (recessione, minori diritti, impoverimento, ulteriore precarizzazione di lavoro e di vita, ossessioni da obbligo di pareggio di bilancio), ma non ciò che era invece più urgente e doveroso fare: regole ferree, stringenti, obbligatorie per il controllo e la regolamentazione dei mercati finanziari; regole/regolamentazioni altrettanto ferree contro le logiche di speculazione che per troppi anni (e con la compiacenza/correità dei governi) hanno messo sotto scacco la ricchezza dei cittadini, i loro sistemi di welfare, i loro diritti sociali e quindi anche politici, cittadini ormai non-più-cittadini-ma-sudditi-dei-mercati. Era necessario invertire radicalmente la rotta perversa e suicida di questi ultimi 30 anni – liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati, privatizzazioni, trasferimento imposto dei rischi sociali dallo stato e dalle imprese ai singoli cittadini – ma non è stato fatto.
E invece di più regole ai mercati, l’Europa e Monti propongono ancora liberalizzazioni e privatizzazioni: dei notai, delle farmacie, delle ferrovie (dimenticando quanto accaduto in Gb; con l’aggravante, per favorire Montezemolo, di eliminare il vincolo dei contratti collettivi di lavoro), dei taxi (quando sarebbe meglio potenziare i servizi pubblici, meno inquinanti, invece di aumentare le auto circolanti, più inquinanti).
Certo, si dirà, questo è stato impossibile perché ai governi, in nome dello stato di emergenza finanziaria, si chiede (i mercati chiedono) di agire secondo logiche da stato di eccezione e al governo politico di un paese vanno i tecnici dell’economia, provenienti da quello stesso mondo che la crisi l’ha se non prodotta, certo tollerata, assecondandola e non correggendo (con riforme politiche, intellettuali, nell’insegnamento universitario, nelle pratiche di investimento) le sue (il)logiche di funzionamento.
Basta liberalizzazioni, dunque; e invece e piuttosto regolamentazioni economiche, regolamentazioni stringenti della finanza, uscita dalla logica-illogica di mercato (che ha corrotto la vita individuale dei cittadini trasformandoli in clienti; e quella delle società trasformandole in imprese-paese). E fine della mercificazione di ogni cosa, anche della vita, fine della creazione di denaro mediante denaro (la finanza) e piuttosto nuove regole affinché la ricchezza dei cittadini e di un paese non venga più dissipata da una oligarchia di affaristi, speculatori, privatizzatori, ideologi.
Monti non continui dunque solo ad inseguire tassisti, notai e farmacisti; non cerchi di privatizzare servizi di pubblica utilità che non deve privatizzare (i referendum non erano solo contro la privatizzazione dell’acqua, lo erano contro la logica di privatizzazione di tutto ciò che è e che deve restare comune) e cominci a inseguire banchieri, finanzieri, trader, agenzie di rating, algoritmi borsistici, authority che non hanno controllato. Chiuda – e con lui l’Europa – le borse (perché no? perché limiteremmo la libertà dei mercati? ma che fare se i mercati limitano la libertà dei cittadini?), chiuda le agenzie di rating, vieti le vendite allo scoperto, nazionalizzi le banche e le imprese (cosa da fare se è necessaria a garantire l’occupazione – lo diceva quel grande liberale di Lord Beveridge), o imponga loro un modo diverso di essere sul mercato, regolamenti i troppi conflitti di interesse esistenti nell’economia finanziaria, tassi le transazioni finanziarie, riduca la spesa militare (in Italia e in Grecia, l’unica spesa che non è stata colpita dai tagli di bilancio).
Mercato del lavoro. Quello italiano è già oggi liberalizzato (libero per le imprese, che ne hanno infatti approfittato; non certo libero per i lavoratori, soprattutto i giovani, vista la servitù necessaria che sta inducendo nei lavoratori precari). Le retoriche della condivisione e della collaborazione in rete, quelle sull’essere imprenditori di se stessi e del piccolo è bello e indipendente hanno prodotto maggiore subordinazione, maggiore precarietà e quindi minore libertà. E allora, anche qui, non ulteriori liberalizzazioni e diritti a geometria variabile, ma più regole e diritti uguali per tutti. Dunque, eliminare l’obbrobrio dell’articolo 8 dell’ultima manovra berlusconiana; cancellare lo scandalo dei quaranta e più contratti di lavoro atipici oggi esistenti; trasformare i contratti atipici – così come deve essere in uno stato in cui tutti i cittadini devono essere uguali davanti alla legge – in contratti a tempo indeterminato; porre fine all’accanimento (come altro chiamarlo) contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (che riconosce una cosa doverosa in uno stato di diritto, appunto il diritto di poter essere reintegrati nel posto di lavoro se ingiustamente licenziati) ed estenderlo anzi a tutte le imprese, anche quelle sotto i 15 dipendenti (perché, ancora, un diritto non può essere modulato sulla base di un fattore quantitativo come la dimensione aziendale, un diritto è un diritto è un diritto e basta).
La libertà e l’uguaglianza, infatti (possibili solo in un vero stato di diritto/stato di diritti uguali per tutti), non possono essere considerate un totem da rimuovere. Perché non possono esistere diritti civili e politici e di cittadinanza se mancano o se vengono compressi/ridotti i diritti sociali. Perché questi diritti appunto sociali esistono e devono continuare ad esistere (e soprattutto essere accresciuti) anche in periodi di crisi; e non ridotti. E sopra tutto: è insostenibile che a chiedere di abbattere il presunto totem dell’articolo 18 siano degli idolatri del mercato, dei veneratori del totem del mercato come Emma Marcegaglia o Sergio Marchionne (che in realtà lo ha aggirato inventando Fabbrica Italia e non assumendo a Pomigliano, se è vera la denuncia della Fiom, i lavoratori a lui non graditi). Insostenibile è che ad accusare gli altri (il sindacato) di avere totem insopportabili e antimoderni siano proprio coloro che più di tutti vivono del totem del mercato e come un sol uomo siano schierati per imporre il dovere politico di abbattere il (presunto) totem della libertà e della dignità individuale sul lavoro. E ancora più insostenibile è che siano la Commissione Europea, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy o il Parlamento italiano – in nome del totem del pareggio di bilancio – a violare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo la quale l’Unione (art. 34) deve lottare contro l’esclusione e la povertà, riconoscendo e rispettando il diritto all’assistenza sociale e a quella abitativa, volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono delle risorse sufficienti.
Piuttosto: se un totem è – come è – un oggetto sul quale ci concentra la venerazione collettiva, il capitalismo in verità è qualcosa di più di un totem: è appunto un’ideologia ormai globale, l’ultima rimasta ma la più potente e la più pervasiva. Se infatti per ideologia (con Hannah Arendt) si deve intendere la logica chiusa di un’idea, oggi è il capitalismo ad essere ideologia. Di più: è una biopolitica ormai tradottasi in tanatopolitica sociale e politica oltre che economica (la ricchezza distrutta nell’ultima crisi, la disoccupazione, la precarietà, ancora la Grecia come esempio e la macelleria sociale che l’Europa vi ha prodotto). Ancora: è disciplinare e biopolitica (come indicato da Michel Foucault), nel senso della attuazione piena delle discipline (precarizzazione, disoccupazione, riduzione dei redditi) e insieme delle biopolitiche neoliberiste (mercato, impresa, competizione, consumo). Quando il biopotere neoliberale non è riuscito più a gestire le proprie biopolitiche (quelle che hanno prodotto la crisi); quando le biopolitiche neoliberiste sono diventate (come appunto oggi) tanatopolitiche (nel senso che uccidono la società e i diritti sociali, la ricchezza e le libertà e la dignità delle persone), e quindi si rischiava la rivolta sociale, ecco che a proseguire queste tanatopolitiche è stata chiamata la tecnocrazia neoliberista, che rappresenta (parafrasando Clausewitz) la prosecuzione delle biopolitiche neoliberiste con altri mezzi e in altra forma (appunto: con la finzione del governo tecnico).
Se è pur vero che da sempre – dalla modernità, secondo Foucault – le discipline e le biopolitiche sono state la forma appunto moderna, normale e (persino) normata del potere, è tempo di rivendicare per l’individuo e per la sua società una libertà e una autonomia questa volta davvero sostanziali (non solo de jure, ma de facto). E per farlo non servono più liberalizzazioni, ma (e non è un paradosso) più regole poste a chi questa libertà e questa autonomia vuole invece ridurre. Opponendosi a tutti coloro che vogliono governare biopoliticamente (meglio, bioeconomicamente) la vita delle persone. Soprattutto se vestono i panni del governo-tecnico. E dello stato d’eccezione