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Economisti, quale futuro dopo la critica?

23/08/2014

Criticare il pareggio di bilancio, l’insensatezza della riduzione del debito, della esasperata flessibilità del lavoro, o l’austerità espansiva è un esercizio di buon senso e necessario. Lascia tuttavia un vuoto di progetto e prospettiva che riduce l’economista a mero “critico”, seppur diversamente declinato

La sensazione e l’umore di molti economisti sono quelli delle cronache del “tormentato periodo che va dal 1929 al 1936 […] dove […] gli economisti accademici […] non avevano saputo offrire pressoché nessun suggerimento politicamente accettabile circa un piano d’azione governativo, in quanto essi erano fermamente convinti della capacità d’autoregolamentazione del meccanismo di mercato … l’economia prima o poi si sarebbe ripresa da sola, a patto che la situazione non venisse aggravata ulteriormente dall’adozione di un’errata politica economica, inclusa la manovra fiscale” (Hyman P. Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, 2009).

Ma quest’umore non potrebbe essere diverso. Tanti anni di (tesi) politiche ed economiche fondate sulla concorrenza, sulla flessibilità e sui fallimenti dello Stato hanno eroso il senso comune e, aspetto ben più grave, compromesso quel vasto patrimonio di conoscenze che era alla base della risposta politica ed economica della crisi del ’29. Se dovessimo prendere per assolute le dichiarazioni di Fmi (Lagarde e Blanchard), Bce (Draghi), Commissione europea (Barroso e Juncker) e di molti opinionisti italiani tra cui Boeri, per non citare con le dovute distinzioni Alesina, Giavazzi, Tabellini e consimili, dovremmo chiudere baracca e burattini.

L’aspetto drammatico di queste tesi è l’effetto che hanno sugli economisti critici (liberal, strutturalisti, circuisti, keynesiani, anche in senso lato). Molti commenti riflettono l’impotenza e, sotto sotto, l’amarezza del dibattito. Ridursi a criticare il pareggio di bilancio, l’insensatezza della riduzione del debito o della esasperata flessibilità del lavoro, l’austerità espansiva, tra tutte crediamo la più indigesta perché non comprendiamo il nesso tra austerità ed espansione, e per ultima la precarietà espansiva, è un esercizio di buon senso e necessario. Lascia tuttavia un vuoto di progetto e prospettiva che riduce l’economista a mero “critico”, seppur diversamente declinato.

Quello che manca alla critica è un orizzonte minimo e condiviso. Saremo dei romantici, ma l’economia è una scienza sociale e, prima o poi, dovremo farci carico di una prospettiva diversa dalla gestione della crisi o dalla critica. Questo atteggiamento ha radici molto nobili: senza critica è difficile costruire un progetto alternativo. Pensiamo a Kalecki, Robinson, Sraffa Caffè, Garegnani, Sylos Labini, Graziani, Pasinetti, Leon, e potremmo continuare. Con tutta l’attenzione possibile, la critica svolta da questi è più che sufficiente. Non dobbiamo raffinare ciò che è già stato declinato in più modi. Erano (sono) personaggi enormi, ma non hanno costruito una idea organica di società diversa. Abbiamo delle intuizioni, delle suggestioni, ma possiamo dire che il progetto (futuristico) di società più avanzato è quello delle prospettive economiche dei nostri nipoti?

Non ci mancano i lasciti dei nostri maestri. Pensiamo ai “conti senza l’oste” di Graziani, alla “dinamica strutturale” di Pasinetti e alla “tecnica superiore” di Leon. Senza mancare di rispetto a nessuno il lascito più grande è forse di Sylos Labini quando afferma che “in una analisi dinamica lo sviluppo economico è da riguardare, non semplicemente come un aumento sistematico del prodotto nazionale concepito come aggregato a composizione data ma, necessariamente, come un processo di mutamento strutturale, che influisce sulla composizione della produzione e dell’occupazione e che determina cambiamenti nelle forme di mercato, nella distribuzione del reddito e nel sistema dei prezzi” (Progresso tecnico e sviluppo ciclico, 1993). Tecnicamente dovremmo avere molti più strumenti degli economisti mainstream per disegnare un futuro migliore per i nostri nipoti, ma il clima che ci circonda è invalidante e disarmante, con un lascito che annulla anche le più elevate buone intenzioni.

In un modo o nell’altro l’Europa è oggi il terreno e lo snodo che segnerà la fine o l’inizio di una nuova società. Abbiamo un compito gravoso e possiamo assumerlo se usciamo dalla logica della critica. Per il nostro paese significa qualcosa di più. Non la ripetizione di svalutazione (deflazione) del lavoro. Per la prima volta l’Italia deve assumersi delle responsabilità nuove e inedite se vuole rimanere un paese moderno, sia per quanto riguarda le politiche economiche interne e sia per quanto riguarda le politiche europee.

Si tratta di cambiare il motore della macchina senza fermarla (Riccardo Lombardi). Non si tratta di politiche dell’offerta, piuttosto della necessità di assecondare e guidare la dinamica di struttura di Pasinetti, i conti senza l’oste di Graziani e il segno del nostro Pil di Sylos Labini.

Tutti sosteniamo che l’intervento pubblico è indispensabile. Possiamo almeno declinare alcuni pezzi di questa necessità? Perché non prendere la ricerca e sviluppo pubblica, altra non ne conosciamo, e industrializzarla al fine di modificare il segno del Pil, della struttura e del ben-essere? Possiamo affidare alla Cdp, o chi per essa, il compito di anticipare il denaro necessario (Graziani) per spostarci dai settori in declino verso i settori a maggiore contenuto tecnologico e cognitivo? Se poi il privato ha voglia di spendere quel tanto o poco di buono che è rimasto, dobbiamo esserne solo felici. Il conflitto capitale-lavoro ritroverebbe l’agio descritto accuratamente dalla immensa Robinson.

Per l’Europa, dobbiamo spingerci oltre la flessibilità di bilancio, la moneta parallela o la ri-appropriazione della moneta. La sfida è quella di uno stato federale o uno stato europeo a tutto tondo. Lasciamo i multipli delle politiche territoriali. Sono giustappunto multipli. L’Europa non sarà mai l’Europa se non riuscirà a istituire i prin­cìpi, le norme e le regole dell’economia pub­blica, cioè defi­nire l’insieme delle poli­ti­che di bilan­cio comu­ni­ta­rie con le quali indi­riz­zare il sistema eco­no­mico euro­peo verso obiet­tivi demo­cra­ti­ca­mente defi­niti. L’Europa, infatti, non pos­siede un bilan­cio auto­nomo e finan­ziato con entrate fiscali legate ad un’ampia base impo­ni­bile. Immaginiamo un bilancio comunitario pari al 5% del Pil dell’insieme dei paesi membri. Lo stato nasce e si consolida con le imposte. I coloni irlandesi hanno fondato gli Stati Uniti d’America proprio sulle imposte. In questo modo sarebbe possibile rimuovere il vincolo discre­zio­nale dei tra­sfe­ri­menti sta­tali. Se la crisi è strut­tu­rale, occorre creare isti­tu­zioni ade­guate per tenere in tensione la domanda effet­tiva, ridu­cendo il man­cato impiego delle risorse pro­dut­tive a comin­ciare dalla disoc­cu­pa­zione. Pen­sare ad un bilan­cio euro­peo molto più con­si­stente, finan­ziato con stru­menti come l’Iva, imposte ambientali ed una tassa sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie, l’emissione di bond acqui­stati dalla Bce per soste­nere la cre­scita e gli inve­sti­menti neces­sari per Europa 2020, che deve ridurre il gap tra i Paesi, infine meccanismi di riequilibrio dei deficit ed avanzi commerciali tra i paesi che adottano la stessa moneta, non sarebbero strumenti cardine per un progetto di società o l’embrione di società europea?

Gli economisti mainstream hanno sempre la stessa proposta “naturale” di società ed economia, ma una qualche colpa gli economisti non-mainstream devono pur averla se i primi hanno tutto questo potere culturale.

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Commenti

@Vincesko

Nick: scusa la distrazione sul nick.

IRI: è noto che la difficoltà di dismissione delle partecipazioni IRI ci è costata negli anni l'iradiddio. Nemmeno io, a suo tempo, credevo alle parole del mio Maestro P. Saraceno, però me ne sono sempre rammaricato. Problema analogo si presenta oggi con le Finanziarie Regionali e con le partecipate degli enti locali. Presumo che si presenterà in futuro, a seguito degli interventi della CdP. Il problema è sempre il medesimo: facile comprare partecipazioni; molto difficile uscirne quando non rendono più secondo le aspettative.

INPS: ha senso parlare di Castellino anni 80, perché la faccenda pensionistica non può che affondare le sue radici in tempi lontani proprio per il noto divario temporale fra versamenti e prestazioni e, in Italia, anche per la commistione fra assistenza e previdenza. Le riforme degli anni 90 non hanno risolto la questione della commistione, ma sono state utilissime. Però, come è noto, si imputa alla Dini di essere stata troppo 'morbida' nei tempi, così alla Fornero si imputa di aver agito troppo drasticamente. Quest'ultima riforma, se non verrà massacrata dalle deroghe dei ceti politici dominanti, avvantaggerà gli attuali giovani a scapito degli attuali vecchi come me.

Infine, io non sono contrario per principio a mirati interventi dello Stato; però, al contrario dei Sindacati, io sempre stato e sono contrario a privatizzare settori delicatissimi, proprio come quello pensionistico.

Distrazioni

@Paolo Biffis
1. Nickname. Sei distratto, il mio nickname è Vincesko (non è una precisazione pignola, vedi anche punti successivi).
2. IRI. Sei distratto: se controlli, il riferimento alle dimensioni dell’Iri era un semplice accenno, ma sottintendeva e rafforzava l’invito ad approfondire il ruolo e la complessità dell’IRI. Che significa “se era in grado di dismetterle”, visto che lo ha fatto, e non perché “non è stato più conveniente mantenere le partecipazioni” (tutte?), ma per – supposta, direbbe il prof. Giuseppe Guarino – imposizione dell’UE?
3. Pensioni. Sei distratto, se avessi letto più attentamente il mio post linkato, avresti saputo che la solidità del sistema pensionistico italiano è attestato sia dalla RGS sia dalla Commissione UE, sia da tutti gli esperti in materia pensionistica. PS: Che senso ha rifarsi al giudizio di Castellino del 1980 (!), quando le 8 riforme delle pensioni – come ho già scritto - partono dal 1992?

@Vincensko

IRI: il punto non è se l'IRI sia stato importante ma se, quando non è stato più conveniente mantenere le partecipazioni, fosse in grado di dismetterle. Questo mi spiegava P. Saraceno all'inizio degli anni 70, lamentandone l'impossibilità.
INPS: dicevo che Castellino all'inizio degli anni 80 ci avvertiva che il sistema non avrebbe retto: che ora, dopo le riforme degli anni 90 il sistema regga è tutto da dimostrare.

risposta a Camilla

carissima Camilla, comprendo la preoccupazione. La ricerca e sviluppo pubblica utilizzata solo a fini produttivi? la spesa in ricerca e sviluppo pubblica persegue molti obiettivi e non tutti legati alla produzione industriale. Se le imprese italiane fossero simili alle imprese di molti altri stati il problema sarebbe diverso. Solo in Italia, come ben sai, la spesa in ricerca e sviluppo privata è più bassa di quella pubblica, e stiamo parlando di un aggregato misero dell'1% del PIL. Potrei anche aggiungere un indicatore che comincia ad affacciarsi: l'intensità tecnologica degli investimenti. L'ocse e FMI cominciano a lavorarci sopra, ma io, Lucarelli e Palma abbiamo individuato questo indicatore e comparato l'Italia con altri paesi. l'intensità tecnologica degli investimenti delle imprese private italiane è prossima al 10%, mentre in Germania al 37%, per non dirti della Finlandia....
la proposta è finalizzata a modificare, in parte, la specializzazione produttiva del Paese. Diversamente non ci sarebbe proprio nessuna possibilità. inoltre mi garba l'idea del soggetto pubblico come agente economico, cioè un soggetto che condiziona il che cosa, il come e il chi produce. è un tentativo di aggiornare la tesi lombardiana di cambiare il motore della macchina senza fermarla. sono convinto che lo spazio della ricerca pubblica sia più ampio della proposta. per questo la ricerca che interessa il che cosa e il come produrre, data la struttura privata delle nostre imprese, sarebbe di una qualche utilità. penso anche che sarebbe l'unica via per modificare la domanda di lavoro delle imprese. come puoi immaginare, la formazione dei nostri studenti (offerta) sarebbe troppo alta rispetto al target della domanda delle imprese. vedere i nostri studenti che volano via dal nostro paese perché non trovano un lavoro coerente con la loro formazione è un insulto al paese. mi è appena capitato uno studente straordinario che ha fatto una tesi notevole sulla dinamica di struttura della Cina. secondo te da dove ha ricevuto le proposte di lavoro? con stima Roberto romano

Considerazioni giuste ma ingenue

Considerazioni giuste ma - con tutto il rispetto - di una ingenuità disarmante: la teoria mainstream è quella appoggiata dai ricchi strapotenti (italiani e non) e dalla Germania (finché va nel suo interesse).
Per spiegarmi, riporto un mio lungo commento-risposta, ‘postato’ 2 giorni fa in calce al post “John Maynard Giavazzi (o quasi)”
Pubblicato da keynesblog il 22 agosto 2014 http://keynesblog.com/2014/08/22/john-maynard-giavazzi-o-quasi/#more-5701
PS: Negli ultimi 3 anni, Scalfari è diventato un insopportabile conservatore.

Parole, le tue, che mettono il dito sulla piaga ed ottima analisi, del tutto condivisibile, che merita alcune chiose (non sarò breve):

1. La prima. Due anni fa, nel mio post “La globalizzazione non è un gioco equo”, scrivevo:

Misure regolatrici anticrisi. Ha ragione chi dice che questo non è proprio il momento per ridurre il debito e continuare, alimentando una spirale perversa, con le misure correttive recessive, ma purtroppo il gioco di tutti gli organismi (UE, BCE, FMI, Società di rating, Governo), si salda con i desiderata e gli interessi dei ricchi potenti, egoisti, avidi e spietati per fregare il popolo bue (e pure quello intelligente). Bisognerebbe dare l’assalto alla Bastiglia. Oppure farlo metaforicamente, mettendo mano finalmente, assieme agli altri Paesi UE e agli Usa, alla riforma delle leggi che regolano la finanza, in particolare quella malata. Ma bisognerà smettere la nostra abitudine all’ammuina e pungolarne e sostenerne l’azione, poiché è qui il nodo da sciogliere, la criticità che ha messo in crisi il sistema. Le misure da prendere ormai sono note e si basano sulla semplice ma terribile costatazione che il potere di poche grandi banche (in totale nove) è sovraordinato al potere politico. Due anni fa, Eugenio Scalfari, in un suo editoriale domenicale, ne ha parlato con toni preoccupati, desumendone la notizia dal New York Times. [**]
Nella “Lettera di PDnetwork”, (nei “principali parametri di macroscenario”; vedi anche la nota 3), ho scritto che le transazioni finanziarie pare assommino a 4 mila miliardi al giorno. Noam Chomsky ha evidenziato che uno dei principali problemi della nostra epoca è la globalizzazione dei capitali, ma non del potere politico.
[**] Nel suo editoriale del 19 dicembre 2010, “Nove banche vogliono dividere l'euro in due”, Eugenio Scalfari, citando il New York Times, ha scritto:
“(…). È vero, gli "hedge funds" sono un'ingente massa di manovra ma non rappresentano il cervello della speculazione. Il cervello sta al vertice del sistema bancario internazionale e vede insieme sia le grandi banche di credito sia le grandi banche d'affari americane, inglesi, svizzere, tedesche. Il “New York Times” ha descritto pochi giorni fa il funzionamento di questa Cupola ed ha anche indicato le banche che la compongono: J. P. Morgan, Bank of America, Goldman Sachs, Ubs, Credit Suisse, Barclays, Citigroup ed altre per un totale di nove. Ma ciascuna di esse possiede una quantità di partecipazioni e diramazioni in tutto il mondo e capitali immensi a disposizione.
In un giorno fisso della settimana i capi delle nove banche principali si riuniscono in un club riservato, esaminano gli ultimi dati sull'occupazione, sui mutui immobiliari, sulla produzione manifatturiera, sui tassi di cambio delle principali valute (dollaro, euro, yen, yuan), sugli "spread" tra i principali debiti sovrani, sulle materie prime. L'esame dura un'ora o poco più. Poi tirano le somme e decidono come muoversi sui mercati oppure non muoversi e restare in attesa”.
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/19/news/nove_banche_vogliono_dividere_l_euro_in_due-10377795/.
Sono esattamente le stesse banche che fanno parte del ristretto numero di istituti finanziari (in totale 20 specialisti in titoli di Stato) che hanno la licenza per acquistare, alle aste del mercato primario, i nostri titoli di Stato, che poi vendono sul mercato secondario, determinando assieme agli acquirenti lo spread (cfr, I facitori dello spread”).
In questo post “Tra Bersani e Renzi il gioco si fa duro”, ho riepilogato la situazione ed elencato i provvedimenti da prendere [v. anche “Promemoria delle misure anti-crisi”]:
“L’attuale, terribile crisi economica è scoppiata a causa delle disfunzioni della finanza. I finanzieri basati nei paradisi fiscali manovrano i cosiddetti capitali-ombra, [1] tra i principali responsabili dell’ingovernabilità dell’attuale crisi; [2] anche il presidente della BCE, Mario Draghi, ex presidente del FSB [3] ed ex governatore della Banca d’Italia, il quale, dopo lo scoppio della crisi alla fine del 2007, ebbe l’incarico di definire le proposte di regolazione dei mercati finanziari, ha rammentato e chiesto che i predetti capitali-ombra, enormi, vengano controllati. (v. [1], nota 3).
I soldi servono alle campagne elettorali di tutti i candidati, molti soldi, ma possono diventare anche la farina del diavolo, che come si sa finisce in crusca.
Anche Obama fu finanziato la volta scorsa dalle grandi banche USA, e ne fu inevitabilmente condizionato, in termini di scelte e di immagine. Ora è un bene ed un fatto di chiarezza che quelle stesse grandi banche appoggino Mitt Romney.
La mia (e di tantissimi altri) critica a Obama è che non ha cambiato finora le leggi, ad esempio (a) ripristinando, com’è stato per 70 anni dopo la crisi del 1929, la separazione tra banche commerciali e banche d’investimento (divieto peraltro tolto nel 1999 sotto la presidenza del democratico Clinton!); [4] (b) controllando i capitali-ombra (come chiesto, appunto, anche dal governatore Draghi), (v. [1], nota 3); (c) disciplinando i derivati e (d) vietandoli – assieme alle vendite allo scoperto – per i prodotti alimentari; (e) regolando le vendite allo scoperto sui titoli pubblici, (v. [1], nota 4); ed infine (f) introducendo la TTF. (v. [1], nota 5). Spero lo potrà fare – se non lui, l’uomo più potente del mondo, chi? - se vincerà senza il condizionamento dei finanziamenti delle grandi banche, sulla base dei dati e dei fatti le vere padrone del mondo. [2]
Ma lo stesso ovviamente vale per l'Europa e soprattutto per la Germania, la cui cancelliera Merkel ha mantenuto finora (e solo recentemente) soltanto la promessa sull'introduzione della TTF. [5]”.

2) La seconda: BCE. E’ lì il ganglio fondamentale, il punto nevralgico del sistema. La maggiore pecca ascrivibile alla BCE è nel suo statuto costitutivo, ma non soltanto nella lettera dello stesso, bensì anche nella sua interpretazione, che è stata, ed ancora è, dettata precipuamente dalla Germania (non bastava il Governo, ora ci si mette anche la Corte Cost.), secondo un’interpretazione restrittiva in parte contraddetta (nei compiti di crescita economica e dell’occupazione) - ed è una dicotomia grave - dai trattati UE. Ho già segnalato che recentemente il sito della BCE, non credo per caso, ha modificato sia il link sia in parte il contenuto delle funzioni, cancellando il riferimento esteso all’obiettivo della crescita e introducendo un periodo che enfatizza il controllo dei prezzi anche asseritamente nei trattati.

3) La terza: Germania. Per quanto riguarda la Germania, io la penso come Prodi: è inutile distinguerla tra falchi e colombe (o tra politici e imprenditori e banchieri), quando si tratta di tutelare il proprio interesse nazionale, fa gioco di squadra.

4) La quarta: Francia. Ho letto - se non erro - su Sbilanciamoci che anche il socialista Hollande fa quello che interessa soprattutto alle banche.

5) La quinta: che, in ogni caso, occorre una maggiore enfasi nel ruolo esercitato in negativo dai protagonisti politici (Merkel, Sarkozy e Barroso, in ambito esterno; Berlusconi e Tremonti, in ambito nazionale) nella gestione di una crisi che per gli effetti è equivalsa ad una guerra con migliaia di morti e feriti.
Il problema principale è la qualità dei leader. In un tornante della storia come quello che stiamo vivendo in particolare dal 2010 (crisi della Grecia, il cui PIL incideva per il 3% sul totale UE), avremmo avuto bisogno di statisti lungimiranti e non di “bottegai”. Il popolo tedesco sembra diventato un Paese di bottegai preoccupati soltanto o soprattutto del proprio interesse, governato da una “bottegaia”, figlia di pastore protestante, presa, come dice il prof. Bordignon, da "furori teutonici" [moralistici].
Beninteso, io sono fermamente convinto che occorre completare i compiti a casa nostra (in particolare, eliminando gli sprechi legati all'inefficienza ed alla corruzione e varando una corposa imposta patrimoniale sulla metà del decile più ricco delle famiglie - la ricchezza delle famiglie italiane è maggiore di quella tedesca, dato ben noto ai Tedeschi ed alla Bundesbank -, a bassa propensione al consumo) e, come dice un po' perfidamente ma realisticamente il prof. Monti, che le crisi sono (possono essere) positive poiché consentono (ci costringono) di fare le riforme, ma occorreva - ed occorre - farlo, da una parte, utilizzando al meglio le funzioni della BCE come una vera banca centrale e, dall’altra, avendo come stella polare l’equità e non, come ha fatto il governo Berlusconi-Tremonti, che, a partire dalla crisi greca, ha varato 3 manovre correttive lacrime e sangue (il DL 78/2010, di cui io sono stato una delle vittime e quindi parlo con cognizione di causa, il DL 98/2011 e il DL 138/2011) per un totale cumulato, incluse le leggi di stabilità, di ben 267 mld, scaricandone il peso in grandissima parte sulle spalle del ceto medio-basso e perfino sui poveri, col taglio feroce della spesa sociale dei Comuni e delle Regioni (-90%). [Il valore cumulato della manovre di Monti, invero più eque (a parte gli esodati) è pari a 63 mld].
Quante vittime della crisi, che si sarebbero potute evitare, hanno sulla coscienza Merkel, Sarkozy, Barroso, Berlusconi e Tremonti?
Sì, anche Manuel Barroso (ma bisognerebbe aggiungere pure il Vice Presidente e Commissario all’Economia Olli Rehn), che, al di là dei vincoli dei trattati, è stato forse il peggiore presidente della storia della Commissione Europea, sia per l'asservimento sostanziale al Consiglio Europeo (lèggi: Germania), venendo meno al suo compito istituzionale di equilibrare lo strapotere del Consiglio, sia per i risultati.

6) La sesta. Com’è noto, Obama ha fatto varare in USA una legge di riforma del sistema bancario, ma non è molto efficace. Anche il Parlamento Europeo ha fatto qualcosa di simile. Ma occorre fare molto di più. Intanto, gli USA (ispirati dalla Goldman Sachs, che ha teorizzato in un documento il depotenziamento delle leggi e delle garanzie democratiche) e l’UE, per favorire le multinazionali, stanno conducendo in segreto le trattative del TTIP (cfr. dossier “Il trattato commerciale transatlantico. Un uragano minaccia gli europei”).

7) La settima e ultima. Che fare? Dato l’evidente, enorme squilibrio delle forze e degli interessi contrapposti, io sommessamente penso che occorra seguire l’esempio dei vecchi socialisti e sindacalisti a cavallo tra l’800 e il ‘900 (fino ad allora le leggi e l’apparato poliziesco venivano usati esclusivamente dai padroni contro i lavoratori): UTILIZZARE AL MEGLIO LE LEGGI E GLI ORGANI DEPUTATI A FARLE RISPETTARE.
Quindi, da una parte, occorre contare ed appoggiarsi il più possibile sull’unico organo europeo, pur con i suoi limiti decisionali, davvero democratico: il Parlamento Europeo. Dall’altra, attaccare e stanare il ganglio vitale: la BCE. Perciò sto proponendo di denunciare la BCE alla Corte di Giustizia Europea per violazione del suo statuto e dei trattati UE.

Prego informarsi meglio

@Paolo Biffis

Prego informarsi meglio su:
1. IRI. Accenno solo al fatto che l’IRI (http://it.wikipedia.org/wiki/IRI) era la maggiore conglomerata industriale, finanziaria e dei servizi italiana e, per un certo periodo, europea (che peraltro sviluppava al suo interno una buona ricerca e una buona formazione).
2. Pensioni. Dal 1992, sono state varate 8 riforme pensionistiche (Amato, 1992; Dini, 1995; Prodi, 1997; Berlusconi/Maroni, 2004; Prodi/Damiano, 2007; Berlusconi/Sacconi, 2010; Berlusconi/Sacconi, 2011; Monti-Fornero, 2011). Le ultime 4 riforme, soprattutto, Damiano (2007), Sacconi (2010 e 2011) e Fornero (2011) stanno dando e daranno risparmi nei prossimi decenni per centinaia di mld. Il sistema pensionistico italiano è ora tra i più severi e solidi in UE28.
AQQ/24 - Spesa pensionistica http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2783015.html

Ma scusate

<<Tutti sosteniamo che l’intervento pubblico è indispensabile. Possiamo almeno declinare alcuni pezzi di questa necessità?>>

Il punto non mi sembra a chi <affidare il compito di anticipare il denaro>, ma come poi uscirne se l'intervento si dimostra non conveniente o poco remunerativo (l'esperienza IRI docet).

Si è privatizzato un settore delicatissimo come quello pensionistico con l'incredibile appoggio dei sindacati, invece di risanare l'INPS, ad esempio distinguendo Assistenza da Previdenza, o ricalcolando le prestazioni rispetto ai versamenti ecc.
All'inizio degli ani 80, Onorato Castellino ci aveva avvertito che il sistema non reggeva e G. De Michelis se ne era dato carico. Ma l'allora Cristofori (o De Cristofori) buttò tutto all'aria perché anche allora <le pensioni non si toccano> come direbbe anche oggi il dr. Bonanni.

Le soluzioni esistono

"Ridursi a criticare il pareggio di bilancio, l’insensatezza della riduzione del debito o della esasperata flessibilità del lavoro, l’austerità espansiva, tra tutte crediamo la più indigesta perché non comprendiamo il nesso tra austerità ed espansione, e per ultima la precarietà espansiva, è un esercizio di buon senso e necessario. Lascia tuttavia un vuoto di progetto e prospettiva che riduce l’economista a mero “critico”, seppur diversamente declinato."

Le soluzioni pratiche esistono. Le proponiamo noi della Me-MMT Italia (memmt.info). Ripartire dall'occupazione con programmi di lavoro garantito, che fungono da emissione di reddito e da stabilizzatori dei prezzi. Rilancio della domanda aggregata, redistribuzione dei redditi, recupero del Welfare State. Abbiamo un programma di salvezza nazionale scritto da professionisti. Lo trovate sul nostro sito, leggetelo!

La situazione è drammatica, non c'è più tempo per le sole chiacchiere, sosteniamoci a vicenda!

non capisco

questa frase: "Perché non prendere la ricerca e sviluppo pubblica, altra non ne conosciamo, e industrializzarla al fine di modificare il segno del Pil," = la ricerca deve diventare immediatamente prodotto? o comunque a quello dev'essere finalizzata? e se non lo fa, buttiamola a mare??? e questo sarebbe critica del liberismo?
Spero di aver capito male.
soprattutto perché il resto del pezzo è più che condivisibile.