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Si può uscire dalla crisi con la cooperazione?

01/09/2012

Ogni grande crisi economica ha sempre stimolato cambiamenti di sistema. Tocca alle cooperative? L'ottimismo del "coop capitalism" di N. Hertz, i problemi in campo

1. Introduzione

Il dibattito sulla grande crisi che viviamo ha, sino ad ora, girato attorno alla questione su come ripristinare la fiducia dei mercati finanziari, affinché continuino a sostenere i debiti degli Stati maggiormente indebitati.

La logica prevalente ci pare sia stata quella di assumere misure tese a ridurre i debiti, senza tener conto degli effetti depressivi sulla domanda e, quindi, sul rilancio della produzione. Dopo cinque anni di queste misure di austerità possiamo amaramente constatare come si profilino scenari sempre più inquietanti.

Misure più ardite che dovrebbero mirare non ad assecondare i mercati finanziari, ma a dominarli (Pierre Larrouturou) dovrebbero essere presi col consenso di più stati. Ma oggi sembra impossibile trovare questo consenso perchè gli Stati sono reciprocamente diffidenti e quelli meno malmessi sembrano coltivare l’idea di potere restare indenni dalle catastrofi che potrebbero colpire quelli più indebitati.

Il fulcro di questa crisi è naturalmente l’Europa dove l’assunzione di una moneta comune ha comportato maldestramente la rinuncia della sovranità monetaria, creando un deficit decisionale spaventoso.

Forse sarebbe allora il caso di cominciare ad interrogarsi su questa crisi non in termini di risposte contingenti o strutturali, ma di alternative rispetto al modo di produrre e distribuire la ricchezza.

Ogni grande crisi economica ha sempre stimolato proposte alternative, cioè come cambiare sistema.

Dagli ultimi anni della Rivoluzione Francese, il socialismo ha da sempre rappresentato l’alternativa più verosimile. Forse, per la prima volta, il socialismo non rappresenta una forma alternativa per uscire dalla crisi. Se la caduta del muro di Berlino non ha rappresentato la fine della storia, ha però cambiato le prospettive del socialismo in modo drammatico.

Gli interventi alternativi proposti sono alquanto dispersi, pur avendo punti in comune come la critica al consumismo e la necessità di uno sviluppo sostenibile. Il punto centrale di queste proposte ruota attorno alla questione ecologica, per cui usiamo la definizione di eco-economia.

Fra il socialismo e l’eco-economia esistono differenze profonde sia per quanto riguarda l’agente del cambiamento e la struttura organizzativa.

Nel socialismo l’agente del cambiamento è il proletario-produttore che mette in discussione la distribuisce della ricchezza, quindi i diritti di proprietà. Il proletario-produttore ha sempre cercato di organizzarsi in forti formazioni centralizzate, cioè nei partiti.

Nell’eco-economia l’agente del cambiamento è il cittadino che nella sua veste di consumatore mette in discussione cosa e come produrre. Certo la questione della distribuzione della ricchezza è importante, ma è affrontata in chiave etica e la risoluzione del problema è affidata allo stato col sistema fiscale, i diritti di proprietà non sono in discussione. Queste proposte non sembrano però sfociare in organizzazioni stabili e facilmente riconoscibili, ma in movimenti semi-anarchici e spontaneisti, che possono sembrare più visibili, ma sono meno incisivi delle formazioni di partito, depotenziando il movimento.

2. L’alternativa cooperativa

Se escludiamo gli economisti neo-classici persi alla ricerca del Sacro Graal dell’equilibrio generale, molti grandi economisti hanno affrontato la questione del dopo capitalismo.

D. Ricardo, influenzato da R. Malthus, prevedeva un triste futuro per l‘umanità, dove i salariati non si sarebbero mai sollevati dal livello minimo di sussistenza e i capitalisti non avrebbero avuto profitti da reinvestire, erosi dalla rendita fondiaria.

Altri hanno previsto l’ascesa del socialismo, patrocinandola attivamente (Marx) o predisponendosi con rassegnazione (Schumpeter). Keynes immaginava che lo sviluppo tecnologico ci avrebbe portato ad un’oziosa beatitudine.

Vorrei soffermarmi un attimo su John Stuart Mill (1806-1873)[1] che, forse per primo, utilizzò il termine di “Stato Stazionario”.

Nonostante Mill vivesse al centro di una spettacolare crescita economica, era convinto che prima o poi si sarebbe esaurita in uno stato stazionario. Altri economisti avevano già ipotizzato l’avvento dello stato stazionario come luogo di miseria ed abbandono. J. S. Mill, al contrario, credeva che lo stato stazionario avrebbe rappresentato un considerevole miglioramento della situazione umana: “Confesso che non mi piace l’ideale di vita sostenuto da coloro che pensano che lo stato normale degli uomini sia quello di una lotta per procedere altre; che l’urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri, che forma il tipo esistente della vita sociale, sia la sorte migliore desiderabile per il genere umano e non uno dei più tristi sintomi di una fase del progresso produttivo”.

Ed ancora “Ė forse superfluo osservare che una condizione stazionaria del capitale e della popolazione non implica affatto uno stato stazionario del progresso umano. Vi sarebbe sempre altrettanto scopo per ogni specie di cultura intellettuale e per il progresso morale e sociale; ed altrettanto campo di perfezionare l’arte della vita, con una probabilità molto maggiore di perfezionarla, una volta che le menti degli uomini non fossero più assillate dalla gara per la ricchezza”.

Il punto interessante ed originale del pensiero di Mill è il passaggio dal rapporto di produzione capitalistico, basato sul salario, allo stato stazionario.

Il rapporto salariale frena la produzione perché spinge l’operaio a “ricevere il massimo possibile, in cambio del servizio minimo possibile”. Un’economia nella quale la maggioranza di chi lavora non sente lo stesso interesse di chi lavora per proprio conto, non può essere efficiente.

Per Mill però l’alternativa non è la diffusione della piccola proprietà contadina o artigiana: “Se il progresso ... continuerà il suo corso, non vi può essere dubbio che lo status di lavoratore salariato sarà a poco poco limitato a quella categoria di lavoratori le cui basse qualità morali li rendono inadatti a qualsiasi lavoro più indipendente, e che la relazione fra padroni e operai sarà poco a poco sostituita dall’associazione, nelle due forme, in alcuni casi dell’associazione dei lavoratori col capitalista e in altri, forse alla fine di tutti, dell’associazione dei lavoratori fra di loro stessi”.

Mill definisce la prima forma “compartecipazione” e la seconda, destinata ad affermarsi, è l’impresa cooperativa dove sono i “... lavoratori stessi su un piede di uguaglianza, che possiedono collettivamente il capitale col quale essi conducono le loro operazioni e lavorano sotto direttori eletti e destituibili da loro stessi”.

L’esperienza cooperativa maturata in Francia durante la rivoluzione del 1848 aveva fortemente condizionato l’opinione di Mill, perché non vi vedeva una sperimentazione sporadica ma un movimento già consolidato. La fiducia di Mill riposta nel movimento cooperativo era enorme: “Dal graduale progresso del movimento cooperativo, ci si può attendere anche un grande aumento della produttività complessiva dell’industria. [...] Non è possibile sopravalutare questo beneficio materiale, che tuttavia è nulla in confronto alla rivoluzione morale della società che lo accompagnerebbe”.

Non è mia intenzione discutere perché la ricetta alternativa di Mill non abbia funzionato (egli stesso non mancò di indicare alcuni processi degenerativi che già emergevano nelle cooperative e che oggi definiamo come demutualizzazione), quanto piuttosto capire se l’alternativa cooperativa possa essere rimessa all’ordine del giorno.

Oggi, fra le proposte che stanno diffondendosi, c’è quella di Noreena Hertz e la sua idea di Coop Capitalism[2]. L’autrice è fermamente convinta che questa crisi stia “... facendo spazio a un modello che sarà radicalmente diverso dalla carneficina in atto”.

I presupposti per il superamento del Gucci Capitalism (“... dove non avere l’ultimo paio di scarpe della Nike o l’ultima borsa di Gucci era diventato molto più vergognoso che avere debiti ...”) sono fondamentalmente tre:

1) la vecchia ideologia è stata screditata sul piano intellettuale;

2) i Governi adesso hanno il mandato ad intervenire;

3) l’ascesa di paesi con mentalità diverse.

L’ottimismo della Hertz ci apre onestamente esagerato:

a) l’ideologia neoliberista ci pare tutt’altro che sconfitta (nonostante siano aumentate le vendite dei libri di Marx) ed il potere dell’industria finanziaria sia ben lungi dall’essere ridimensionato;

b) la fiducia delle persone verso i Governi ci pare una illusione e i movimenti antipolitici sono in crescita;

c) paesi come Cina, India o Brasile indubbiamente rivendicano un maggior peso verso i paesi occidentali, ma ci sembrano ben lungi da mettere in discussione la globalizzazione (da cui hanno tratto indubbi vantaggi).

L’autrice cita diverse esperienze che andrebbero verso i Coop Capitalism, ma non ci pare chiaro se siano veramente nuovi modi di produrre o modi di adattarsi alla caduta del benessere.

In sintesi ci sembra che le idee della Hertz non centrino l’obiettivo di promuovere una Economia delle Imprese Cooperative.

Il cooperativismo propone una diversa strutturazione dei diritti di proprietà, senza però annullarli nella proprietà pubblica come nel socialismo, ma assoggettandoli ai soci produttori e non al capitale. Il lavoratore-proprietario non è motivato dalla massimizzazione del profitto, ma del proprio benessere e una economia cooperativistica è compatibile con i fondamenti della produzione eco-sostenibile. Le cooperative si sono date strutture di rappresentanza, ma come ha dimostrato G. Melniyk[3] la necessità di sopravvivere sul mercato capitalistico tende a snaturarne l’aspetto comunitario.

Esiste ancora una possibilità o una speranza in questa direzione?


[1] Tutte le successive citazioni di Mill sono tratte da J. S. Mill – Principi di economia politica – 1962 Utet - Libro IV capitoli VI e VII.

[2] N. Hertz – Co-op Capitalism. A new economic model from carnage of the old – 2011 a cura di Co-operatives UK. L’espressione Coop Capitalism ci pare comunque ambigua e la stessa autrice sembra avvalorarne interpretazioni diverse Se Capitalismo Cooperativo significa mettere “... al centro valori di cooperazione, collaborazione, coordinamento, comunità e comunicazione” come scrive la Hertz, allora il risultato ci sembra un “capitalismo dal volto umano”. Diverso è se intendiamo Capitalismo delle Cooperative, per coniugare i vantaggi del mercato (sebbene fra Capitalismo e Mercato non ci sia una relazione biunivoca) con una forma di impresa con una diversa distribuzione dei diritti di proprietà.

[3] George Melnyk – The Search for Community. From Utopia to a Co-operative Society – 1985 Black Rose Book

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Commenti

cooperazione


Ci sono parecchi giornali (locali) gestiti da cooperative di lavoratori. La Rai (in tutta o in parte) non potrebbe essere di proprietà e gestita dagli utenti?

cooperativismo e socialismo

Jossa, citato anche nell'intervento di Cavallaro, sostiene che un'economia con prevalenza di cooperative realizzerebbe una forma di socialismo, per la precisione un SOCIALISMO DI MERCATO. Infatti i rapporti tra le classi sarebbbero invertiti: nel capitalismo il capitale assume il lavoro, paga ad esso un prezzo fisso (salario) e si appropria del sovrappiù (profitto); nel socialismo autogestionario invece il lavoro assume il capitale (nel senso che si fa prestare i soldi), paga un prezzo fisso (interessi) e si appropria del sovrappiù (che resta alla copperativa o viene distribuito tra i lavoratori).
A proposito, avete mai sentito parlare di autogestione alla televisione o sui giornali? Io mai. Gli imprenditori sono terrorizzati dall'eventualità che la gente possa pensare che i lavoratori sarebbero in grado di gestire le imprese meglio di loro!

A proposito dell'articolo di Antonio Zanotti


La domanda che si pone e ci pone Antonio Zanotti mi sembra del tutto appropriata.
L'intervento di Zanotti presenta però, a mio parere, un limite: esso infatti prende in considerazione soltanto la cooperazione di lavoro. Invece, è mia convinzione, che le potenzialità della cooperazione sono assai più vaste.
Credo, in altri termini, che occorra tener conto del lavoro ma, accanto ad esso, dell'insieme dei bisogni di cui sono portatori gli uomini e le donne. Le persone infatti hanno esigenze assai variegate e sono molti i casi in cui lo strumento cooperativo può rivelarsi quello più adatto per rappresentarle e, contemporaneamente, per soddisfarle.
Ho in mente sia la cooperazione tra consumatori e utenti sia quella tra produttori.
Mi soffermo solo sulla prima. La cooperazione di consumo e quella di abitazione sono state ( e tuttora sono) le forme attraverso cui molte persone (con bisogni simili) hanno potuto soddisfare meglio esigenze che il mercato dato non era in grado di rappresentare efficacemente. Non solo, grazie alla loro azione, queste cooperative hanno concorso, in più occasioni, a modificare i riferimenti del mercato costringendo anche le altre imprese a modificare i loro comportamenti nell'interesse appunto dei consumatori.
Prendere consapevolezza di ciò permetterebbe di esplorare nuove forme di protagonismo (economico e sociale) degli utenti. Solo a titolo di esempio: nel dibattito in corso riguardante la possibile privatizzazione dei servizi pubblici locali o di altri servizi pubblici rilevanti, che è oggi monopolizzato dall'alternativa secca pubblico o privato, è proprio impensabile che questi vengano gestiti dagli utilizzatori attraverso cooperative tra utenti?
Riscoprire la cooperazione significa, a mio parere, far fare un passo in avanti al dibattito che ancora oggi si concentra sulla semplice alternativa Stato-mercato così come l'abbiamo vissuta sin quì; significa assumere che un mercato popolato da realtà imprenditoriali diversificate sarebbe diverso da quello a cui siamo abituati. Di esso infatti dventerebbero protagonisti anche i diretti portatori di bisogni comuni. Un simile mercato non comporterebbe il venir meno delle politiche pubbliche ma certamente ne richiederebbe una diversa articolazione.

ricominciamo da tre

Sono personalmente convinta che la strada della cooperazione sia, in questo momento, particolarmente interessante, se però, ci si sforzi di andare avanti su alcuni noccioli della questione.
L’assunto teorico che sta alla base del modello cooperativo/di impresa autogestita dai lavoratori è che i lavoratori che gestiscono l’impresa in prima persona scelgano razionalmente di massimizzare il reddito di impresa per lavoratore.
Questo è teoricamente molto facile da dimostrare se si opera nelle condizioni in cui il capitale di cui e’ dotata l’impresa sia acquisito all’esterno, attraverso contratti che ne definiscono chiaramente la remunerazione (salario del capitale?/interesse?).
In sostanza i lavoratori, data la tecnologia e dati i costi (tra cui e’ possibile annoverare anche una salario minimo definito equo e di base per i lavoratori), hanno il potere di definire come utilizzare l’utile di impresa: se ad investimenti, se ad incremento dei salari monetari, se a servizi per i lavoratori e/o per la comunità in cui si trovano (asili, scuole, trasporti, etc.). Ma né i lavoratori ne' coloro che conferiscono il capitale per avere in cambio una remunerazione data, posseggono i beni capitali di impresa, che sono un patrimonio comune dei lavoratori e della comunità da manutendere con la necessaria cura perché continui a dare i suoi frutti.
Nel modello puro parlare di lavoratori o di soci e’ irrilevante, perché le due cose coincidono, non essendo previsto che esistano nell’impresa lavoratori che NON godono dello stesso diritto di quelli che nelle cooperative sono i soci.
La teoria conclude che questo modello di impresa porta con sé alcune conseguenze non da poco: la tendenza a una dimensione di impresa più piccola dell’impresa capitalista, la scelta di tecnologie a più alto utilizzo del fattore lavoro rispetto ad altri fattori di produzione, la condizione di non avere le necessità imprescindibile di crescita della quantità prodotta (a parità di tecnologia – infatti questo comporterebbe un contestuale aumento della quantità di lavoro che, sino al raggiungimento di un livello esattamente multiplo della produzione, si traduce in una riduzione e non un aumento del reddito medio di impresa per lavoratore). Quello che viene chiamato una scarsa elasticità in particolare del fattore lavoro, sia in condizioni di crescita che di recessione (tendenza a non ridurre il fattore lavoro che sopporta pero’ una riduzione del reddito).
La tendenza delle imprese per far fronte ad un aumento di domanda sarebbe invece più quella di una gemmazione di nuove imprese sul territorio che la tendenza alla costruzione di grandi stabilimenti, gemmazione che avrebbe il suo senso solo in presenza dell’esistenza, territoriale, di una domanda (Mance).
Questo ha ancora alcune conseguenze: la vicinanza tra produzione e distribuzione e la vicinanza tra produzione e vita sociale. I lavoratori e i consumatori sono collocati in un territorio che non prevede più (necessariamente) di produrre in Cina ciò che viene consumato in Italia, e quindi chi produce e chi compra affronta anche le medesime ricadute in termini di esternalità, positive e negative, come l’inquinamento territoriale.
Poiché la figura del produttore e del consumatore (o dello stakeholder se ragioniamo in termini di sostenibilità sociale) sono però in questo caso più vicine a una ricomposizione (e questa ricomposizione della figura sociale della persona nelle sue diverse funzioni è ciò che rende coerente questo modello con la nostra Costituzione e ne giustifica l’attenzione, e deriva in parte dal pensiero “personalista” di Mounier e Maritain che è alla base del valore che anche i cattolici danno a questo modello di impresa), sarebbe ragionevole attendersi una maggiore cautela anche nelle scelte tecnologiche e una migliore valutazione dei loro effetti. Per non dire del ragionamento su orari di lavoro, tipo di investimenti, ricerca etc. etc.

Tuttavia la prassi, prima ancora della teoria, dei casi di evoluzione di questo modello nella sua concretezza storica, ci dimostrano, nel bene e nel male, che:
il processo decisionale interno all’impresa e’ parte delle condizioni di efficacia ed efficienza di questo modello. Vanek prospetta un modello di apprendimento e di decisione dialogico (Freire) in questo riconnettendosi al pensiero e all’azione di Mance e di Solidarius e del progetto Fame Zero in Brasile;
per evolvere senza mutare la propria natura il modello deve poter modificare la struttura del contesto in cui opera, ovvero deve avere delle strutture istituzionali coerenti e adeguate.
Limitare tali strutture al solo aspetto finanziario non è sufficiente: istruzione, apprendimento permanente, ricerca e capacità di management istituzionale, innovativo e cooperativo/comunitario sono indispensabili. E possono essere costituite secondo lo stesso modello autogestito (Mondragon) ed invertendo l’ordine di priorità (la domanda crea la sua offerta).

L’esperienza cooperativa, in Italia, non è una novità, anzi è una quota di mercato (tra agricoltura, industria e servizi) che sta mostrando di resistere alla crisi (sia dal punto di vista occupazionale che dal punto di vista della resistenza di impresa), in modo migliore di quanto non accada per altre forme societarie. Ma c’e’ distanza tra la teoria presentata e la prassi, a seconda del settore, della grandezza della cooperativa, della consapevolezza con cui e’ stato scelto quel modello di impresa. In particolare la distanza si misura su tre temi fondamentali: la presenza, accanto ai soci, di dipendenti a vario titolo e contratto (la cui partecipazione all’impresa si muove spesso nella stessa logica delle imprese cosiddette capitaliste), il modello decisionale effettivo (al di là della poesia della famosa logica “una testa un voto”) che viene esercitato tra i soci dell’impresa, il tipo di capitalizzazione dell’impresa. La scelta di resistere nel, piuttosto che modificare il, contesto nin cui si opera. Complice forse, in questo caso, la storia della sinistra, troppo a lungo sospettosa verso questo modello alternativo al capitalismo ma pur sempre creatore di mercato.
Pur avendo performance che, appunto, come atteso dal punto di vista teorico, salvaguardano meglio l’occupazione in situazioni di crisi (minore elasticità dei fattori di produzione, in particolare del lavoro dei soci/lavoratori), le caratteristiche di sostenibilità ambientale, sociale ed economica sono ben lontane da quanto prospetterebbe la teoria. Quanto dipendono dal modello decisionale e formativo e dal contesto di finanziamento in cui si sviluppa l’impresa?.

In Italia si e’ occupato in modo particolare della teoria e della storia del movimento dell’autogestione di impresa da parte dei lavoratori B. Jossa. Le esperienze del Brasile, dell’Argentina e la sempre studiata esperienza di Mondragon (enclave dei Paesi Baschi e oggi comunità cooperativa che opera a livello transnazionale), compreso il contributo economico teorico dato a questa riflessione da autori quale Ward (1958)e Vanek (1970 e 2000) consentono di costruire interessanti paralleli tra la teoria e la pratica più storicamente fondata di movimenti cooperativi e le nuove elaborazioni e prassi presentate, elaborate e praticate dalle diverse comunità con autori di riferimento quali Euclides Mance in Brasile o Luiz Razeto in Chile. Ma è un terreno di ricerca e di sperimentazione ancora da scoprire. Ripartendo da...tre, e facendo memoria di quasi due secoli di storia.

luigi@fasce.it

<Le cooperative si sono date strutture di rappresentanza, ma come ha dimostrato G. Melniyk[3] la necessità di sopravvivere sul mercato capitalistico tende a snaturarne l’aspetto comunitario.>
Certamente è così ma perchè le leggi come la Marcora degli anni 80 conseguentemente ai dettami della Costituzione italiana consentivano di privilegiare con contributi e agevolazioni fiscali le forme cooperative di impresa (anche la DC era per le cooperative perfetttamente cooerente alla dottrina sociale dellla chiesa cattolica), ebbene agevolazioni di legge dissolte dagli anni 90 de secolo scorso a partire dal trattato di Maastricht che ha avviato la dittatura della competizione neoliberista in Italia e in Europa questo con i socialisti al governo in 13 stati dell'U.E: e i governi di destra dichiaratamente neoliberisti-tecon. Il PSE in appoggio a tutti i governi di sinistra, a cominciare da Hollande, perchè si modifichino i trattati neoliberisti-teocon vigenti e egemoni e il successivo ripristino della Costituzione italiana titolo terzo parte economica, potrebbe consentire, per rispondere al punto interrogativo dell'ultima frase dell'articolo, una lunga e proficua rinascita dell'impresa coopertivista, s'intende, ecologicamente compatibile.
Per approfondimento dell'argomento vedasi in www.circolocalogerocapitini.it - sotto argomento - autogestione ogestione impresa.