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La via «smart» verso un’Europa più vivibile
Star bene senza Pil/Il piano europeo verso un’economia «low carbon» e per le città intelligenti. E in Italia l’Agenda digitale prepara documenti ma non fa progressi
Città intelligenti, o meglio, smart. È la parola d’ordine che si sente ripetere quando si parla di un nuovo modello, una nuova visione che mette al centro la dimensione locale come propulsore di innovazione e conoscenza e, quindi, come una nuova via verso il benessere. Ma perché? Perché le città, per i problemi che le segnano e le dinamiche che le attraversano, sono il laboratorio ideale per ideare e sperimentare da vicino politiche che migliorino il benessere dei cittadini che le abitano. E perché le nuove tecnologie digitali rappresentano una grande opportunità per la gestione di molte sfide del contesto urbano, dalla mobilità alla qualità dell’ambiente, dal consumo di energia alla partecipazione attiva dei cittadini. Di conseguenza l’utilizzo esteso delle tecnologie in ambito urbano diventa una condizione necessaria per rispondere alle sfide locali: non si tratta solo di realizzare un’infrastruttura che consenta un utilizzo efficiente delle informazioni, quanto piuttosto di creare quelle condizioni che favoriscano un percorso che sia sostenibile, inclusivo e partecipato. Ed è proprio in questa chiave, che potremmo riassumere con il motto “smart is more than digital”, che il paradigma della smart city entra in una visione più ampia che vede nella promozione del benessere dei cittadini il fine ultimo delle politiche e la tecnologia come una capacità (nel senso di Sen).
Fin dalla strategia di Lisbona, l'Unione europea ha ampiamente sostenuto l’idea di una crescita basata sulla conoscenza che fosse al tempo stesso intelligente, sostenibile e inclusiva. Nel 2009 il concetto di smart city viene introdotto nell’ambito dello European Strategic Energy Technology Plan (SET-Plan), mirato alla costruzione di un’economia “low-carbon”, con l’iniziativa “Smart cities and Communities”, orientata ai temi dell’efficienza energetica nelle città. In tempi più recenti, all’interno della strategia Europa2020, uno dei temi più rilevanti su cui si è concentrata l’attenzione è l’Agenda digitale europea, che stabilisce un insieme di azioni volte a una piena realizzazione della Società dell’informazione negli Stati membri e definisce obiettivi e indicatori per monitorarne i progressi. In questo contesto, sono stati tanti i bandi e i finanziamenti stanziati perché le città intraprendessero dei percorsi verso la smartness, ma tutti sembrano interessati ai temi dell’efficienza e del risparmio energetico piuttosto che a quella visione olistica orientata al benessere di cui il concetto di smart city dovrebbe essere portatore.
E in Italia? Dal 2012 nel nostro paese è stata istituita un’Agenda digitale italiana e un’Agenzia per l'Italia Digitale che ne garantisce l’attuazione e sono stati stanziati alcuni finanziamenti. A livello normativo, il Decreto Digitalia (D.L. 179/12) definisce i settori su cui puntare l’attenzione per la realizzazione dell’Agenda digitale italiana e, in un’apposita sezione, affronta il tema delle “comunità intelligenti”. Nel 2015 invece sono i documenti “Strategia italiana per la crescita digitale” e “Strategia italiana per la banda Ultralarga” a dettare la roadmap per la concretizzazione dell'Agenda. Ma sul piano pratico i progressi sono pochi e il livello di coordinamento è ancora carente. Le città italiane che si stanno muovendo sono tante, ma gli interventi realizzati finora sembrano volti più che altro a intercettare i finanziamenti disponibili e, di conseguenza, sono orientati molto su temi come l'energia o l’efficienza energetica, nell’ottica del SET-Plan europeo e dei vari bandi istituiti in anni recenti. Per carità, anche queste sono dimensioni del benessere (come ci ricordano studiosi, premi Nobel e anche l’Istat nel framework del Bes), ma se l’obiettivo è migliorare la vita del cittadino la strategia deve essere mirata anche a valutare i livelli di digital divide esistenti (e i dati ci dicono che sono consistenti) e a integrare quindi tutte quelle categorie di esclusi digitali per cui un utilizzo massivo delle tecnologie potrebbe generare dei cortocircuiti e ampliare le ragioni dell’esclusione.
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