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Per il lavoro, un reddito di base?

25/10/2013

download nuova versione con l'inserimento della proposta di legge sul reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle:

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TUTTI GLI SBILIBRI

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Come conciliare i temi del lavoro con quelli del reddito? Pubblichiamo l'intervento conclusivo dell'ebook, "Come minimo", una traccia per proseguire il dibattito

La consegna alla Camera il 15 aprile scorso della proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione del Reddito minimo garantito [Santini, pag.13] è stata l’occasione per proporre sul sito di Sbilanciamoci un dibattito sulle necessarie e opportune tutele del reddito nelle attuali prospettive non tanto congiunturali quanto strutturali. Un dibattito che ha trovato un momento di prima sintesi nella sessione “Lavoro, welfare, conoscenza: come combattere le disuguaglianze sociali” all’interno dell’XI Forum di Sbilanciamoci!, Europa disuguale, tenutosi a Roma il 6-8 settembre 2013.

L’urgenza di una riflessione politica a questo riguardo è evidente dato che le esistenti forme di sostegno del reddito – particolarmente carenti nel nostro Paese – manifestano tutta la loro insufficienza in una fase di crisi prolungata, in un momento cioè in cui maggiore è l’esigenza di garantire una tutela adeguata alle fasce sociali in maggiore difficoltà (disoccupati, adulti espulsi dal mercato del lavoro, esodati, lavoratori precari, giovani in cerca di lavoro e così via). Le condizioni di fragilità di questi soggetti hanno profonde radici nei caratteri strutturali di una crescita economica e sociale condizionata da processi di delocalizzazione orientati dalla concorrenza sui bassi salari, da un’innovazione tecnologica risparmiatrice di lavoro dai cui benefici sono esclusi direttamente i lavoratori e indirettamente la maggior parte della popolazione come effetto del contemporaneo ridimensionamento della capacità redistributive dello Stato.

La questione dell’adozione di appropriate forme di sostegno del reddito non poteva non ricollegarsi alla più generale questione dell’occupazione in quanto fonte primaria di reddito. La mancata risposta politica all’esigenza di una piena e buona occupazione è un vulnus, ripetutamente sottolineato nel corso della discussione, alla nostra Costituzione dove il “lavoro” – non inteso in senso stretto come “lavoro salariato” – appare come un diritto politico, il fondamento del diritto all’esistenza. Non poterne disporre è infatti fattore di esclusione dalla cittadinanza in quanto, negando le condizioni per una vita dignitosa, genera una situazione immorale e politicamente inaccettabile. Nel dibattito il termine di “cittadinanza” è stato ampiamente utilizzato – in accordo con lo spirito e con il dettato costituzionale – con un significato denso di qualità essendo la dotazione “di un patrimonio di diritti inalienabili della persona in quanto tale; un diritto non solo a sopravvivere, ma ad esistere come precondizione di eguaglianza democratica” [Saraceno pag.116].

L’esistenza di risorse disoccupate (in primis del lavoro) in presenza di ampi bisogni (sociali) insoddisfatti non è un fatto legato alla crisi attuale; essa si configura come prospettiva di più lungo periodo per cui il crescere delle disuguaglianze e l’estendersi della precarietà del lavoro potrà costituire, se non adeguatamente contrastata, la norma entro la quale dovrà convivere una quota non marginale della popolazione attiva [Amari pag.45]. Le riflessioni sviluppate nel dibattito hanno infatti avuto come sfondo comune la consapevolezza, e la preoccupazione, di vivere una situazione di profonda trasformazione sociale nei confronti della quale il nostro sistema politico si segnala per l’incapacità di prospettare un futuro in cui si sviluppino adeguate opportunità per rapporti “decenti” di lavoro.

Si è detto che non si tratta di un contesto che la crisi ha fatto emergere improvvisamente, ma che è una questione sulla quale da un paio di decenni avrebbero dovuto utilmente confrontarsi le diverse opzioni di politica economica e sociale. Lo testimonia l’ideale collegamento, esplicito in alcuni interventi e implicito in altri, con quel corpo di riflessioni che, nell’ultimo scorcio del precedente secolo, hanno posto la questione di come interpretare e di come fronteggiare le trasformazioni in atto nelle relazioni di lavoro post-fordiste all’interno di una prospettiva di “fine del lavoro (salariato)”. L’avere avuto sullo sfondo quel dibattito ha permesso che i contributi non si schiacciassero sulle condizioni correnti segnate da una prolungata crisi irrisolta, ma avessero ben presente le dimensioni storiche e strutturali che si pongono quando la questione del lavoro è collocata nell’alveo di un processo che sta strutturando la società futura. Non meraviglia, anzi ne è un elemento degno di apprezzamento, che i diversi approcci al rapporto reddito-lavoro facciano di fatto riferimento a prospettive diverse di società future anche perché ciò non ha impedito che il confronto si concentrasse sulla ricerca di possibili azioni a difesa delle condizioni dei settori sociali più deboli; sul confronto di contenuto delle proposte avanzate si è appunto convenuto di concentrare l’attenzione della presente sintesi.

Le incerte condizioni del lavoro.

Appare ampiamente condivisa la valutazione che le condizioni strutturali e istituzionali delle relazioni produttive e dei rapporti contrattuali attualmente esistenti prospettano una crescita del Pil nel medio-lungo periodo del tutto insufficiente a garantire un’occupazione all’intera forza-lavoro disponibile.

Il prevedibile ridotto tasso di crescita del Pil e la presumibile crescita del prodotto per ora lavorata necessaria per mantenere un’adeguata competitività estera implica inevitabilmente che l’occupazione, in termini di numero di ore di lavoro, non sia destinata ad aumentare significativamente nei prossimi decenni. Di conseguenza, ferma rimanendo l’attuale struttura contrattuale del rapporto di lavoro (a tempo pieno e con un’accentuazione del ricorso allo straordinario), non ci si può attendere un aumento del numero degli occupati per cui il tasso di occupazione delle persone rimarrà fissato all’attuale livello insoddisfacente. Il perdurare di un sistematico eccesso di offerta sulla domanda di lavoro non può che generare una strutturale pressione negativa sulle condizioni, salariali e normative, di una larga quota di lavoratori e induce a ritenere che plausibilmente solo una quota della popolazione (presumibilmente inferiore a quella attuale) avrà l’opportunità di un impiego “decente”, salariato o autonomo [Gnesutta pag.25, Gattei pag.36]. La precarietà delle condizioni di lavoro – non solo per il reddito, ma anche per la un’occupazione frammentata nel tempo – prospetta una società “duale” con uno scarto tra uno strato sociale funzionale alle esigenze del sistema produttivo che gode di condizioni di lavoro e di reddito appaganti e un’ampia area di soggetti che, per le minori risorse sociali e culturali, sono destinati a una vita di insicurezza economica. Ancor più subordinata economicamente e socialmente appare quella parte di popolazione (presumibilmente superiore a quella attuale) che – per inabilità fisica, per incapacità personale, per vincoli sociali – è permanentemente esclusa dal lavoro remunerato e quindi esposta a condizioni di povertà (relativa e assoluta).

Dato per acquisito [Gattei pag.36] che non sia moralmente accettabile una situazione discriminatoria di tali dimensioni, la questione si sposta sulle possibili forme di intervento che possano impedire che a un così ampio numero di persone venga sistematicamente negato il diritto a una esistenza dignitosa. Non mancano a questo riguardo, peraltro più sulla carta che nella nostra concreta esperienza nazionale, gli strumenti per fronteggiare le molteplici situazioni critiche: povertà; inoccupazione, disoccupazione, precarietà. L’esistenza di difficoltà soggettivamente diverse ha prodotto nel tempo una variegata tipologia di strumenti specifici – come integrazioni di reddito o come sostegno all’occupazione – a seconda della difficoltà da contrastare che può essere utile richiamare secondo la loro finalizzazione. I possono distinguere gli interventi a seconda siano direttiti a:

-sostenere il reddito degli esclusi dal mercato del lavoro. Tutti quegli interventi a favore di coloro ai quali, per ragioni personali e sociali, è preclusa la partecipazione al mercato del lavoro e di conseguenza non dispongono di un reddito che ne permetta la sussistenza fisica (inabili parziali e totali; poveri relativi e assoluti) [Travaglini pag.16, Del Bò pag.33] o quella morale (casalinghe, minori) [Granaglia pag.22]. Per fronteggiare queste situazioni, si ricorre a una varietà di sussidi a specifiche categorie (poveri, anziani, famiglie numerose, ecc.) erogati ex-post una volta accertata la sussistenza della situazione e condizionati al permanere delle condizioni di difficoltà.

-promuovere la domanda di lavoro. Maggiori redditi per l’insieme dei lavoratori possono essere ottenuti attraverso un’aumentata occupazione. A tale fine è essenziale attivare una domanda pubblica o sovvenzionare (fiscalmente) quella privata con la predisposizione di specifici progetti (ad esempio, piani per l’occupazione [Pennacchi pag.62]) possibilmente orientati alla produzione di beni “utili” in grado di soddisfare bisogni individuali e sociali che altrimenti rimarrebbero inevasi [Lunghini pag.67]. Trattandosi di interventi finalizzati alla “buona” e “piena” occupazione, essi richiedono una capacità organizzativa che eviti la creazione di “cattiva” occupazione.

-garantire un reddito nel caso di perdita del lavoro. In situazioni di instabilità produttiva, ciclica o settoriale, i soggetti che perdono l’impiego rimarrebbero privi di reddito se non potessero accedere a varie forme di sussidio (di disoccupazione, di mobilità, cassa integrazione ecc.) che garantisca loro la sussistenza nel periodo più o meno lungo di inattività nella ricerca di un nuovo impiego. Anche in questo caso si tratta di un sostegno economico concesso ex-post a specifici soggetti (lavoratori precedentemente occupati, ma non tutti), limitato nel tempo e variamente condizionato alla ricerca e accettazione di un nuovo lavoro.

-rafforzare la contrattazione salariale (individuale e collettiva). La forte asimmetria tra lavoratore e datore di lavoro nella contrattazione può tradursi, per i lavoratori in attività ma soprattutto per quelli che ambiscono a entrare sul mercato, in una flessibilità verso il basso della remunerazione e delle condizioni normative che può eccedere i livelli minimi di accettazione sociale. Per contrastare posizioni di forza che possono risultare vessatorie si può prevedere la fissazione di un salario minimo (garantito) al quale la contrattazione individuale non può derogare.

-ridurre l’orario di lavoro. La crescita della produttività del lavoro (il minor tempo necessario a produrre una unità di merce) invece di tradursi in un maggior reddito di chi partecipa al processo produttivo potrebbe tradursi in una riduzione dell’orario di lavoro. Il fatto che l’evoluzione della produttività del lavoro a livello di impresa dipenda anche da fattori ad essa esterni, implica che l’incremento di produttività debba essere valutato a livello dell’intero sistema per cui la riduzione degli orari (a parità di salario) andrebbe fissata anch’essa a livello macroeconomico; i beneficiari di un tale intervento sarebbero tuttavia esclusivamente i lavoratori occupati.

-fornire un reddito di base. Considerato che la crescita della produttività del lavoro è un fattore sistemico (legato a determinanti tecnologiche, infrastrutturali, istituzionali), la parte del valore aggiunto delle imprese che deriva dalla disponibilità di questi fattori sociali (e che essa internalizza) dovrebbe costituire un “dividendo sociale” da distribuire all’intera popolazione [Gnesutta1 pg.25, Granaglia 2 pag.99] nella forma di un reddito di base di cui avrebbe diritto ciascun “cittadino” per la sua semplice appartenenza al corpo sociale; erogato con continuità; a priori e indipendentemente dalla partecipazione all’attività produttiva; incondizionato in quanto svincolato dalla richiesta di controprestazioni.

La pluralità delle situazioni indica che i soggetti non sono tutti uguali in quanto non godono delle medesime opportunità; si pone pertanto il problema di come e quanto intervenire per garantire il diritto a esistere dignitosamente. Va peraltro osservato che la frammentazione delle misure di intervento finiscono con il fissare in figure sociali distinte – con una contrapposizione di interessi e una gerarchia degli interventi – quelli che sono più spesso dei momenti diversi di difficoltà nella vita di una stessa persona la quale ha l’esigenza di una continuità nel flusso di reddito nel tempo per poter sopravvivere dignitosamente.

Lavoro e reddito per una cittadinanza

Nel dibattito è stata centrale la convinzione che il lavoro sia un valore per la crescita umana e che estendere la sua disponibilità significhi non solo garantire un reddito alle persone, ma contribuire alla loro dignità personale. Va precisato che il riferimento al “lavoro” non si esaurisce in quello salariato per la produzione di merci e di valori d’uso, ma si estende anche ad attività non remunerate svolte all’interno delle famiglie e del volontariato, essenziali per fornire quei “beni” che il mercato non è in grado e non intende soddisfare [Lunghini pag.67]. Non è sufficiente inoltre il puro e semplice aumento del numero degli occupati, ma occorre che ciò avvenga arginando la spinta a una flessibilità senza controllo al fine di garantire condizioni di lavoro dignitose (un “lavoro decente”) implicito nell’obiettivo di perseguire una “piena e buona occupazione”. Infine, il riferimento alla “buona occupazione” non è limitato alla sola qualità delle condizioni di lavoro individuali, ma riguarda anche le finalità dell’attività lavorativa che va orientata in modo da rendere disponibili beni e servizi socialmente apprezzabili.

Sebbene lavoro e reddito costituiscano due dimensioni dello stesso processo, nell’immaginare come contrastare le tendenze che hanno investito le relazioni di lavoro sono state formulate proposte di intervento che, nello sviluppo del dibattito, si collocano lungo due assi distinti: quello che privilegia un intervento diretto alla creazione di lavoro in contrapposizione a quello che privilegia la concessione di un reddito [Carra pag. 92]. Si tratta di due approcci che riflettono due visioni diverse della posizione del lavoro salariato nella società e, per quanto entrambe intendano fornire una risposta alla questione della “cittadinanza”, ovvero al diritto di chiunque di godere di condizioni di vita dignitose, esse sono significativamente diverse nel modo di affrontare il problema. È infatti emersa la contrapposizione – utilizzando espressioni presenti nel dibattito – tra il lavoro di cittadinanza e il reddito di cittadinanza: Una contrapposizione netta tra una prospettiva, la prima, che subordina il reddito al lavoro promuovendo l’aumento dell’occupazione con “piani del lavoro”e, la seconda, che subordina il lavoro al reddito, che mira a una redistribuzione delle ore lavorate attraverso la riduzione degli orari di lavoro integrando il minore reddito con un reddito di base. Diversa è la valutazione politica e morale a seconda che con il lavoro si acquisisca il diritto al reddito o che con il reddito si acquisisca il potere di scegliersi il lavoro; ma ciò che questa alternativa mette in luce è la prospettiva pragmatica che l’aggancio tra lavoro e reddito non è univoco [Carra]. È quindi utile soffermarsi sulle differenti prospettive di intervento.

Nella direzione di un “lavoro di cittadinanza"

Prevedere un sostegno a un lavoro dignitoso per disporre di un corrispondete reddito implica mettere al centro dell’agenda politica l’idea e la prassi che la cittadinanza è garantita da una piena occupazione realizzabile attraverso progetti (piani del lavoro quali quelli del New Deal [Pennacchi pag. 62, Airaudo pag. 125]) che generino direttamente una domanda aggiuntiva di lavoro [Gallino pag. 59]. La “nuova” occupazione dovrebbe riguardare non solo gli attuali disoccupati, gli espulsi dall’attività produttiva e quelli in cerca di primo impiego, ma anche quegli inoccupati che non si presentano sul mercato del lavoro perché consapevoli di non avere, nelle attuali condizioni, alcuna opportunità di impiegarsi.

È una forma di intervento che deve integrarsi, come si è già detto, con almeno due altre condizioni: che si tratti di “buona” occupazione per i lavoratori e che essa sia “buona” anche perché finalizzata alla produzione di utilità per la società in quanto rivolta alla riproduzione e crescita di quelle risorse (capitale naturale, sociale e umano) che sono a fondamento del progresso e della stabilità sociale [Airaudo pag. 125]. Lo spazio ideale e pratico di iniziative basate sul “lavoro di cittadinanza” [Pennacchi pag. 62] è quello di “occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società” – attualmente coperto dal volontariato, associazionismo, movimenti ambientalisti, cooperative, centri sociali – che affrontano la questione “troppe merci, poco lavoro” e realizzare quei beni in grado di soddisfare i bisogni sociali assoluti che non sono presi in considerazione dal mercato [Lunghini pag. 67].

Una condizione essenziale per il lavoro di cittadinanza appare essere il sostegno dell’amministrazione pubblica e ciò richiede il coinvolgimento di forze politiche nella condivisione degli obiettivi e quello di un governo “sensibile” in grado di sostenere con istituzioni appropriate l’attuazione del piano [Lunghini].

Non va trascurato che, a meno di ridimensionare l’intervento a una dimensione puramente congiunturale, la proposta del lavoro di cittadinanza deve integrarsi con gli altri interventi di stabilizzazione del mercato del lavoro se si intende garantire l’obiettivo qualificante di un “salario decente” [Santini pag. 13]. L’obiettivo di “piena e buona” occupazione rischia di non trovare un’adeguata soluzione strutturale se manca la definizione contrattualizzata di un salario minimo; se è carente il sistema di ammortizzatori sociali; se è assente la garanzia di un reddito minimo per coloro che risultano strutturalmente esclusi dal mercato del lavoro [Pennacchi]. Volendo favorire l’espansione del reddito attraverso l’espansione dell’occupazione è inevitabile che l’intero complesso delle forme di sostegno del reddito (reddito minimo, ammortizzatori sociali ecc.) ne risulti condizionato, anche nella sua durata temporale, dall’obbligo di ricerca di un’occupazione (la conseguente “prova dei mezzi”).

Il lavoro di cittadinanza richiede quindi una struttura istituzionale complessa che è tanto maggiore quanto maggiori sono le difficoltà e più lunghi i tempi per conseguire un’occupazione “piena” (qualora tale termine non sia tautologicamente inteso come “massima occupazione possibile”); questo in una realtà produttiva e sociale che vede accresciute ed estese le forze di lavoro sovraistruite, anche grazie al contributo della componente femminile.

Nella direzione di un reddito di cittadinanza

L’orientamento alternativo di sostenere un reddito dignitoso per garantire la ricerca di un lavoro di analoga qualità rispecchia la necessità di favorire la cittadinanza “reale” espandendo il numero degli occupati ricorrendo a una ridistribuzione del lavoro tra occupati e inattivi attraverso un’estensione dei contratti di lavoro a tempo ridotto. Per non influire sul costo del lavoro, orari più contenuti richiedono una corrispondente riduzione dei salari; per evitare che i redditi dei salariati si riducano al di sotto di livelli accettabili di sussistenza, occorre integrarli con un adeguato sussidio generalizzato [Gattei pag. 36]. Redistribuzione del lavoro e redistribuzione del reddito si completerebbero al fine di garantire condizioni di vita dignitose a un più ampio numero di persone in cerca di lavoro.

Affinché l’obiettivo di aumentare gli occupati a orario ridotto possa risultare accettabile sia alle imprese che ai lavoratori occorre che si possa garantire alle prime un costo del lavoro inferiore a quello attualmente sostenuto e ai secondi un reddito superiore alle attuali condizioni precarie. Per quanto riguarda le imprese, ciò si può realizzare attraverso un diverso carico fiscale e contributivo sui contratti di lavoro a seconda della loro durata, alleggerendolo per quelli a orario contenuto e aggravandolo per quegli di più lunga durata [Nascia pag.87]. Per il lavoratore il vantaggio sarebbe costituito dal “diritto” a un reddito esente da ogni onere fiscale e contributivo indipendentemente dalla prestazione lavorativa, la cui continuità in caso di interruzione del rapporto di lavoro è assicurata dall’intervento pubblico [Gnesutta2 pag. 85]. L’interesse dell’impresa all’abbattimento fiscale favorirebbe inoltre l’emersione del lavoro sommerso, soprattutto se fosse accompagnato da significative sanzioni [Gnesutta1 pag. 25].

Per svolgere la sua funzione, il sussidio deve riguardare tutti gli occupabili (sia effettivi che potenziali) ed essere cumulabile con il reddito da un’attività di lavoro; deve quindi essere tendenzialmente universale e incondizionato. Intorno a questo reddito di base andrebbero ristrutturati tutti gli altri interventi non come espressione di specifiche situazioni, ma come riconoscimento di un diritto e come norma sociale, fornendo una base unica per la maggior parte degli interventi assistenziali inclusi i sussidi per la povertà e le prestazioni sociali minime. Svolgerebbe inoltre la funzione di minimo salariale, dato che influenza il salario di riserva del lavoratore (il livello minimo di reddito oltre il quale egli non ha convenienza a scendere nella contrattazione dell’impiego) permettendogli un (minimo) potere di contrattazione qualora le condizioni di lavoro offerte dovessero risultare vessatorie [Gnesutta1]. Ne potrebbe risultare un contenimento dell’insicurezza nei rapporti di lavoro e un rafforzamento della contrattazione sindacale. Non va trascurato che la sua incondizionalità permetterebbe di alleggerire i compiti dell’apparato amministrativo.

Se l’esistenza di un reddito di cittadinanza (nella specifica forma qui indicata) rafforza la capacità contrattale del singolo, il fatto di essere incondizionato non garantisce che la libertà di scelta del lavoro si traduca in un’attività produttiva e comunque non necessariamente in quelle qualitativamente auspicabili; per stimolare le scelte individuali in questa direzione occorrono specifiche opportunità offerte dalla pubblica amministrazione o dalla società civile. Non va trascurato inoltre che, in presenza di un reddito di base, i soggetti possono privilegiare forme autonome di impiego, volte o meno alla autovalorizzazione dei propri talenti [Gnesutta1 pag. 25] e, se ciò dovesse essere valutato positivamente, richiederebbe di omogeneizzare il trattamento fiscale e contributivo di questi lavori a quelli del lavoro salariato a orario diversificato.

Una società in trasformazione

Muoversi nella direzione di un lavoro di cittadinanza o di un reddito di cittadinanza riflette una differente visione della realtà economica e della società che si vuole costruire. La contrapposizione tra i due indirizzi è, anche da quanto è emerso dal dibattito, tutt’altro che “tecnica”; essa si manifesta esplicitamente sia nella diversa visione politico-morale sulla responsabilità dell’individuo nei confronti della società [Granaglia1 pag. 22], sia nella scelta del soggetto istituzionale sul quale fare affidamento per realizzare l’obiettivo (di lavoro e di prodotto) in termini qualitativi.

Scontata la giustificazione del ruolo redistributivo di pertinenza dell’agente pubblico [Del Bò pag. 33], la diversa visione politico-morale si esprime nella contrapposizione tra un reddito che proviene (nel lavoro di cittadinanza) dalla diretta partecipazione alla produzione di valore sociale e un reddito del tutto svincolato da un diretto impegno produttivo nel caso del reddito di cittadinanza. Nel primo caso è evidente lo scambio tra la società che fornisce i mezzi di sussistenza al singolo individuo e la controprestazione di questi attraverso una diretta produzione di valore sociale; nel secondo caso al reddito erogato come diritto non corrisponde alcuna controprestazione diretta per la produzione di nuovi beni.

Il sostegno al lavoro di cittadinanza esprime un’etica del lavoro, ovvero la considerazione che l’inserimento nel mondo del lavoro è fattore determinante per il riconoscimento, prestigio e indipendenza individuale in quanto contribuisce alla consapevolezza dei singoli di contribuire direttamente al benessere sociale e ne rafforza il senso della responsabilità individuale e l’identità sociale [Pennacchi pag. 62]: l’occupazione è un presupposto per lo sviluppo della democrazia [Lunghini pag. 67]. Tuttavia la condizionalità di questa forma di intervento sembra assumere implicitamente che i soggetti in difficoltà sono tendenzialmente degli incapaci che vanno quindi pressati da forme di welfare-to-work, in un contesto peraltro in cui paradossalmente si contraggono le opportunità di lavoro [Saraceno pag.116].

L’ipotesi di un reddito di cittadinanza assume che i cambiamenti registrati dal capitalismo hanno modificato la relazione tra lavoro e non lavoro [Fumagalli e Vercellone pag. 111] permettendo alle imprese di appropriarsi delle esternalità risultanti dai processi sociali di cura e di acculturazione attraverso forme intollerabili della precarizzazione del lavoro [Lucaroni pag. 40]. È la produttività sociale non pagata dall’impresa che giustifica il diritto del cittadino a vedersi riconosciuto un reddito incondizionato; un reddito che gli permetta la “scelta” del proprio lavoro [Fumagalli pag. 82] tra quelle “attività di formazione, di autovalorizzazione, di lavoro volontario nelle reti dell’economia sociale e delle comunità di scambio dei saperi” che sono del resto il fondamento di quel capitale sociale di cui si avvantaggiano indirettamente le imprese. È peraltro il flebile legame tra sussidio e crescita di queste risorse che rende discutibile la sua incondizionalità che, lasciando irrisolto il meccanismo per identificare e affrontare i bisogni sociali insoddisfatti [Lunghini], può indurre a un parassitismo di massa certificando l’emarginazione dei beneficiari [Pasetto pag. 107] con l’effetto finale di legittimare la loro attuale inaccettabile situazione [Pennacchi].

Il pericolo a suo tempo evocato di una società “dualizzata” per la sua polarizzazione nel settore “ricco” del lavoro salariato e in uno che, esterno a tale rapporto, è sussidiato per una vita “buona” non sembra attualmente molto realistico. Aleggia piuttosto nel dibattito la preminenza che è venuta ad assumere una terza area sociale che sfortunatamente non ha la possibilità di accedere né al polo della vita “ricca” né a quello della vita “buona” in quanto si presenta debole economicamente per l’impossibilità di farsi valere sul mercato del lavoro e fragile socialmente per l’incapacità di ridefinire stili di vita e modelli di consumo alternativi a quelli imposti dal modello dominante. Un settore sociale dal quale vengono abbondantemente attinte quelle forze di lavoro precarie che garantiscono la transizione del nostro modello sociale verso una società di crescenti disuguaglianze.

La visione del processo sociale che è alla base della diversa valutazione politico-morale delle due alternative, si riflette anche nell’individuazione di quali siano le istituzioni che possono promuovere la trasformazione qualitativa dei processi produttivi e della struttura dei consumi che esse perseguono. Mentre i piani legati al lavoro di cittadinanza richiedono una forte direzione pubblica, nel caso del reddito di cittadinanza il peso maggiore è lasciato alle relazioni e istituzioni della società civile.

L’esperienza del New Deal e la drammaticità della situazione presente inducono a riporre nel soggetto pubblico la speranza che esso sia uno strumento dell’interesse collettivo in grado, attraverso appropriate istituzioni anche innovative, di operare come datore di lavoro di ultima istanza [Airaudo pag. 125]. È in questa capacità interventista e programmatoria, orientata da politiche mirate e concrete, che trova giustificazione la preferenza espressa per un intervento pubblico in un quadro di cooperazione tra le forze sociali [Gallino pag. 59, Pennacchi pag. 62]. Si spiega anche il sospetto per ogni opzione fondata su trasferimenti monetari che, in quanto indifferenziati, appaiono una semplice compensazione deresponsabilizzante [Pennacchi].

Sulla plausibilità di un intervento pubblico necessariamente positivo non vi è però unanimità. A parte il fatto che non mancano esperienze del passato poco incoraggianti – sono stati ricordati i “lavori socialmente utili”[Airaudo] –, è diffuso lo scetticismo sulla possibilità che, nell’attuale contesto di strutturale “austerità”, esso possa esprimere un’adeguata iniziativa per intensità e per durata corrispondenti alla gravità del problema. Il rapporto tra Stato e Lavoro, che pur tanta rilevanza ha avuto nel passato, appare una prospettiva difficilmente praticabile nell’attuale fase storica [Mazzetti pag. 71] non solo per un clima che esalta i vincoli di bilancio, ma soprattutto per i molti dubbi che l’amministrazione pubblica possa costituire quella macchina efficiente sulla quale poter fare affidamento per una risposta positiva alle esigenze del mondo del lavoro [Lucaroni pag. 40].

Più diffusi sono i soggetti di quella cooperazione sociale alternativa che, sostenuti da un reddito di cittadinanza, dovrebbe garantire la manutenzione e lo sviluppo del capitale cognitivo e quindi delle risorse produttrici del ben-essere. Si fa affidamento in questo caso sulla libera scelta di attività di autovalorizzazione per garantire, al di fuori di un piano preordinato, livelli adeguati non solo alla produzione mercantile ma anche alla promozione di quei valori di solidarietà in grado di soddisfare parte dei bisogni sociali trascurati dal mercato. Per quanto si supponga di poter ottenere tale risultato in maniera indipendente da un intervento pubblico, la realizzazione e il mantenimento nel tempo di tale diritto di base dipende comunque da un rapporto con lo Stato, soprattutto se rimane in campo pubblico – come deve rimanere – la gestione di quelle risorse (istruzione, sanità, e beni comuni) così essenziali per il capitale cognitivo [Fumagalli pag. 82]. Non va inoltre sottovalutata la necessità che l’amministrazione pubblica stimoli il lavoro “liberato” a partecipare a programmi di produzione di valori d’uso e di valorizzazione delle risorse sociali. L’intervento pubblico, sgravato dagli interventi di contrasto delle situazioni di maggiore precarietà, avrebbe la possibilità di snellirsi e di riqualificarsi su obiettivi di provata rilevanza. Il raccordo tra le due istituzioni – del lavoro pubblico e del lavoro liberato – richiede, pertanto e di necessità, la costruzione di forme organizzative che vadano oltre lo stretto rapporto Stato-mercato per valorizzare socialmente tutte quelle attività della società civile in grado di produrre valore sociale [Carra pag. 92].

La questione della distribuzione tra lavoro capitalistico, faticoso e alienante, e lavoro liberato, “leggero” e appagante, rimane certamente problematica per quanto riguarda la possibilità di garantire, da un lato, che la scelta tra le due modalità sia aperta a tutti [Amari pag. 45] e, dall’altro lato, che la distribuzione tra i due lavori rispetti le esigenze dell’equilibrio e della stabilità macroeconomica, dato che, come si sosterrà qui di seguito, in un’economia monetaria il livello del reddito di base non è indipendente dal livello della produzione di merci [Mazzetti2 pag. 77].

Lavoro e reddito: l’inevitabile conflitto redistributivo

Tutte le forme di sostegno del reddito richiedono di essere finanziate. Se, come si sostiene correttamente, le risorse alle quali attingere non possono che provenire dall’eccesso di valore prodotto dai lavoratori nel settore capitalistico (nella produzione di merci), la comprensione del processo di redistribuzione del reddito monetario richiede di esplicitare la circolazione monetaria a livello dell’intero sistema [Fumagalli e Vercellone pag. 111]. Per seguire come si sviluppa tale processo è utile individuare la struttura dei flussi monetari che collega tra loro: (a) i lavoratori del settore delle merci; (b) i lavoratori del settore pubblico; (c) i lavoratori del terzo settore (società cooperative, fondazioni, onlus, associazioni di volontariato, alcune imprese sociali for profit [Pasetto pag.107]); (d) i soggetti che, benché non-occupati, godono di prestazioni sociali (pensioni) o di altri sussidi, inclusi quelli di disoccupazione [Mazzetti1 pag.71 e Mazzetti2 pag.77]. L’insieme di tutti questi soggetti non esaurisce l’intera popolazione, rimanendo esclusa, oltre ai percettori di redditi da capitale (profitti e rendite), un’ampia fascia di cittadini (casalinghe, bambini, disoccupati “mancati” ecc.) che non dispone né di un’occupazione retribuita, né di un reddito alternativo.

Alla base della circolazione monetaria vi è il prodotto (monetario) del settore delle merci. Il flusso monetario che scaturisce dai ricavi del settore permette di remunerare i lavoratori in esso impiegati e l’“eccedenza” si ripartisce tra il settore pubblico (nelle varie forme di prelievo fiscale e di contributi previdenziali e assistenziali) e i percettori di reddito di impresa (profitti e varie forme di rendita).

Il reddito monetario dei lavoratori privati (al netto ovviamente delle imposte) finanzia la loro spesa (e quella dei famigliari) per il consumo di merci e dei servizi venduti dal settore pubblico e dal terzo settore. Il reddito monetario che affluisce al settore pubblico (dal settore produttore di merci, dalla vendita di servizi pubblici alle famiglie e dall’eventuale disavanzo pubblico) è utilizzato per attivare, attraverso il lavoro degli impiegati pubblici, la produzione diretta di servizi pubblici, per finanziarie l’attività del terzo settore per la produzione di valori d’uso e, infine, per distribuire reddito a soggetti non produttivi (pensionati, inabili ecc.) [Mazzetti2]. Il reddito monetario che affluisce al terzo settore (dal settore pubblico, dalle famiglie e da altri soggetti) è impiegato per attivare, attraverso lavoro remunerato, servizi utili che hanno valore d’uso.

In sostanza, la moneta proveniente dal prodotto del settore capitalistico (integrata dall’eventuale disavanzo pubblico) permette di sostenere “a cascata” l’occupazione dei salariati privati (circuito 1), l’occupazione dei salariati pubblici (circuito 2), l’occupazione del terzo settore (circuito 3) e la sussistenza di alcune categorie di soggetti “non produttivi” ritenuti socialmente meritevoli di sostegno.

Per quanto semplificata, una tale rappresentazione del processo di circolazione monetaria permette di osservare: qualsiasi forma di sostegno dell’occupazione o di sostegno del reddito (minimo o universale, per attivare lavoro o per superare situazioni di inabilità o povertà, in forma diretta di trasferimento monetario o in quella indiretta di attivazioni di lavoro) va attinta dall’“eccedenza” di reddito monetario, ovvero dallo scarto tra il prodotto (monetario) delle merci e la massa (monetaria) salariale distribuita dal settore delle merci. Un aumento di queste disponibilità si può realizzare esclusivamente con la contrazione del flusso o dei redditi da capitale o dei redditi da lavoro o di una combinazione dei due [Lucaroni pag.40]. In presenza di un aumento della produttività del lavoro, l’“eccedenza (monetaria)” può aumentare solo se non si modifica la massa monetaria dei salari e dei redditi da capitale.

Qualsiasi intervento che modifichi l’eccedenza (monetaria) nel settore delle merci, modifica i flussi monetari che ne discendono a cascata. L’equilibrio macroeconomico richiede peraltro che il circuito monetario si chiuda attraverso il realizzo monetario della produzione (di merci) come risultato della formazione di un’adeguata domanda complessiva (di merci) da parte dei percettori dei redditi da capitale, dello Stato e dell’estero che integri quella proveniente dai lavoratori dei tre circuiti [Gattei pag.36].

Il valore del prodotto del settore delle merci, del settore pubblico e del terzo settore determinano il valore del Pil. È noto che il Pil è un indice inadeguato per rappresentare sia il “ben-essere” corrente di una società, sia la ricostituzione delle risorse (capitale cognitivo, capitale sociale, capitale naturale ecc.) necessarie a produrlo. Parte della produzione di ben-essere (non contabilizzata nel Pil) proviene dal “lavoro non remunerato” all’interno delle famiglie, dal volontariato, dalle attività di autovalorizzazione, tutte sostenute comunque dal reddito monetario dei lavoratori.

Per le precedenti considerazioni i processi di redistribuzione del reddito (espressi dai circuiti 2 e 3) sono il risultato della politica dei redditi e della politica di domanda. Processi redistributivi diversi implicano differenti politiche economiche (più o meno conflittuali); qualsiasi sistema di interventi a sostegno dell’occupazione o a sostegno del reddito esprime “una” politica dei redditi (inclusa quella di lasciarla in gestione al mercato) la quale include anche la politica di domanda che determina la chiusura del circuito macroeconomico (e quindi l’eccedenza da redistribuire).

Se qualsiasi redistribuzione del reddito è il combinato di una politica dei redditi e di una politica della domanda, essa implica oggettivamente una situazione conflittuale – e quindi la necessità di governarla – tra coloro che beneficiano dei circuiti “a cascata” e i percettori di redditi di impresa (profitti e rendite) che tendono ad appropriarsi dell’“eccedenza”. Il conflitto non riguarda pertanto solo la distribuzione del reddito, ma influenza anche i livelli e la composizione sia delle merci che dei valori d’uso, dalla cui combinazione dipende il ben-essere sociale.

Quanto della maggior occupazione dovuta dall’espansione o dal miglior utilizzo dei fondi monetari che affluiscono al settore pubblico e al terzo settore si traduce in un aumento (della quantità e qualità) dei valori d’uso da essi prodotti dipende dall’efficienza del loro processo produttivo. Tuttavia, se l’ampliamento dell’occupazione nel settore delle merci è sostenuto da sgravi fiscali, l’effetto finale sulla produzione di valori d’uso dipende dalla variazione dell’eccedenza “netta” del reddito monetario che non è necessariamente positiva.

Il circuito monetario (capitalistico) non è un vincolo assoluto alla produzione (sociale) di valori d’uso realizzata al suo esterno. Un’attività di produzione di valori d’uso in eccesso a quella permessa dalla circolazione monetaria proveniente dal circuito 1 si può avere con l’immissione di moneta nel circuito 2 attraverso il disavanzo pubblico. L’espansione della produzione di valori d’uso può peraltro realizzarsi implementando o sfruttando circuiti alternativi alla moneta ufficiale (banche del tempo, monete complementari, voucher “sociali” a circolazione ristretta, forme di “economia del noi” ecc.) che richiedono innovazioni istituzionali “radicali” [Lucaroni pag.40] non solo per costruire la necessaria fiducia sociale nei confronti delle nuove “forme di circolazione”, ma anche per governare l’ineludibile rapporto con la moneta ufficiale se, e fino a quando, le merci faranno parte del paniere del consumo dei produttori di valori d’uso.

In sostanza, qualsiasi sia la forma che assumono i diversi interventi di sostegno del lavoro o del reddito, essi presentano i medesimi problemi per quanto riguarda il loro finanziamento e hanno implicazioni analoghe a livello di sistema.

Due ipotesi contrapposte?

Il “lavoro per il reddito” e il “reddito per il lavoro” sono due opzioni che si differenziano per la diversa visione strategica della politica del lavoro e non per gli aspetti “tecnici” che ne caratterizzano le forme di intervento. In effetti, la rappresentazione che se ne è data solleva tre diverse questioni sul loro grado di conciliabilità, ovvero se siano tecnicamente compatibili; se siano economicamente sostenibili; se siano politicamente accettabili.

La compatibilità tecnica. Dal punto di vista “tecnico” si è detto che entrambe affrontano lo stesso problema – la garanzia delle condizioni di vita dei lavoratori e della larga fascia di popolazione ad essi affine – anche se in due prospettive diverse. Tuttavia, se vengono viste, come dovrebbero, come uno strumento e non come un obiettivo, non vi è alcuna ragione perché esse risultino tra loro incompatibili. Entrambe richiedono una trasformazione delle istituzioni esistenti e pertanto qualsiasi di esse venga privilegiata richiederà un lungo periodo di transizione durante il quale è possibile un loro impiego eclettico e una complementarietà operativa [Granaglia1 pag. 22, Carra pag.92]. Se è indubbio che il problema più pressante è quello di creare occupazione, le iniziative in termini di piani del lavoro sono ovviamente quelli più appropriati e gli interventi sulle garanzie di reddito si pongono a un “secondo e terzo livello” [Gallino pag. 59]. Ciò non toglie però che se ci si vuole muovere con una prospettiva di più lungo periodo, l’opzione di una “redistribuzione del lavoro più reddito di base” potrebbe risultare quella più adeguata; in tal caso sarebbe opportuno che già negli interventi di breve periodo fossero inserite misure che prefigurino una soluzione in quella direzione: sviluppo dei contratti di lavoro a tempo ridotto, regolamentazione sindacale di tali contratti, garanzie di reddito allineate a una base comune in grado di prefigurare un futuro reddito di base e così via.

La sostenibilità economica

Dal punto di vista “economico”, il dibattito ha manifestato un diffuso scetticismo sulla sostenibilità finanziaria di un intervento basato sul reddito di base rispetto a quello dei piani di lavoro [Pennacchi pag. 62, Nascia pag. 87]. Per quanto ovvio, va osservato che è possibile effettuare una valutazione dell’impegno finanziario delle due opzioni solo in presenza di progetti che precisino forme e tempi della loro implementazione (platea dei beneficiari, livello dei sussidi, costi amministrativi ecc.) e tali da permettere una valutazione dei loro effetti diretti e indiretti [Gnesutta1 pag. 25]. Se consideriamo le due opzioni con riferimento al medesimo obiettivo (un intervento che riguarda 6-8 milioni di occupabili) non sembra che lo sforzo finanziario sia molto diverso tra le due alternative. Soprattutto se non si considera solo il costo dell’intervento, ma si tiene conto, come la realtà corrente ce lo suggerisce, anche il costo materiale e morale del non-intervento, in particolare nei confronti dei settori meno garantiti (anziani, donne e bambini) [Travaglini pag.16, Granaglia pag. 22]. Non si intende con ciò negare, anzi, che l’impegno finanziario richiesto sia particolarmente rilevante (per entrambe le opzioni se obiettivo complessivo è il medesimo), anche se, nel processo di attuazione, i costi possono distribuiti nel tempo in maniera molto diversa.

In sostanza, entrambe le proposte non sono neutrali rispetto al bilancio dello Stato, né alle condizioni di reddito delle imprese e dei lavoratori, anche se diversa è la loro incidenza. Comunque si prefiguri l’intervento, è evidente che i lavoratori dovrebbero essere i beneficiari netti direttamente per le maggiori opportunità di impiego, indirettamente per il rilancio della produzione; anche le imprese ne beneficiano per quest’ultima ragione oltre che per gli eventuali sgravi fiscali che dovessero essere utilizzati per favorire la crescita dei loro occupati. Il costo dell’operazione grava inevitabilmente sul bilancio pubblico anche se trova una presumibile parziale copertura nell’espansione produttiva. Pertanto, una qualsiasi iniziativa che si ponga seriamente al livello della gravità del problema richiede una ristrutturazione profonda della spesa pubblica e del prelievo fiscale [Lunghini pag. 67. Fumagalli pag.82, A. Van Parjis pag.120] in un diverso “patto fiscale” tra i soggetti di questa società [Airaudo pag.125].

L’accettabilità politica

Per quanto molti siano gli aspetti tecnici e finanziari che necessitano di un approfondimento, non sono questi a costituire la questione più critica. Lo scetticismo cui si è fatto in precedenza cenno circa la praticabilità di un’iniziative a carico di una fiscalità generale esausta è così tranchant da chiudere qualsiasi discussione in merito. Si possono interpretare tali reazioni come il riconoscimento di fatto che si tratta di proposte radicalmente conflittuali sul terreno politico e quindi insostenibile per gli attuali equilibri economici e sociali [Fumagalli e Vercelloni pag.111]. Ed è questo l’ostacolo più ostinato per la sua accettabilità politica, ovvero la non-volontà politico-culturale del quadro politico di assumere “il diritto alla sussistenza come un diritto umano e di cittadinanza fondamentale” [Saraceno pag.116]. In effetti, le iniziative prospettate nel dibattito mettono in discussione, anche se con peso diverso e con tempi diversi, gli esistenti orientamenti di politica economica centrati sulla crescita produttiva e sulla stabilità finanziaria secondo canoni imposti dall’esterno. In effetti, nella loro compiutezza, gli interventi prospettati nel dibattito si presentano come delle ipotesi “forti” per una politica dei redditi che abbia come obiettivo il “lavoro” non inteso (solo) come risorsa produttiva, ma come condizione di esistenza delle persone. Attribuire a una tale “politica del lavoro” la centralità che merita nella definizione dell’intera politica economica impone di necessità una revisione profonda degli attuali criteri e misure delle politiche di domanda, fiscale, industriale e di altre ancora.

A questa difficoltà di accettabilità politica se ne associano almeno due altre questioni propriamente “politiche” accennate, anche se non pienamente sviluppate, nel dibattito. La prima riguarda chi deve essere considerato “cittadino” e quindi beneficiario degli interventi per l’occupazione e il reddito. La soluzione è molto diversa a seconda si faccia riferimento all’attributo formale della cittadinanza o all’aspetto sostanziale della residenzialità; ovviamente le conseguenze non sono di poco conto per gli immigrati e per i cittadini con residenza all’estero. La seconda questione è il rapporto con l’Europa. Sulla necessità di inquadrare l’intervento di trasformazione del nostro welfare all’interno di quello dell’Unione non sono mancati riferimenti alle risoluzioni delle istituzioni europee o esplicite proposte in questo senso per fornire ai cittadini europei un minimo di sicurezza economica [Saraceno pag.116, Van Parijs pag. 120]. Ciononostante vi sia la consapevolezza che tali indicazioni si scontrano non solo con i vincoli di un’austerità permanente, ma soprattutto con una sempre più tenue tensione a sostenere il modello sociale che dovrebbe caratterizzare l’Europa.

Nell’orizzonte di una “politica del lavoro”

Mettere il lavoro al centro della politica economica e condizionare ad essa gli altri interventi prospetta un’alternativa radicale all’attuale indirizzo politico. L’obiettivo di dare lavoro, un lavoro non precario, non sottopagato in un momento di trasformazione degli apparati economici e sociali che “spontaneamente” vanno in tutt’altra direzione dovrebbe essere, per quanto temerario, un obiettivo indiscutibile per qualsiasi forza politica della sinistra.

Assumere questa dimensione come terreno di iniziativa impone una discontinuità alla politica economica della sinistra poiché, in presenza di un mercato del lavoro sempre più discriminatorio e aggressivo, riprendere l’iniziativa a garanzia delle condizioni minime di vita, e quindi della capacità contrattuale, dei “cittadini” (che comprendono chi ha un’occupazione e chi non ce l’ha) significa proporsi di “trasformare nei fatti il diritto all’esistenza in un diritto inalienabile e non a disposizione dei governanti di turno” e di superare “la difficoltà politico-culturale a far percepire il diritto alla sussistenza come un diritto umano e di cittadinanza fondamentale”[Saraceno pag.116].

Le proposte emerse dal dibattito possono sembrare “esili” e “astratte”, ma forse appaiono così perché si confrontano con i “forti” e “concreti” obiettivi assunti come ineludibili dall’attuale classe dirigente. Di questo bisogna essere consapevoli ma, considerate le prospettive sociali imposte dall’agenda sempre più preoccupante dettata dalla produzione globale, ciò non dovrebbe essere sufficiente per dissuadere dallo sviluppare le riflessioni che questo e-book intende offrire. Il problema è reale e vi è l’esigenza di proseguire nella riflessione non solo sulla strumentazione e sui tempi più appropriati, ma soprattutto su come rendere questa prospettiva politicamente accettabile. La decisione di raccogliere gli interventi del dibattito ospitato da Sbilanciamoci! in questo e-book e proporne una sintesi esprime la convinzione che la formulazione di una politica del lavoro, e non del “mercato del lavoro”, si pone a un livello strategico per il nostro futuro.

(1) Per non appesantire l’esposizione le citazioni alle singole posizioni si limitano prevalentemente a rinviare in maniera generica al contributo ritenuto più significativo. L’organizzazione di questa sintesi e il modo di interpretare i diversi contributi è stata adottata per stimolare ulteriori sviluppi e approfondimenti del tema.

(2) La proposta è stata fatta propria da Sel ed è riportata integralmente nell’Appendice 1 pag.150.

(3) Diversi sono gli espliciti richiami al nostro dettato costituzionale [Amari]. Come ricorda Saraceno, il diritto alla sussistenza e alla vita dignitosa è un diritto fondamentale costituzionalizzato non solo a livello nazionale, ma anche dall’Unione europea.

(4) Carra richiama esplicitamente il contributo di Gorz e l’esperienza delle 35 ore in Francia. Più diffuso è il riferimento di Fumagalli al ruolo del capitale cognitivo nella struttura dei rapporti di lavoro post-fordista, al quale si richiama anche Lucaroni.

(5) Sperando così di evitare quelle “confusioni lessicali e pratiche” così diffuse nel dibattito italiano sottolineata da Saraceno.

(6) Santini e i limiti alla “condizionalità” nella proposta di legge popolare. Del Bò “non possono essere le condizioni di nascita, naturali o sociali che siano, a dettare quelle che saranno le condizioni di vita individuali di ciascuno di noi”.

(7) Gattei e il richiamo a Keynes. Sulla difficoltà nel momento attuale Lunghini.

(8) Van Parijs per l’internalizzazione dei benefici recati dall’integrazione europea, ma soprattutto Fumagalli e Vercellone [pag.111] sulla rilevanza del capitale cognitivo nell’attuale modo di produzione capitalistico. In quest’ultima versione il “reddito di cittadinanza” o il “reddito di base incondizionato” si presentano come strumento per favorire “la transizione verso un modello di sviluppo fondato sul primato del non mercantile e di forme di cooperazione alternative tanto al pubblico quanto al mercato nei loro principi di organizzazione” (Fumagalli e Vercellone), di un passaggio a un modello di Commonfare (Lucaroni pag.102).

(9) Gallino e l’apprezzamento per l’unificazione delle prestazioni assistenziali.

(10) Lunghini; dal quale si riprende il termine di “valore d’uso” qui utilizzato.

(11) Non va trascurato che le attività all’interno dei tre circuiti non esauriscono la produzione di quel capitale cognitivo che è funzionale alla produzione di merci e che, quale economia esterna di natura sociale, non viene finanziato dal settore delle merci che ne beneficia.

(12) Lunghini per la promozione di lavori immediatamente destinati alla soddisfazione dei bisogni sociali assoluti (lavori di cura delle persone e della natura) la cui domanda i mercati del lavoro e delle merci non registrano perché corrispondono a bisogni privi di potere d’acquisto individuale.

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Ernesto Sattaneo - Nicoletta Damiani

Una Sola Grande Unione di tutti i segmenti della working class a scala quanto meno continentale europea per la riduzione generalizzata della settimana lavorativa a trenta ore settimanali senza diminuzione della retribuzione. Oltre tutto un Titano del pensiero della working class ebbe a scrivere: « Quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più può essere abbreviata la giornata lavorativa e quanto più può essere abbreviata la giornata lavorativa tanto più potrà crescere l’intensità del lavoro. Da un punto di vista sociale la produttività del lavoro cresce anche con la sua economia. Quest’ultima comprende non soltanto il risparmio nei mezzi di produzione, ma l’esclusione di ogni lavoro senza utilità. Mentre il modo di produzione capitalistico impone risparmio in ogni azienda individuale, il suo anarchico sistema della concorrenza determina lo sperpero più smisurato dei mezzi di produzione sociali e delle forze-1avoro sociali oltre a un numero stragrande di funzioni attualmente indispensabili, ma in sè e per sè superflue.
Date l’intensità e la forza produttiva del lavoro, la parte della giornata lavorativa sociale necessaria per la produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata per la libera attività mentale e sociale degli individui sarà quindi tanto maggiore, quanto più il lavoro sarà distribuito proporzionalmente su tutti i membri della società capaci di lavorare, e quanto meno uno strato della società potrà allontanare da sè la necessità naturale del lavoro e addossarla ad un altro strato. Il limite assoluto dell’abbreviamento della giornata lavorativa è sotto questo aspetto l’obbligo generale del lavoro. Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe mediante la trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse. » (1867 Karl Marx - Das Kapital. Kritik des politischen Oekonomie (1° libro cap XV - Variazioni di grandezza nei prezzi della forza-lavoro e nel plusvalore) Editori Riuniti, Roma, 1973, pp 244 – 245