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Europa, il monito degli economisti

01/10/2013

Proseguendo con le politiche di austerità e affidando il riequilibrio alle sole “riforme strutturali”, l’esperienza della moneta unica si esaurirà. Pubblichiamo l'appello firmato da diversi economisti provenienti da tutta Europa e pubblicato dal Financial Times lo scorso 23 settembre

La crisi economica in Europa continua a distruggere posti di lavoro. Alla fine del 2013 i disoccupati saranno 19 milioni nella sola zona euro, oltre 7 milioni in più rispetto al 2008: un incremento che non ha precedenti dal secondo dopoguerra e che proseguirà anche nel 2014. La crisi occupazionale affligge soprattutto i paesi periferici dell’Unione monetaria europea, dove si verifica anche un aumento eccezionale delle sofferenze bancarie e dei fallimenti aziendali; la Germania e gli altri paesi centrali dell’eurozona hanno invece visto crescere i livelli di occupazione. Il carattere asimmetrico della crisi è una delle cause dell’attuale stallo politico europeo e dell’imbarazzante susseguirsi di vertici dai quali scaturiscono provvedimenti palesemente inadeguati a contrastare i processi di divergenza in corso. Una ignavia politica che può sembrare giustificata nelle fasi meno aspre del ciclo e di calma apparente sui mercati finanziari, ma che a lungo andare avrà le più gravi conseguenze.

Come una parte della comunità accademica aveva previsto, la crisi sta rivelando una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea. Le autorità europee hanno compiuto scelte che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all’inasprimento della recessione e all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione. Nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera sottoscritta da trecento economisti lanciò un allarme sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità”: tali politiche avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Quell’allarme rimase tuttavia inascoltato. Le autorità europee preferirono aderire alla fantasiosa dottrina dell’“austerità espansiva”, secondo cui le restrizioni dei bilanci pubblici avrebbero ripristinato la fiducia dei mercati sulla solvibilità dei paesi dell’Unione, favorendo così la diminuzione dei tassi d’interesse e la ripresa economica. Come ormai rileva anche il Fondo Monetario Internazionale, oggi sappiamo che in realtà le politiche di austerity hanno accentuato la crisi, provocando un tracollo dei redditi superiore alle attese prevalenti. Gli stessi fautori della “austerità espansiva” adesso riconoscono i loro sbagli, ma il disastro è in larga misura già compiuto.

C’è tuttavia un nuovo errore che le autorità europee stanno commettendo. Esse appaiono persuase dall’idea che i paesi periferici dell’Unione potrebbero risolvere i loro problemi attraverso le cosiddette “riforme strutturali”. Tali riforme dovrebbero ridurre i costi e i prezzi, aumentare la competitività e favorire quindi una ripresa trainata dalle esportazioni e una riduzione dei debiti verso l’estero. Questa tesi coglie alcuni problemi reali, ma è illusorio pensare che la soluzione prospettata possa salvaguardare l’unità europea. Le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro. Il riassorbimento di tali squilibri richiederebbe un’azione coordinata da parte di tutti i membri dell’Unione. Pensare che i soli paesi periferici debbano farsi carico del problema significa pretendere da questi una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee.

Nel 1919 John Maynard Keynes contestò il Trattato di Versailles con parole lungimiranti: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». Sia pure a parti invertite, con i paesi periferici al tracollo e la Germania in posizione di relativo vantaggio, la crisi attuale presenta più di una analogia con quella tremenda fase storica, che creò i presupposti per l’ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale. Ma la memoria di quegli anni sembra persa: le autorità tedesche e gli altri governi europei stanno ripetendo errori speculari a quelli commessi allora. Questa miopia, in ultima istanza, è la causa principale delle ondate di irrazionalismo che stanno investendo l’Europa, dalle ingenue apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male fino ai più inquietanti sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo.

Occorre esser consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle sole “riforme strutturali”, il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro.

 

Promosso da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), il “monito degli economisti” è sottoscritto da Philip Arestis (University of Cambridge), Wendy Carlin (University College of London), Giuseppe Fontana (Leeds and Sannio Universities), James Galbraith (University of Texas), Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche), Eckhard Hein (Berlin School of Economics and Law), Alan Kirman (University of Aix-Marseille III), Jan Kregel (University of Tallin), Heinz Kurz (Graz University), Theodore Mariolis (Panteion University, Athens), Alfonso Palacio-Vera (Universidad Complutense Madrid), Dimitri Papadimitriou (Levy Economics Institute), Pascal Petit (Université de Paris Nord), Dani Rodrik (Institute for Advanced Study, Princeton), Willi Semmler (New School University, New York), Engelbert Stockhammer (Kingston University), Tony Thirlwall (University of Kent).
...ed anche: Rania Antonopoulos (Levy Institute), Georgios Argeitis (Athens University), Jean-Luc Bailly (Université de Bourgogne), Amit Bhaduri (Javaharlal Nehru University), Guglielmo Chiodi (Sapienza Università di Roma), Mario Cassetti (University of Brescia), Julio Castellanos (Universidad Nacional Autonoma de Mexico), Laura Chies (University of Trieste), Eugenia Correa (Universidad Nacional Autonoma de Mexico), Romar Correa (University of Mumbai), Marcella Corsi (Sapienza University of Rome), Terenzio Cozzi (Università di Torino), Jerome Creel (OFCE,Paris), Apostolos Dedoussopoulos (Panteion University, Athens), José Deniz (Universidad autonoma de Zacatecas), Henk de Vos (University of Groningen), Davide Di Laurea (Istat), Amedeo Di Maio (Universitàdi Napoli l'Orientale), Carlo D'Ippoliti (Università Sapienza di Roma), Denis Dupre (University of Grenoble Alps), Dirk Ehnts (Berlin School of Economics and Law), Eladio Febrero (University of Castilla-La Mancha, Spain), Aldo Femia (Istat), Jesus Ferreiro (University of the Basque Country), Stefano Figuera (Università di Catania), Lia Fubini (Università di Torino), Nadia Garbellini (Università di Pavia), Giorgio Gattei (Università di Bologna), Christian Gehrke (University of Graz), Andrea Ginzburg (Università di Modena e Reggio Emilia), Claudio Gnesutta (Università La Sapienza, Roma), Peter Howells (UWE, Bristol), Spartaco Greppi (SUPSI-DSAS, Switzerland), Jesper Jespersen (Roskilde University), Bruno Jossa (Università Federico II, Napoli), Nikolaos Karagiannis (Winston-Salem State University), Steve Keen, Stephanie Kelton (University of Missouri), John King (La Trobe University), Christian Lager (Graz University), Dany Lang (CEPN, Paris), Kazimierz Laski (University of Linz), Joelle Leclaire (SUNY Buffalo State), Stefano Lucarelli (Università di Bergamo), Cristina Marcuzzo (Università di Roma La Sapienza), Michela Massaro (Università del Sannio), Jo Michell (UWE, Bristol), Thomas Michl (Colgate University, NY), Lisandro Mondino (Universidad de Buenos Aires), Guido Ortona (Università del Piemonte Orientale), Paolo Palazzi (Sapienza Università di Roma), Sergio Parrinello (Università La Sapienza Roma), Stefano Perri (Università di Macerata), Antonella Picchio (University of Modena and Reggio Emilia), Gustavo Piga (Università di Roma 'Tor Vergata'), Paolo Pini (Università di Ferrara), Fabio Petri (Università di Siena), C. J. Polychroniou (Levy Economics Institute), Nicolas Pons-Vignon (University of the Witwatersrand, Johannesburg), Pier Luigi Porta (University of Milano Bicocca), Aderak Quintana(Universidad autonoma de Zacatecas), Srinivas Raghavendra (National University of Ireland, Galway),Paolo Ramazzotti (Università di Macerata), Sergio Rossi (University of Fribourg), Alberto Russo (Università Politecnica delle Marche), Francesco Saraceno (OFCE, Paris), Malcolm Sawyer (Leeds University), Domenico Scalera (Università del Sannio), Stephanie Seguino (University of Vermont), FelipeSerrano (University of the Basque Country), Francesca Stroffolini (Università Federico II di Napoli), Andrea Terzi (Franklin College Switzerland), Mario Tiberi (Sapienza Università di Roma), Guido Tortorella Esposito (Università del Sannio), Domenica Tropeano (University of Macerata), Achim Truger (Berlin School of Economics and Law), Lefteris Tsoulfidis (University of Macedonia), Faruk Ulgen (University of Grenoble), Leanne Ussher (City University, New York), Bernard Vallageas (Université Paris Sud), Carmen Vaucher de la Croix (SUPSI, Lugano), Marco Veronese Passarella (Leeds University), Yulia Vymyatnina (European University at St.Petersburg), Herbert Walther (Vienna University), Brigitte Young (University of Muenster), Grigoris Zarotiadis (Aristotle University of Thessaloníki), Alberto Zazzaro (Università Politecnica delle Marche), Gennaro Zezza (Levy Institute and Università di Cassino).

Link al testo www.theeconomistswarning.com

 

 

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Commenti

Bel commento

Bello davvero! Ne utilizzerò la trama sperando che certi "testoni" ammerikani comprendano

commento

Bellissimo commento, complimenti.

Il deficit delle competenze

“Il deficit della competenza è l’unico deficit veramente pubblico a cui ogni individuo dovrebbe prestare attenzione”.
Sono giunto a questa deduzione attraverso un percorso nel quale ho coinvolto in primis la mia famiglia e di pari passo amici e conoscenti, devo dire con grande difficoltà, dovuta soprattutto alla riluttanza di questi miei interlocutori a relazionarsi su questioni secondo loro troppo complesse e noiose, e delle quali, quindi, non vogliono interessarsi; oppure, hanno convinzioni talmente contrarie e radicate da definirti eretico .
Sono nato e vissuto in una famiglia borghese benestante in una zona del nord Italia la quale nel corso degli anni si era fortemente industrializzata. Mio padre e suo fratello, erano proprietari di un’azienda manifatturiera fondata nel 1850; nonostante il passaggio attraverso cambiamenti epocali, questa azienda rimase in vita, quali furono le dinamiche che le permisero di sopravvivere nei momenti più difficili?
Ho vissuto beatamente cinquant’anni della mia vita senza averne la minima idea, e di quale fosse la grande differenza tra la microeconomia e le politiche macroeconomiche. Mi ritrovo oggi a confrontarmi quotidianamente con persone che mi ricordano e rispecchiano quello che ero: cioè convinto di essere l’unico creatore delle mie fortune o delle mie sfortune; convinzione decisamente superficiale!!
Motivo principale del mio disinteresse è riconducibile al fatto che nessuno nel corso degli anni, soprattutto a scuola, mi ha fatto comprendere quanto fosse importante e necessario capire il funzionamento dei sistemi monetari, i quali, capisco solo ora, siano di fondamentale valore e regolatori delle nostre esistenze.
Prima di arrivare a queste conclusioni, ho vissuto trent’anni all’interno del sistema industriale e commerciale senza capire le dinamiche che permettevano a famiglie ed imprese di poter vivere dignitosamente.
Mi sono lasciato trasportare dagli eventi senza accorgermi di quello che stava succedendo. La mia unica convinzione imprenditoriale era una sola: ho la capacità di raggiungere qualunque obbiettivo. Ma non si può solo AVERE la capacità, senza ESSERE in condizione di capire quali altri fattori contribuiscono al raggiungimento degli obbiettivi stessi.
Gli interrogativi che mi sono posto dopo una vita da imprenditore trascorsa a creare opportunità di reddito ad altre famiglie così come alla mia, sono i seguenti. Perché ad un certo punto non sono stato più in grado di risolvere i problemi gestionali inerenti all’attività svolta? Perché non ho più avuto opportunità di vendita? Perché ho dovuto chiudere l’azienda manifatturiera di famiglia? Perché le famiglie ora non hanno un reddito sufficiente per arrivare a fine mese e quindi sono impossibilitate ad acquistare quello che hanno prodotto? Perché ora devo chiudere l’attività commerciale intrapresa successivamente con la mia compagna? Perché ai nostri figli che si affacciano al mondo del lavoro vengono imposti impieghi con stipendi che non garantiscono nessun tipo di indipendenza, se non con l’aiuto della famiglia a sua volta in difficoltà?
La risposta più comune di solito è: Governo ladro, colpa della casta, colpa di quello o di quell’altro; il mio punto di vista è che la colpa sia da ricondurre a noi tutti, e soprattutto alla mia incapacità di capire la democrazia. I parlamenti eletti con votazioni democratiche non sono altro che lo specchio di quello che siamo noi.
La democrazia ci è stata consegnata su un piatto d’argento molto tempo fa, ma noi famiglie e imprenditori non abbiamo avuto la capacità di utilizzare questo fantastico strumento con la giusta determinazione e competenza.

Per molti decenni ho ritenuto che l’unica mia responsabilità fosse quella di delegare attraverso il voto la gestione del sistema Governativo, senza preoccuparmi che io stesso dovevo avere ben chiare almeno le basi e i principi fondamentali di quelle politiche economiche, monetarie, sociali che coloro a cui avevo concesso il mio voto, colpevoli di incompetenza, lo avrebbero implementato. Questa è la mia risposta ai numerosi interrogativi precedenti.
Ma più precisamente: come potevano l'industria e le attività commerciali creare reddito sufficiente, e per gli imprenditori e per le famiglie, negli anni 70/80? Un imprenditore non può fare a meno di una forza lavoro e viceversa. Industria e famiglie sono parte dello stesso contenitore macroeconomico, egualmente utili e indispensabili. Chi ci permetteva di essere così gagliardi, chi dava all'industria la capacità di spesa per dare reddito alle famiglie e il conseguente risparmio che ne derivava? Non certo il solo saldo delle partite correnti, cioè la differenza contabile tra le importazioni e le esportazioni.
Rammento, in un periodo molto lontano della mia vita il momento in cui il tessuto industriale e non solo, venne distrutto da un alluvione. Era il 1968, avevo solo 8 anni, ma è ancora vivo in me il ricordo di quale fu la devastazione che ebbi modo di osservare nei giorni seguenti. La furia di quell’evento atmosferico non aveva risparmiato nulla: strade piene di fango, ponti crollati, frane ovunque che purtroppo, in diversi casi, avevano portato via con sé le case e i componenti delle famiglie che le abitavano. Un disastro. Molti furono i feriti e molti perirono, inoltre, la capacità produttiva industriale e commerciale di un’area molto vasta, era stata gravemente devastata.
Come sempre accade, ed in parte bisogna riconoscerlo, il merito della ricostruzione andò alla sola capacità dei singoli individui di tirarsi su le maniche, e al sistema industriale in condizione di risolvere ogni problema attraverso le proprie capacità imprenditoriali. Ora, attraverso i miei ricordi vorrei riportare alla mente di chi ha vissuto situazioni simili alcune considerazioni.
Come avremmo potuto fare senza un aiuto esterno, riportare in vita quello che era andato totalmente distrutto? Chi avrebbe ricostruito e con quali soldi, i ponti, le strade, le case, le aziende? Chi avrebbe ripulito e smaltito quelle montagne di macerie, come avrebbero potuto i comuni ripristinare le fognature i collegamenti stradali, gli acquedotti?
Quell’aiuto esterno non poteva arrivare che dal SISTEMA GOVERNATIVO. Quest’ultimo risolse attraverso un cospicuo intervento finanziario i problemi che a noi, imprese e famiglie, erano letteralmente piovuti addosso.
Centinaia di militari, pagati dallo Stato, con i loro potenti mezzi, ruspe, gru, macchine movimento terra, a ripristinare la viabilità, smaltendo macerie, aiutati dalle numerose aziende locali che operavano nel settore specifico , ricordo anche la presenza di numerosi studenti universitari provenienti da ogni parte d’Italia, che armati di pale e picchi si prodigarono ad aiutare come potevano. Senza contare i conti correnti aperti ai comuni per gestire l’unità di crisi dal SISTEMA GOVERNATIVO.
Mi sono chiesto solo ora, come avrebbe potuto lo STATO gestire quella mole di spese? TASSANDOCI? O immettendo nuova liquidità al netto,(nella contabilità dello Stato viene erroneamente denominata debito pubblico) permettendoci di ricostruire tutto.
Per l’azienda di famiglia dai racconti di mio padre, quella nuova liquidità fu un consistente aiuto Governativo a fondo perduto, con il quale dopo aver ripristinato i danni causati dall’alluvione, tale aiuto economico servì per effettuare nuovi investimenti produttivi, e inoltre mantenere e creare nuovi posti di lavoro, e non fummo sicuramente gli unici privilegiati.
Come ho potuto dimenticare?
Sovente accade, che molti ricordi si vanno a fissare in una parte nascosta della nostra mente e li dimentichiamo, ma non si cancellano: rimangono semplicemente in attesa di rivivere, ma dovremo avere onestà intellettuale di valutarli attentamente nel momento in cui si ripresentano.
Ricordo un periodo della mia adolescenza in cui conobbi dei ragazzi di un paese vicino. Fra questi uno in particolare con cui ho recentemente ricordato alcune situazioni che la mia mente aveva dimenticato, ma non cancellato.
Una sera poco tempo fa di fronte alla sua officina ci trovammo a discutere come facevamo quarant’anni prima. Parlammo dei problemi di lavoro ed economici che purtroppo sono diventati pensieri ricorrenti in ognuno di noi.
La discussione è subito volta verso l’impossibilità di continuare a portare avanti un’ impresa con un livello di tassazione come quello attuale, associato al concomitante calo del lavoro, ed ha iniziato ad imprecare contro il governo (ladro), i politicanti, i cinesi, l’incapacità dello Stato di attuare politiche in grado di rilanciare l’economia, i soliti discorsi insomma.
A questo punto gli ricordai, quando appoggiati allo stesso muretto molto tempo prima, la situazione fosse diversa, e chiesi:
- Ti ricordi quando contavamo a decine le macchine della SIP (Società Italiana per l’esercizio Telefonico, già Società Idroelettrica Piemontese)e dell’ENEL, che parcheggiavano nella tua officina nei posti che gli avevate assegnato?
-
Certo che mi ricordo, ma non capisco cosa c’entri con la crisi attuale.
-
- Rammenti che tutti i mesi dall’ufficio della tua officina venivano emesse fatture per l’affitto dei posteggi, intestate alla SIP e all’ENEL(aziende Governative) e chissà quante altre per i lavori effettuati ai loro mezzi, cambi olio, sostituzione pneumatici, manutenzioni varie; e ricordo che molti dei dipendenti Sip e ENEL ti portavano le proprie autovetture a riparare.
-
- E’ vero erano proprio bei tempi , ma… non capisco dove vuoi arrivare.
-
- Un’ attimo piano piano ci arriviamo. Ricordi quando ci arrivò la lettera di chiamata alle armi?
- Ricordi da chi erano prodotti i capi di abbigliamento che indossavamo? Drop, abbigliamento ginnico, mimetica, camicie, mutandoni, flanelle, scarpe ginniche, calze, cappelli, guanti.
- Ricordo perfettamente erano prodotti da aziende manifatturiere vicino a casa dove lavoravano praticamente tutti i clienti dell’officina. Addirittura anche il cappello!
- Quindi, è un po’ più chiaro il Governo ladro cosa faceva a noi famiglie e imprese?
-
- No.
-
- Il Governo ti dava lavoro, e regolarmente accreditava il conto corrente della tua officina per l’ammontare dell’affitto dei posti auto, e delle lavorazioni che effettuavi ai suoi mezzi, così come accreditava i conti correnti dei suoi dipendenti, che quando necessario ti portavano a riparare la loro autovettura.
- La stessa cosa accadeva nelle industrie manifatturiere che davano lavoro a migliaia di persone. Aggiungo inoltre che venivano prodotte sempre nella nostra zona, oltre alle divise militari, quelle di Alitalia, delle ferrovie dello Stato, dei postini, dell’Enel e di tutto quello che serviva allo Stato per vestire chi decideva di lavorare per esso e molto altro.

- Ora non dico assolutamente che lo Stato doveva essere il nostro unico cliente, non sarebbe assolutamente giusto, ma semplicemente ci aiutava a mantenere le nostre aziende arricchendo un po’ tutti, altresì a farci crescere, e adempire ad uno dei suoi compiti primari, mantenere sempre alto il livello occupazionale.

- Si va bene ora ho capito, ma cosa è successo allora in tutto questo tempo? In quel periodo davo lavoro a tre meccanici, ci lavoravo io, mio padre, e tre suoi fratelli, e sovente insegnavamo il lavoro a degli apprendisti (apprendistato), che fra l’altro una volta imparato il mestiere aprivano un’officina per conto loro, e non pensavo che avrebbero potuto portarmi via lavoro, poiché era sempre molto più di quello che eravamo in condizione di fare. Ora fatico a mantenere un solo meccanico, e molti miei colleghi chiudono.

- Purtroppo abbiamo smesso di pensare, di partecipare alla politica, ai problemi sociali. La nostra attenzione è solamente rivolta a noi stessi, alla nostra onnipotenza, e così facendo abbiamo contribuito ad accrescere a dismisura il nostro “deficit”.

- Ecco il deficit pubblico. Quello che non riusciremo mai a pagare e neanche mio figlio e nemmeno i miei nipoti. Lo dice sempre la televisione e lo scrivono anche i giornali, boia di un governo ladro…

- Si vabbè… non quel deficit, IL DEFICIT DELLE COMPETENZE…

Da questo breve dialogo, si comprende quanto sia difficile relazionarsi su questioni direi fondamentali, ma delle quali abbiamo conoscenze troppo superficiali; talmente superficiali da essere da me considerate ininfluenti, al punto che nel corso degli anni ho permesso con le mie azioni l’eliminazione delle capacità dello Stato a gestire le operazioni di carattere macroeconomico che ho precedentemente descritte, e più precisamente la domanda aggregata interna, in parole più semplici la capacità di spesa e di risparmio di famiglie ed imprese.
Erano gli inizi degli anni 80 ed entrai nell’azienda di famiglia per imparare quali erano i processi produttivi, conoscere i collaboratori, e successivamente i clienti ed i fornitori, linfa vitale di ogni impresa.
L’Italia in quel periodo era settima potenza al mondo e prima nazione per quel che riguardava il risparmio privato all’interno del sistema bancario. Per il sistema industriale Italiano un periodo particolarmente felice.
Ricordo mio zio, non perdeva occasione per sottolineare che avevamo un socio non gradito, e soprattutto inutile che pretendeva ogni anno attraverso la tassazione una buona parte dei nostri guadagni, Lo Stato, questo sconosciuto…
Non ricordo però problemi di sorta, nella gestione economica dell’azienda. Malgrado la presenza di questo socio così scomodo, nonostante tutte le tasse e gli oneri sociali che mio zio continuava a rammentarmi che ci toglievano il respiro, posso affermare che non stavamo affatto soffocando, anzi, eravamo in ottima salute. L’ordinaria amministrazione era gestita senza la necessità di linee di credito, e il sistema bancario era esclusivamente utilizzato per fare transitare incassi e pagamenti.


Ho vissuto per quarant’anni all’interno di un contenitore di pensiero, dove ogni suo componente in ogni concetto contabile afferma; è la tassazione che fornisce al governo le entrate di cui ha bisogno per poter spendere, ora a nostra insaputa è veramente così… BENVENUTO NELL’EUROZONA! E ben mi sta.
In realtà, è vero il contrario!
La spesa governativa forniva ulteriore reddito al settore non governativo, e ci permetteva
di estinguere gli oneri fiscali senza dover dipendere dalle sole nostre forze e dalle sole esportazioni. .
È chiaro che la spesa del governo doveva essere sufficiente per consentire che le tasse fossero pagate.
La mia capacità di comprendere quale fosse lo strumento gestionale più importante mi furono precluse o nascoste già nel periodo scolastico. Non ricordo o perlomeno non fu data la giusta importanza alle questioni monetarie. Come potevo entrare da protagonista nella vita reale, senza avere un minimo di competenza sulle questioni macroeconomiche, vitali per la nostra sopravvivenza.
Negli anni successivi, ho contribuito in maniera considerevole a distruggere inconsapevolmente lo strumento che ci permetteva di crearle, così impegnato a gestire una sorta di onnipotenza, cioè pensare e credere di essere l’unico plasmatore delle mie ricchezze.

Siamo tutti noi utilizzatori di strumenti, l’economia e il sistema monetario sono strumenti. Provate ad immaginare un coltello, è uno strumento, come l’economia e il sistema monetario. In funzione di chi li usa possiamo avere risultati diversi. Sia il coltello, l’economia e il sistema monetario possono essere usati per ferire o per farvi gioire.
Il coltello può essere usato per offendere, o per tagliare in armonia un pane; così l’economia e il sistema monetario possono essere usati per renderci felici o farci cadere in depressione o deflazione e non poter vivere una vita degna di essere vissuta.

Per una questione di contabilità in uno Stato con propria moneta (sovrana, non convertibile, flottante) il debito pubblico viene contabilizzato nel passivo di bilancio dove sarà la posta attiva? La risposta è una sola! Nei nostri conti correnti, nelle scuole che frequentano i nostri figli, così come nei conti bancari degli insegnanti che li educano o dei bidelli che tengono in ordine la struttura oppure nelle strade e nei mezzi di trasporto che utilizziamo per recarci al lavoro o per il nostro svago, e in tutti i servizi sociali che ci troviamo in condizione di dover utilizzare, o che lo Stato vuole farci gestire per migliorare la qualità della nostra vita, così come offrirci opportunità di sviluppare le nostre doti artistiche, teatrali, musicali, sportive…

Il valore di un prodotto a prescindere che sia alto o basso non è altro che una percezione, ed è determinato da fattori esterni riconducibili alla quantità di denaro in circolazione e sostanzialmente dalla nostra capacità di spesa.
Se partiamo dall’assunto che il denaro non è altro che un sistema di misura pari al metro al chilo o al chilometro, possiamo dedurre che il valore non potrà mai essere il denaro, ma sempre e solamente il prodotto o il servizio che andiamo ad acquistare.

SE CONSEGNI UN SOLDO AD UN BIMBO PER ACQUISTARE UN GHIACCIOLO QUALE SARA’ IL VALORE?
CHIEDETELO AL BIMBO LUI LO SA GIA’.