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La nuova teologia del capitalismo
Per opporci alla nuova “religione tecnico-capitalistica” serve una nuova laicità. Cosa difficile, per la forza inarrestabile del tecno-capitalismo, ma non impossibile. Un'anticipazione del libro di Lelio Demichelis “La religione tecno-capitalista. Dalla teologia politica alla teologia tecnica" (Mimesis edizioni)
(…) L’interpretazione dei totalitarismi del ‘900 e delle grandi filosofie moderne della storia intese come forme religiose, come religioni secolari è stata in passato ampia e diffusa. (…) Il sociologo Raymond Aron nel 1944 scriveva appunto di religioni secolari (Propongo di chiamare ‘religioni secolari’ quelle dottrine che nello spirito dei nostri contemporanei prendono il posto della fede che è svanita, e che trasferiscono in questo mondo, in un futuro remoto, la salvezza del genere umano, nella forma di un ordine sociale che dovrà essere instaurato). Mentre Carl Schmitt, nelle sue celebri riflessioni sulla teologia politica sosteneva che tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati.
(…) Ancora Aron: «Una persona è religiosa non solo quando venera una divinità, ma anche quando pone tutte le proprie risorse spirituali, ogni atto di sottomissione della propria volontà, tutto l’ardore del fanatismo, al servizio di una causa o di un ente che è divenuto il fine e lo scopo dei sentimenti e della azioni di quella persona. Ora è un dato di fatto che le religioni secolari sono in grado di convertire le menti alla stessa devozione, alla stessa intransigenza, allo stesso fervore incondizionato che sono propri delle fedi religiose nel momento della loro più universale e penetrante ascesa». (…) Perché in quelle religioni secolari cambia il dio di riferimento (la trascendenza), ma dio non scompare, come appunto aveva evidenziato Aron. E anzi, il dio trascendente delle religioni secolari si realizzava anche nella sua immanenza e il dio immanente era (è) anche un dio trascendente (come appunto il mercato e la tecnica). (…) Le religioni secolari del passato sono morte per nichilismo intrinseco e strutturale, perché l’éschaton promesso non si è realizzato (rovesciandosi nel suo contrario o in un éschaton del male) e i dogmi politici sono stati sconfitti dalla propria intrinseca irrazionalità e dal trionfo della (presunta) razionalità del tecno-capitalismo (dalla assolutizzazione e dalla divinizzazione della ragione strumentale tecnico-scientifica), vincente su tutte le precedenti religioni secolari e su tutte le precedenti filosofie della storia (…).
Suddividere e connettere. Il Due per l’Uno.
Obiettivo del tecno-capitalismo: ricomporre ogni due e ogni pluralità e diversità nell’Uno totale e totalitario del gregge e della religione di sé. Perché è vero che il tecno-capitalismo produce innovazione, alterazione, modificazione, moltiplicazione, personalizzazione, eccitazione, caos e distruzione creatrice. Ma in realtà, prima e più della moltiplicazione e dell’alterazione e perfino dell’innovazione prevale sempre l’omologazione, l’unificazione delle differenze, la standardizzazione (che segue ad ogni innovazione distruttrice del precedente apparato) e soprattutto l’integrazione. Subordina – in tipico senso teologico-politico divenuto teologico-tecnico (e parafrasando Carl Schmitt, si deve dire che la scienza del divino oggi si chiama tecnologia) – le parti alla prevalenza dell’Uno, di ogni parte alla totalizzazione nel Tutto/Uno. (…) Perché il potere totalitario/religioso – tecno-capitalista - non è quello del partito che diventa stato ma dell’apparato che diventa società e stato, amministrati, governati attraverso una moltiplicazione di poteri e di saperi tecno-capitalistici. Per una divisione incessante delle parti che permette di unire e omologare e totalizzare senza smettere mai di differenziare. Che differenzia senza mai smettere di unificare e di omologare. (…) Dove la connessione prevale sempre però sulla disgiunzione, dove la totalizzazione si serve della suddivisione per realizzarsi. (…). Se per teologia politica, ancora, si intende l’esigenza di riportare i molti all’Uno e i conflitti a una dimensione che li ricomprenda in un certo ordine e quindi li depoliticizzi, la nuova forma del divino è oggi appunto il tecno-capitalismo.
La forza e l’essenza del totalitarismo è nell’organizzazione.
Scriveva Hannah Arendt (ne Le origini del totalitarismo), il vero fine della propaganda totalitaria non è tanto la persuasione quanto l’organizzazione. E ancora: non sono i successi effimeri della demagogia a conquistare le masse, ma la forza visibile di un’organizzazione vivente. Così che la ragione autentica della superiorità della propaganda totalitaria cessa di essere una questione oggettiva. Ma diventa un elemento della vita quotidiana non meno reale e intoccabile delle regole aritmetiche. Per cui ne discende che «l’organizzazione dell’intera trama della vita in conformità a un’ideologia può essere pienamente attuata soltanto in un regime totalitario». O in una forma di religione, posto che il legare insieme le persone è la forma più perfetta di organizzazione. Ieri il gregge religioso, oggi la rete tecnica e il mercato.
E come si vedrà a proposito della nascita dell’homo oeconomicus e poi dell’homo technicus, scopo della propaganda neoliberista e della propaganda a favore della rete – la macchina del consenso - non è stato solo quello della persuasione (convincere tutti e ciascuno della virtù del mercato e del libertarismo della rete), quanto quello appunto dell’organizzazione totalitaria e religiosa (della vita e del lavoro e del consumo nel mercato per il mercato e poi in rete e per la rete). Per fare del mercato e della rete una autentica organizzazione vivente (biopolitica), una religione capace di conquistare le masse individualizzate grazie alla forza di questa organizzazione (ri-socializzante dopo il pieno successo dei meccanismi di de-socializzazione e di liquefazione individuale e sociale prodotti dalla prima e dalla seconda rivoluzione industriale e ora dalla stessa globalizzazione e dalla stessa rete - la terza rivoluzione). (…) Rete e globalizzazione divenute (non potevano non diventare) organizzazione, elementi della vita quotidiana di tutti e di ciascuno, organizzazione non meno reale e intoccabile delle regole aritmetiche (e oggi degli algoritmi). (…)
Dalla teologia politica alla teologia tecnica.
Analogamente allo stato-Leviatano di Hobbes, anche nella rete-Leviatano ogni (s)oggetto – nel momento in cui si trasforma in nodo e consegna (direttamente o indirettamente) al sovrano i suoi dati e il suo profilo – ne viene incluso rinunciando ai suoi diritti, autorizzando il sovrano-rete a decidere per lui. Dunque: inclusione di ciascuno nel corpo/macchina della rete (ogni nodo preso da un meccanismo di cattura sempre più esteso e pervasivo, nella gabbia della rete) e immediata esclusione dal potere del soggetto-rete che appunto esiste solo se connesso, quindi è escluso da sé e incluso nella rete. Come nodo/suddito. Per cui vale anche nei confronti dei nodi della rete-Leviatano quanto esplicito in Hobbes: «Essi autorizzano il grande corpo che li rappresenta a farsi unico attore di azioni che sfuggono del tutto al loro controllo». E se si osserva l’immagine raffigurata sulla copertina del Leviatano, essa è fatta da una molteplicità di piccoli uomini-soldati dentro un unico corpo gigantesco. Perfetta rappresentazione del corpo politico del Leviatano e oggi del Leviatano della macchina tecnica e della rete (con nodi invece di soldati, il meccanismo è identico). (…) Ecco la relazione tra governamentalità/pastorato foucaultiano e teologia politica. (…) E se il paradigma teologico-politico si riassume, secondo Carl Schmitt nella tesi per cui tutti i concetti decisivi della moderna dottrina dello stato sono concetti teologici secolarizzati, questa affermazione andrebbe integrata fino a coinvolgere i concetti essenziali e fondamentali della stessa economia. Ma anche – e appunto, come visto - della tecnica, estendendo il paradigma teologico alla comprensione dei processi riguardanti la tecnica come apparato. E quindi della rete. (…) Passando dalla teologia politica alla teologia economica e oggi tecnica. (…).
Una nuova laicità
(…) Tutto ciò premesso, allora si deve pensare ad una laicità radicale e democratica – in cui la democrazia sia laica anche nei confronti di se stessa; si deve pensare ad un dover essere laici nei confronti in particolare della religione tecno-capitalista, del potere pastorale tecno-capitalista. Del totalitarismo tecno-capitalista. Per sottoporre il potere economico e tecnico al potere sovrano del demos. E così come la rivoluzione francese aveva realizzato la grande svolta nel potere moderno producendo la separazione netta tra politica/cittadino e chiesa/religione, così oggi occorre separare nettamente e radicalmente politica/demos e religione tecno-capitalista. Unico modo (forse) perché vi sia laicità senza ricadere nell’illusione di una libera economia e una libera tecnica in libero stato e in libera società. Perché così non è.
Occorre uno stato laico da ogni intromissione confessionale e teologica come teleologica e tecno-logica. Laicizzando la società, i suoi tempi, i suoi spazi dal tecno-capitalismo. Emancipando la vita civile, politica e sociale dalla religione tecno-capitalista, rifiutando le sue verità rivelate assolute e definitive, rivendicando la prevalenza del pensiero critico sul mistero, il miracolo, l’autorità religiosa e rifiutando ogni idea sacrale di potere anche tecno-capitalistico, che oggi vive e impone se stesso come dio e come corpo tecnico-mistico. Occorre separare radicalmente il potere civile/politico dal potere tecnico/economico e mettere il secondo al servizio del primo (Polanyi). (…)
Una sfida difficile, quasi impossibile perché si scontra contro un potere fortemente re-ligioso, autoreferenziale e autopoietico.
Lelio Demichelis, La religione tecno-capitalista. Dalla teologia politica alla teologia tecnica, Mimesis Edizioni, pag. 261, € 20.00
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