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Contro lo scambio ineguale

08/03/2012

Le ragioni del nostro sostegno alla manifestazione della Fiom Cgil per i diritti, la democrazia e il lavoro, nell'editoriale dell'inserto “Democrazia al lavoro” de il manifesto e Sbilanciamoci!

Far arrivare la democrazia nel lavoro non è mai stato facile. Quando i rapporti di forza tra capitale e lavoro erano diversi da quelli di oggi, una spinta di base aveva «imposto» l’unità ai sindacati dei metalmeccanici e costruito una democrazia nei luoghi di lavoro fondata sui delegati eletti dai lavoratori; ad essi era affidata una rappresentanza, revocabile qualora non avessero onorato queste funzioni.

Si chiamava «democrazia di mandato» e la si voleva estendere nella società intera: una pratica di democrazia diretta da diffondere nel corpo del paese. Quarant’anni più tardi, ai lavoratori viene tolto diritto di parola e rappresentanza, i sindacati sono divisi, si cancellano i contratti di lavoro nazionali e si procede alla privatizzazione del diritto del lavoro con una delega totale alle parti sociali.
Le leggi fondamentali – lo Statuto dei lavoratori e la Costituzione – sono sul banco degli imputati per il principio da cui partivano: la necessità di tutelare il lavoro di fronte al potere delle imprese. Di fronte all’asimmetria tra capitale e lavoro, tra ricchi e poveri, la politica un tempo interveniva per riequilibrare i rapporti, far funzionare il sistema. Oggi la politica pensa che basti lasciar fare al mercato, anche se la merce che si scambia è il lavoro umano. Un mercato del lavoro presentato come neutrale, dove le parti – imprese e lavoratori – appaiono libere e uguali: nessun bisogno quindi di regole, tutele, sindacati con una visione diversa della giustizia.
Anche questo modello è nato in una fabbrica laboratorio, la Fiat di Pomigliano d’Arco, appena un anno e mezzo fa. Si è cominciato con la sospensione della democrazia a Pomigliano, poi è arrivata a Mirafiori, poi a tutti gli stabilimenti Fiat, poi al settore dell’auto; ora la sfida è per tutti i metalmeccanici e, in prospettiva, per tutti i posti di lavoro. La democrazia è il modo in cui si confrontano posizioni diverse, anche in conflitto, rappresentative di soggetti, classi, persone, in un sistema di regole certe e condivise, sulla cui base effettuare le scelte. Oggi si vuole rimpiazzare tutto questo con accordi di mercato, scambi ineguali tra la forza delle imprese e la debolezza di lavoratori sempre più precari. Questo modello lo si vuole poi stendere a tutta la società, sostituendo gli uguali diritti con il gioco di interessi asimmetrici. E, in un contesto di straordinaria crisi istituzionale e della rappresentanza, la tentazione sarà di estenderlo anche alla politica, cancellando lo spazio per forze che non siano assorbite dal “pensiero unico” e da una visione della politica come pura “tecnica” di governo.
Con l’Italia e l’Europa in recessione, con oltre 800 mila posti di lavoro a rischio, con un declino produttivo iniziato vent’anni fa, con disuguaglianze record, pensare che il mercato possa far ripartire il paese è un’illusione, pensare che l’occupazione si crei perché si cancella la tutela dai licenziamenti è un inganno. Ma di illusioni e inganni si nutrono le operazioni politiche. La crisi di oggi – come quella degli anni trenta – mette alla prova la democrazia e, come sempre, va affrontata con una pratica più larga della democrazia: nei conflitti di lavoro, nelle proteste dei movimenti sociali, nella partecipazione a livello locale, nelle pratiche che ricostruiscono relazioni sociali e progetti di cambiamento. Ai principi e alla pratica della democrazia vanno poi date le gambe di un’economia diversa, di un lavoro meno precario, più qualificato, con salari dignitosi, utile alle persone e non solo ai profitti delle imprese, capace di proteggere l’ambiente, invece di devastarlo.
Difendere diritti e dignità dei lavoratori, praticare la democrazia e progettare un’economia diversa sono una responsabilità di tutti. Per questo la manifestazione nazionale della Fiom è la nostra manifestazione.

 

• Intervista a Gallino: tutti gli esuberi del finanzcapitalismo di Giuliano Battiston

 

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Commenti

Liberarsi dalla “sindrome Mirafiori”...

Il passaggio dalle vecchie "commissioni di fabbrica" ai consigli di fabbrica è stato in qualche modo imposto dalle lotte operaie ai sindacati -che ricordo eranono tutti "cinghie di trasmissione"- !!
In questo passaggio alle volte gli operai sono stati aiutati dalla Fim, alle volte dalla Fiom. Dipendeva dagli assetti politici.
A fine degli anni '80 ci fu la restaurazione dei sindacati, e l'accordo del 93 sancisce questo. Si è tornati alla politica della concertazione più stringente ed autoritaria da parte del vertice sindacale.
In questa deriva autoritaria la triade CGIL-CISL-UIL erano ampiamente concordi, anzi incoraggiavano questo processo.
La pratica di democrazia consigliare degli operai NON si è mai estesa agli apparati sindacali, e le cariche in questi apparati sono state sempre di nomina partitica (il manuale cencelli nel sindacato), per cui poteva succedre che un "chimico" dirigesse un settore metalmeccanico, un ragioniere il settore chimico.
I partiti usarono sempre i sindacati smaccatamente per scopi elettorali.
Quindi dal punto di vista operaio le differenze erano nulle.

In questa fase la FIOM ha alcune reminescenze e si colloca a fianco degli operai e della democrazia operaia.
Gli altri sindacati si sentono "traditi" e a ragione, ma per gli operai (non solo metalmeccanici) oggi si sentono più in sintonia col la FIOM, essa è dentro la loro storia.
Un ex operaio FIAT.

Liberarsi dalla “sindrome Mirafiori”

Penso che sia arrivato il momento di uscire da una certa retorica per cui la Fiom-Cgil è sinonimo di democrazia nel lavoro, e guardare in faccia la realtà per quello che è, non per come ce la immaginiamo.
Personalmente ho vissuto in fabbrica il tempo in cui “i rapporti di forza tra capitale e lavoro erano diversi da quelli di oggi, una spinta di base aveva «imposto» l’unità ai sindacati dei metalmeccanici e costruito una democrazia nei luoghi di lavoro fondata sui delegati eletti dai lavoratori; ad essi era affidata una rappresentanza, revocabile qualora non avessero onorato queste funzioni”.
Va aggiunto che questa rappresentanza (il delegato unico di gruppo omogeneo) presupponeva una forte unità tra i sindacati e un’altrettanta autonomia nei confronti dei gruppi e partiti politici. Nel momento che questi ultimi rivendicarono, (soprattutto il PCI dopo la grande manifestazione nazionale FLM del 2 dicembre 1977) di pesare nei consigli di fabbrica e negli organismi dirigenti unitari (direttivi e segreterie) per appartenenza politica e non per rappresentatività delle istanze dei lavoratori, quella stagione fu progressivamente sepolta.
Non è concesso un salto logico così ampio per cui, attraverso una ricostruzione storica un po’ “staliniana”, la Fiom di Landini sarebbe l’unica in continuità con quella “fantastica” stagione e il resto del sindacalismo, una massa informe fatta di devianze (il cosiddetto sindacalismo di base), o di tradimenti (Fim e Uilm, ma anche l’insieme del sindacalismo confederale).
L’unica verità incontestabile scritta nell’articolo è che “quarant’anni più tardi [...] i sindacati sono divisi”, mentre è alquanto opinabile che siano stati cancellati i contratti di lavoro nazionali. La realtà dimostra che, nonostante la crisi economica globale e la stagnazione della produttività in Italia (così bene analizzate sul sito di Sbilanciamoci), il sistema contrattuale su due livelli (il CCNL + la contrattazione di 2° livello) è stato salvaguardato finanche nel Gruppo Fiat e tutti i contratti nazionali nei settori privati sono stati rinnovati unitariamente (seppure con modesti risultati normativi e con miglioramenti salariali solo in linea con l’inflazione). Il contratto dei metalmeccanici è l’unico non firmato dalla categoria della Cgil. L’eccezione non può essere spacciata come dato universale. Così come non si può affermare indirettamente che i contratti collettivi nazionali esistono solo se li firma la Fiom.
Semmai è vero il contrario: se avessimo seguito la linea della fiom, i lavoratori metalmeccanici a oggi non avrebbero rinnovato alcun contratto collettivo nazionale. Se l'opzione adattiva della Fim e Uilm ha acquisito benefici modesti (comunque simili o superiori se comparati con quelli ottenuti insieme alla Fiom nel recente passato), quella resistenziale-difensiva della Fiom finora non ha difeso nulla.
Per quanto riguarda il diritto di parola e rappresentanza, nel caso Fiom alla Fiat, abbiamo sempre sostenuto pubblicamente come Fim-Cisl che anche i sindacati che non firmano i contratti debbano essere rappresentati in fabbrica. E’ un problema che va affrontato e risolto.
Per farlo bisogna, per prima cosa, capire perché sia stato possibile giuridicamente (oltre che politicamente) la messa “fuori gioco” della Fiom dalla Fiat. In secondo luogo bisogna finirla con la retorica della “democrazia sospesa” a partire dall’accordo di Pomigliano.
Sul primo aspetto, quello inerente le regole della rappresentanza sindacale (Rsu), in realtà non è cambiato nulla rispetto a quanto stabilito dall’accordo firmato unitariamente nel 1993 da Cgil-Cisl-Uil e Fim-Fiom-Uilm con Confindustria e Federmeccanica. Per tutti i lavoratori e per tutte le categorie, il sistema elettorale prevede la ripartizione in base ai voti proporzionalmente ottenuti nel seguente modo:
• 2/3 dei rappresentanti tra tutte liste sindacali;
• 1/3 dei rappresentanti tra le liste delle organizzazioni sindacali firmatarie dei contratti nazionali.
In conformità a queste regole i sindacati non firmatari dei CCNL (Cobas, Slai-Cobas, Flmu-Cub ecc.) sono stati sempre esclusi dalla ripartizione della quota di 1/3.
L’unica novità è che dal 1° gennaio 2012 anche la Fiom-Cgil non è firmataria del CCNL e, di conseguenza, esclusa dalla quota di 1/3. E’ curioso che quello che era accettato fino a ieri per altri sindacati, diventi un problema costituzionale e di democrazia, quando a essere esclusa - secondo le regole vigenti - è la Fiom.

Tra l’altro i dirigenti della Fiom dovrebbero ricordare che quando disdettarono nell’autunno 2009 il patto di solidarietà con Fim e Uilm, a seguito del rinnovo contrattuale separato, proponemmo come Fim-Cisl di passare a un sistema proporzionale puro per l’elezione delle Rsu, senza che ci fu una disponibilità a ridefinire nuove regole unitarie.

Per quanto riguarda il Gruppo Fiat, non essendo quest’ultima più iscritta a Confindustria, la norma che si applica per le rappresentanze sindacali è quella prevista dallo “Statuto dei Lavoratori”, Legge 300/1970 all’art.19 e fa riferimento alla Rappresentanza Sindacale Aziendale (Rsa). Prima del 1995, non era necessario che i sindacati come la Fiom - aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative su scala nazionale - fossero firmatarie del contratto applicato in azienda per aver diritto alla nomina della Rsa. Fu in quell’anno a seguito del referendum abrogativo di una parte della norma contenuta nell’art.19, promosso dalla Fiom e dalla minoranza Cgil, che si restrinse ulteriormente il diritto. Ricordo, per onestà intellettuale, che il sindacalismo di base era stato promotore di un referendum abrogativo di tutto l’art.19, che se avesse raggiunto il quorum avrebbe costretto il legislatore a re-intervenire sulla materia. La Cisl, contraria dalle origini alla regolazione per legge della rappresentanza sindacale, non condivise neppure quei referendum, rimanendo coerente con un’idea associativa di sindacato, la cui unica fonte di legittimazione sono i propri iscritti.

La cosa che più sorprende, in tutta questa vicenda, è che questo gruppo dirigente della Fiom non fa mai i conti con i propri errori e con le proprie responsabilità.

E qui arrivo al secondo punto inerente all’accordo di Pomigliano. A distanza di tempo bisognerebbe, giudicandolo, almeno dimostrare di averlo letto. Si possono avere buone ragioni per criticare i contenuti di un accordo, a tratti, “prescrittivo” (come l’ha definito Pierre Carniti). Un accordo sindacale di concessione su turni, straordinari, pause e malattia, per garantire - in un sito destinato a chiudere - un investimento di rilocalizzazione produttiva e migliaia di posti di lavoro. E’ legittimo contestare la natura di questo scambio, purché non si faccia solo quando di mezzo c’è la Fiat (vedi recente accordo con Finmeccanica allo stabilimento aeronautico di Nola e centinaia di accordi firmati in tutta Italia dalla Fiom).
E’, però, alquanto azzardato tirare in ballo la legittimità costituzionale dell’accordo su Fabbrica Italia Pomigliano (vedere sentenza del giudice del tribunale di Torino, Vincenzo Ciocchetti), o parlare di sospensione della democrazia. A Pomigliano, con tutti i suoi limiti, il processo negoziato - accordo - consultazione Rsu - referendum lavoratori ha seguito le normali procedure gestite sindacalmente in tutte le vertenze aziendali. Semmai ci sarebbe da discutere di certe ambiguità della Fiom sia sull’indicazione di voto (non dello Slai-Cobas il cui No è stato sempre chiaro), sia della validazione dell’accordo dopo il referendum accettando l’esito del voto. Non ci si può coprire dicendo che il voto dei lavoratori non era libero perché condizionato dal ricatto occupazionale.
In tutte le migliaia di aziende in cui si chiamano a decidere i lavoratori su accordi di ristrutturazione e crisi aziendali, cassa integrazione e mobilità ecc. questa condizione è presente. Non si capisce, anche in questo caso, perché quando c’è di mezzo la Fiat e si è attorniati dalle telecamere le stesse cose assumono un contorno epico.
Liberarci da questa “sindrome di Mirafiori” è forse la precondizione per tornare a quell’azione di base verso l’unità dei lavoratori, che l’articolo richiama con molta “saudade”.