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I beni comuni per uscire dalla crisi

29/09/2011

Un estratto dal saggio di Enrico Grazzini “Il bene di tutti. L'economia della condivisione per uscire dalla crisi”, Editori riuniti, 2011

 

Non esistono alternative o scorciatoie. Per uscire dalla crisi occorre innanzitutto creare e sviluppare un'economia policentrica fondata principalmente sull'autogestione dei beni comuni – ovvero dei beni che per loro natura non possono non essere condivisi, come le scienze, Internet, l'informazione, l'ambiente e il territorio, l'aria e l'acqua, la moneta, le reti di comunicazione e di trasporto. Né le forze di mercato né l'intervento pubblico da soli potranno risolvere i problemi che ci hanno portato alla duplice crisi economica ed ecologica: anzi è inevitabile che il mercato e l'intervento pubblico aggravino ulteriormente i problemi già drammatici. Occorrerà piuttosto promuovere l'economia della condivisione e forme di gestione democratica dei beni condivisi da parte delle comunità interessate.

Paradossalmente anche nelle società avanzate si sta riproponendo in forme nuove e originali un problema antico come l'umanità, perché la storia dell'economia inizia con i beni comuni, ovvero con i beni condivisi dalle comunità locali. Attualmente però i commons hanno una dimensione globale oltre che locale. Infatti alcuni beni comuni, come innanzitutto le conoscenze e le risorse ambientali, hanno assunto un'importanza vitale per l'economia e la società globale.

La grande scoperta del premio Nobel per l'economia Elinor Ostrom è che le comunità organizzate possono essere in grado di regolamentare efficacemente l'uso dei beni comuni a vantaggio di tutti. Se si danno autonomamente delle norme e riescono a sanzionare i trasgressori, e se possono svilupparsi senza essere represse e cancellate dallo stato e dalle corporation, le comunità auto-organizzate sono in grado di consolidarsi, adattarsi alle variabilità di contesto e riuscire a salvaguardare nel tempo i beni comuni. Al contrario la privatizzazione dei commons comporta lo spreco di risorse preziose, gravi inefficienze e alla lunga dinamiche non sostenibili. Anche la statalizzazione dei beni pubblici genera gravi inefficienze, burocratismo, privilegi e corruzione, e alla lunga il degrado e la non sostenibilità.

Ostrom centra la sua attenzione sulle comunità autogestite e su una nuova forma di proprietà, quella comunitaria, che si affianca alla proprietà privata e statale. Peter Barnes, imprenditore sociale e profeta dichiarato dell'utopia post-capitalista, fa un passo in avanti decisivo sul piano delle proposte organizzative nel campo dell'economia dei commons. Per Barnes l'economia capitalista espropria e mette a profitto a beneficio di pochi privilegiati i beni comuni, siano essi culturali (come la musica popolare, Internet, le conoscenze scientifiche); sociali (come le istituzioni pubbliche, le scuole e le strade) o naturali (come l'aria, la terra, l'acqua, le frequenze): tuttavia l'economia basata sul profitto, non solo allarga la forbice sociale tra i ricchi e i poveri, ma diventa insostenibile nel tempo.

Il problema consiste nel fatto che il capitalismo sfrutta gratuitamente i beni ambientali, sociali e culturali comuni senza curarsi degli interessi delle comunità e senza neppure pagare prezzi adeguati. Le aziende da un lato si appropriano gratuitamente o a basso prezzo dei commons pregiati (che considerano “esternalità positive”), per esempio il legname delle foreste, mentre dall’altro scaricano sulla società i costi ambientali e sociali, cioè le cosiddette «esternalità negative» legate, per esempio, alla desertificazione del suolo. Da qui la necessità della costituzione di un terzo settore economico no profit autonomo dal mercato e dai governi: il nuovo terzo settore dovrebbe avere la proprietà formale dei commons, prezzarli considerando anche le “esternalità negative” (e quindi per esempio la necessità di rinnovare le risorse), e soprattutto gestirli in un'ottica di lungo periodo a favore delle comunità interessate e del bene comune.

Secondo Barnes, le istituzioni più adatte a gestire i commons sono le fondazioni, ovvero enti privati senza scopo di lucro dedicati a raggiungere un unico obiettivo fissato dal loro statuto, come la salvaguardia e la valorizzazione di un bene comune. Le forme societarie relative alla proprietà condivisa possono però essere molteplici: l'aspetto fondamentale è che le organizzazioni economiche che controllano i commons – siano esse fondazioni o cooperative, o consorzi, o società per azioni no profit, o società miste o altro ancora – vengano gestite in maniera democratica dalle comunità interessate e dagli altri eventuali partner.

La salvaguardia e la valorizzazione dei commons da parte delle società no profit eviterebbe la catastrofe ambientale, sociale e culturale che il capitalismo speculativo spontaneamente genera nella sua corsa dissennata al profitto. È possibile proporre l'istituzione di enti no profit a diversi livelli: locale; regionale; nazionale; globale. Quello di Barnes non è però un sogno a occhi aperti. Internet per esempio è già la principale organizzazione globale no profit, non privata né statale ma gestita direttamente dalla comunità scientifica in collaborazione con gli utenti, i governi e le società private; e le fondazioni governano già il free software, l'open source, Wikipedia, il browser Firefox, e Creative Commons, l'organismo che gestisce i diversi livelli di copyright. Esistono anche numerose fondazioni che salvaguardano i parchi, le foreste e la natura, o che gestiscono beni culturali – come quella che eroga i premi Nobel o la fondazione “Guggenheim”. Queste organizzazioni impiegano i loro patrimoni non per remunerare i proprietari o gli azionisti – come avviene nelle società private – ma per raggiungere lo scopo sociale fissato dal loro statuto.

In Italia, le fondazioni di origine bancaria hanno un ruolo di primaria rilevanza perché controllano i maggiori istituti bancari e finanziano attività preziose nel campo della cultura, della ricerca, della conservazione dei beni artistici, dei servizi sociali. Particolarmente in Italia, le fondazioni hanno, quindi, un ruolo estremamente importante e positivo per quanto riguarda la stabilità del sistema bancario, dei territori e delle comunità civili. Probabilmente si deve alla natura no profit delle fondazioni bancarie il fatto che le banche italiane siano rimaste coinvolte meno delle altre sorelle estere nella speculazione sui derivati. Ed è senz'altro positivo che parte dei profitti realizzati dalle banche siano investiti nella cultura e nel sociale grazie all'attività delle fondazioni. La soluzione alla crisi economica passa anche per la diffusione e il potenziamento delle fondazioni e delle banche cooperative.

Nel campo strategico della conoscenza, in particolare quella finanziata con soldi pubblici, è possibile proporre la creazione di fondazioni costituite da scienziati, ricercatori, università e istituti di ricerca ai diversi livelli, che gestiscano direttamente e autonomamente l'accesso ai brevetti sulle loro invenzioni. Le fondazioni dovrebbero avere l'obbligo di licenziare le loro scoperte a tutti senza discriminazioni, e a prezzi convenienti e accessibili, con l'obiettivo di diffondere le conoscenze e di utilizzare i ricavi per sviluppare ulteriormente le ricerche pubbliche, per esempio sulle energie rinnovabili. Spesso però le istituzioni no profit sono considerate marginali e vengono perfino denigrate e attaccate prendendo a pretesto fallimenti, errori e difetti, semplicemente perché non sono istituzioni di mercato e non rispondono ai criteri ideologici del neoliberismo imperante. Occorrerebbe invece creare le condizioni migliori per promuovere la democrazia e la partecipazione diretta al loro interno, per svilupparle ed estenderle e per metterle al centro della politica economica.

L'economia della condivisione suggerisce che l'ambiente, le conoscenze, l'informazione dovrebbero essere gestite dalle comunità interessate. La sharing economy non ripropone tuttavia l'utopia dell'autogestione dell'economia proposta nel secolo scorso dalla sinistra comunista e socialista. A parte l'esperienza generalmente positiva delle cooperative di lavoratori, l'utopia generosa e nobile dell'autogestione della produzione ha finora avuto esiti a dir poco sfortunati. I consigli operai di gestione, nati durante le diverse crisi del capitalismo in differenti paesi, hanno infatti avuto vita breve, e i soviet del comunismo sono sfociati nella dittatura di partito sulla classe operaia e sulle classi popolari.

La realtà economica e sociale attuale è molto diversa e, per molti aspetti, più positiva: nella società della conoscenza prevalgono infatti, anche numericamente, i knowledge worker, una classe che controlla un mezzo di produzione intangibile ma fondamentale, e che ha, e avrà sempre di più, le competenze e la capacità di gestire i beni comuni più pregiati, le conoscenze, l'informazione e l'ambiente. I knowledge worker rappresentano infatti, nelle economie avanzate, la quota maggioritaria di lavoratori – generalmente oltre il 40 per cento del totale degli occupati –, e hanno elevati livelli di istruzione e le migliori competenze per gestire autonomamente il bene pubblico della conoscenza, tanto più rilevante dal momento che è trasversale a tutta l'attività produttiva. Gli esempi di autogestione dei commons immateriali da parte dei knowledge workers sono ormai numerosi e noti, e li abbiamo già citati: Internet, Wikipedia, il free software e i programmi open source, i progetti di open science. Anche grazie all'attività di studio, di analisi e di denuncia da parte dei knowledge workers, le comunità locali sono sempre più informate e attente relativamente ai problemi legati all'inquinamento, al cambiamento climatico, alle energie “sporche” e non rinnovabili, alla salute pubblica, alla gestione delle risorse territoriali, e alla qualità della vita.

In questo contesto i movimenti dovrebbero esercitare la loro azione politica ed economica perché i governi assegnino prioritariamente alle società no profit i diritti di proprietà dei commons senza cedere invece agli appetiti delle corporations. Lo stato dovrebbe anche finanziare il riacquisto dei commons già ceduti ai privati; e favorire sul piano giuridico, fiscale e amministrativo la creazione e lo sviluppo delle società senza scopo di lucro e del terzo settore no profit, e garantire in ultima istanza lo sviluppo equilibrato dell'economia policentrica. In effetti l'accesso aperto ai beni comuni rappresenta la condizione per un mercato più dinamico e competitivo, e quindi più innovativo, non dominato dai monopoli; e costituisce anche la condizione fondamentale per un intervento pubblico efficace perché controllato dalle comunità e dal basso. Il futuro va verso l'economia policentrica.

 

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Commenti

Risposte ai commenti precedenti

Vorrei dare una prima risposta alle intelligenti e pungenti osservazioni che sono state fatte al mio articolo sui beni comuni nei commenti che seguono.
1. Innanzitutto va benissimo che si apra una bella e ampia discussione sui beni comuni perché il territorio è completamente nuovo e inesplorato. Vanno benissimo le critiche e le osservazioni. Stiamo cercando di lanciare un forum aperto sui beni comuni e invito tutti a partecipare. Siamo all'inizio ma questo è il link: http://forumdeibenicomuni.mixxt.org/networks/forum/thread.96913
2. Vedo che c'è un po' polemica sulle fondazioni italiane. Non sono purtroppo un esperto nel merito e non voglio assumermi il ruolo di difensore d'ufficio (che non è il mio) delle fondazioni bancarie italiane, e credo anche che certamente le fondazioni non siano esenti da critiche. La questione cruciale del controllo democratico da parte della società civile e delle comunità di riferimento vale ovviamente anche per loro. Ma cerchiamo di essere realisti e concreti: preferireste che le banche italiane fossero controllate e gestite dagli hedge funds di Londra, dai fondi pensione americani, dai fondi sovrani arabi o cinesi, o invece dalle fondazioni italiane? Non credete che se le banche italiane sono rimaste più lontane dei loro competitor internazionali dalla pura e distruttiva speculazione sia anche merito dei loro (spesso) principali azionisti, le fondazioni, che non hanno scopo di lucro? Non credete che sia un bene che parte dei dividendi e dei profitti delle banche italiane vadano a organismi senza scopo di lucro, che poi li investono (magari in maniera anche criticabile) per scopi sociali, come cultura, arte, ricerca, ambiente, finanziamenti a organismi sociali, ecc. Preferite gli hedge fund e gli azionisti privati come azionisti delle banche italiane, come propongono i liberisti e i neoconservatori? Credo di no.... Poi naturalmente tutto è criticabile e migliorabile.
3. Cerchiamo di ampliare il campo di analisi, che è quello specifico e particolare dell'economia della condivisione o dei beni comuni (che è diversa dall'economia civile, dal volontariato no profit, dalla sussidiarietà, ecc, ecc). Per quanto riguarda l'economia dei beni comuni, a mio parere la definizione data dal premio Nobel Elinor Ostrom è la più utile e produttiva: i beni comuni nell'economia sono quelli che non possono (se non con estrema o molta difficoltà) non essere condivisi: come le scienze, Internet, l'informazione, l'ambiente e il territorio, l'aria e l'acqua, la moneta, le reti di comunicazione e di trasporto. Quindi io non do una definizione generica o filosofica, o “buonista” di bene comune. Nell'economia della condivisione non includo beni comuni come per esempio la democrazia, il Parlamento, la libertà, ecc, né tratto del bene comune in senso strettamente morale, come la solidarietà, il benessere sociale, ecc. Tratto di beni che differiscono funzionalmente e strutturalmente da quelli esclusivi (non condivisi) privati e statali.
4. Come gestire al meglio, nella maniera più efficiente e innovativa, questi beni economici facilmente condivisibili e difficilmente esclusivi? Abbiamo già degli esempi e possiamo prendere quello più illuminante: Internet, la più grande invenzione tecnologica e sociale degli ultimi 50 anni! Internet può essere considerato un Super Bene Comune perché è non solo un bene non proprietario (non brevettato) e aperto a tutti (non esclusivo) ma anche un bene che cresce con l'uso, cioè, nel gergo dell'economia dei commons, è un bene non rivale. Internet in definitiva è un bene non esclusivo e non rivale, cioè un bene pubblico. Come è gestita Internet? Dallo stato o dai privati? NO, per fortuna!!!! Finora - anche se i governi (prima di tutto Cina e Russia, ma anche India, Brasile, e anche Italia, con la legge bavaglio) vorrebbero sottomettere la rete; e anche se Apple, Google, Facebook e altre società vorrebbero monopolizzare la rete (magari imponendo standard proprietari e brevettati) -, la rete è invece gestita dalle comunità di utenti in maniera multistakeholder: cioè da ricercatori, scienziati, organismi no profit, cittadini singoli, governi, industrie private. Ed è gestita da organismi no profit. Questa situazione è analoga a quella di Wikipedia, a quella dell'Open Source, ecc, ecc. Wikipedia, Firefox, Apachi, ecc, ecc sono gestiti da fondazioni senza scopo di lucro, con il controllo delle comunità di riferimento.
5. Prendendo ad esempio Internet, Wikipedia, ecc, propongo che i beni economici comuni – e non per esempio la produzione di automobili, di camion o di saponette, che sono beni privati – vengano gestiti da organismi no profit, come le fondazioni, le cooperative, ecc, ecc. a favore delle comunità interessate e degli utenti. La democrazia economica multistakeholder dei beni comuni dovrebbe estendersi ai diversi livelli: locale, nazionale, globale.
6. Propongo per esempio che i risultati della ricerca scientifica finanziata da enti pubblici, dalle università, ecc, ecc, siano gestiti da fondazioni, in maniera tale che siano accessibili a tutti senza discriminazioni a prezzi equi e trasparenti, con l'obiettivo di diffondere rapidamente le innovazioni e di recuperare nuovi investimenti per la ricerca pubblica di base. Ovviamente le fondazioni dovrebbero essere gestite e controllate democraticamente (per quanto possibile) dalle comunità di riferimento, come gli scienziati e ricercatori.
7. Credo che la cultura democratica e di sinistra dovrebbe comprendere che solo attraverso la gestione dei beni comuni essenziali, come la scienza, le tecnologie rinnovabili, le risorse ambientali, ecc, ecc, si può uscire dall'attuale duplice crisi economica ed ecologica.
8. In quest'ottica lo stato (grazie alla legittimazione democratica dal voto dei cittadini) dovrebbe intervenire nell'economia come supremo regolatore e coordinatore delle iniziative dei diversi enti economici: le aziende private, quelle pubbliche (nel campo della sanità, dell'educazione, formazione, ecc), quelle no profit gestite dalle comunità di riferimento. Lo stato avrebbe un ruolo enorme: ma a mio parere la democrazia economica e la gestione multistakeholder dovrebbe valere anche per le aziende pubbliche. Per il Bene Comune, o, se volete, nell'interesse generale.

beni comuni

condivido Viviani. I beni comuni esistono, ma che debbano essere amministrati da una miriade di fondazioni no profit autogenerate caso per caso, creando miriadi di parrocchiette di diffficile controllo non mi va. Il privato cerca il profitto, , il sistema politico genera la corruzione, ma la società civile dei Rotary club non è la soluzione.
Siamo un paese democratico, la fonte del potere è il voto, cerchiamo di farlo funzionare, magari introducendo dei correttivi da partecipazione diretta, da volontariato, accentuando la turnazione, forse introducendo l'estrazione a sorte che si pratica per i giudici popolari, ma per favore non pensiamo ai feudi intangibili come le fondazioni bancarie che il Grazzini mitizza in modo esagerato

I beni comuni per uscire dalla crisi


Dato che si tratta dell’estratto da un saggio più consistente, potrei non avere colto compiutamente il pensiero dell’Autore e aver travisato alcuni passaggi. Nonostante ciò provo a commentare:
Il tema è sicuramente centrato e il ragionamento di partenza è condivisibile. Anch’io credo che si tratti - da parte delle comunità - di riappropriarsi di “beni comuni”, considerando inoltre che la dimensione e la specificità di tali beni si è molto modificata rispetto ai “commons” di un tempo: un conto è il common “bosco”, o il common “laguna”, un altro conto è il common “Mare Adriatico”, o “Internet”.
Però, pur condividendo il punto di partenza, vorrei accennare ad alcuni contenuti specifici o propositivi dell’articolo, sui quali ho opinioni un po’ diverse. Ne accenno per punti:
1. I beni pubblici (compresi quelli che Grazzini chiama “beni comuni”) sono quelli che giustificano l’esistenza dello Stato e delle sue articolazioni locali. Se dunque affidiamo alle comunità la proprietà dei beni pubblici, lo Stato cosa ci sta a fare? Il rischio insomma è che diamo per perso il ruolo dello Stato, cosa che ci porrebbe un’altra serie non irrilevante di problemi.
2. I nomi con cui indichiamo l’economia non lucrativa (terzo settore, economia sociale, economia civile, mutualismo, non profit, ecc) sono già tanti. È conveniente aggiungerne anche un altro (“economia della condivisione”)? Di una cosa dobbiamo essere consapevoli: il florilegio di nomi è inversamente proporzionale alla capacità dello Stato di svolgere il proprio ruolo (genericamente) di welfare. Ritorna insomma la questione accennata prima: o diamo per perso il ruolo dello Stato (può darsi che sia così), oppure bisogna che ci infiliamo (volentieri o meno) nell’annoso dibattito “Stato-mercato”.
3. La questione che l’Autore non tratta nell’articolo (forse nel saggio lungo sì) è come si realizza praticamente la gestione dei beni comuni. Ci vorrà, presumo, un sistema di governo dei beni comuni che preveda un’organizzazione, delle rappresentanze, delle nomine e delle elezioni. Come dire che una volta risolta la questione concettuale (“i beni comuni devono essere gestiti dalle comunità”) si apre la questione riguardante la governance. E qui probabilmente casca l’asino, dato che per farlo ci sarà bisogno di un assetto costituzionale per l’amministrazione dei beni comuni. Si ripropone così la questione della rappresentanza nella gestione della cosa pubblica, ovvero la questione dell’assetto statale e del sistema politico.
4. È vero (“io credo che sia vero”) che nella gestione dei beni comuni c’è la questione del “livello giusto e della scala adatta”, che più familiarmente si chiama “sussidiarietà”. Il problema è che normalmente osserviamo la sussidiarietà dallo Stato in giù, mentre adesso – e questa è l’idea più brillante dell’articolo – bisogna osservarla dallo Stato in su: Internet e il riscaldamento globale, per fare due esempi, sono fenomeni che superano la dimensione normativa degli Stati. È ancora una questione di governance, ma di livello sovranazionale. Non so se l’idea di base dei commons si possa applicare a fenomeni di questo tipo e dimensione.
5. Sarà per deformazione professionale, ma ho parecchi dubbi su di una frase quale – citando Barnes – si dice che “a una proprietà privata e statale si affianca quella comunitaria”. La proprietà è un diritto che attiene o ai singoli (nelle svariate accezioni del termine) o alla collettività. Tutto il resto è invenzione verbale, che però non mi pare faccia del bene. Sempre per deformazione professionale, considero necessario indurre (o addirittura pretendere) la finalità sociale della proprietà privata (e dunque dell’azione economica privata, mettendo il mondo for profit di fronte alle sue responsabilità. L’invenzione di una “terza forma” è il miglior viatico perché le imprese si comportino secondo il dettato friedmaniano per cui “la responsabilità sociale delle imprese è di fare profitti” (a qualunque costo).
6. Dio ci scampi dalle fondazioni, che sono l’equivalente economico dell’idea platonica della politica: patrimoni miranti a un solo fine e sconnessi dalla possibilità umana di modificarne l’indirizzo, la gestione e la governance sono – a mio avviso – la dichiarazione del fallimento della democrazia. Dio ci scampi ulteriormente dalle fondazioni bancarie, il cui comportamento effettivo, la cui governance e la cui gestione rappresentano un modello di politica a cavallo tra partitocrazia moderna e corporazioni medievali.
7. L’unica forma sostanzialmente efficace di economia non lucrativa manifestatasi fino a ora e assumibile come punto di riferimento è l’esperienza cooperativa, ma – pur da cooperatore – starei molto attento ad affidare alle cooperative compiti che non hanno direttamente a che fare col mercato. Le cooperative sono imprese private con finalità (anche) pubbliche e non possono supplire il compito dello Stato, che – come si è detto – serve ad amministrare i beni pubblici che non esistono (o che non funzionano) in regime di mercato. Faccio inoltre fuggevolmente notare che non possono esistere società per azioni non profit: lo scopo istituzionale di una società per azioni è di valorizzare il capitale. Dunque una società per azioni è necessariamente for profit. Mi è capitato ancora non solo di sentirlo dire, ma anche di vederlo fare, e non si tratta di cose felici.
Mi limito a queste considerazioni che non intendono contraddire la tesi di fondo dell’Autore e men che meno confutare la sua argomentazione, ma che vogliono solo marcare un paio di concetti già espressi:
a. in una società decadente, discriminante e ingiusta come quella d’oggi non si può scappare dai fondamentali, inventando “terze forme”. Tutte le volte che lo si tenta si conferma di fatto il mondo per quello che è, offrendo una via di fuga a un capitalismo evidentemente bisognoso di radicali riforme;
b. dobbiamo evitare di contrapporre “privato” e “comunitario”. Dobbiamo altresì evitare di stemperare ancora di più il ruolo dello Stato. Dobbiamo chiedere allo Stato di fare meglio il suo mestiere di proprietario-gestore di beni pubblici, attraverso una riforma del funzionamento della democrazia. Dobbiamo pretendere dai privati che manifestino la loro cittadinanza, obbligandoli a comportamenti sociali;
c. possiamo integrare forme privatistiche (le imprese) con forme comunitarie (il non profit), pretendendo che le seconde si specializzino nell’organizzazione del bisogno e della domanda, ma definendo il regime in cui entrambe devono operare, che è quello dei rispettivi mercati: anche per il non profit deve valere il criterio d’efficienza, d’apertura, di competizione. Senza questa condizione ogni iniziativa comunitaria tende a chiudersi, iniziando a configurarsi in una dimensione vagamente leghista;
d. certo che possiamo – secondo il criterio del “livello giusto e della scala adatta”, ergo sussidiarietà – tentare di correggere i fallimenti del mercato, ma consapevoli che non di “fallimenti” si tratta, ma di vero e proprio “fallimento”, che dunque impone una riforma di tali dimensioni che ogni approccio parziale rischia di rendere meno visibile e necessaria.