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La rotta d'Italia

La politica come professione. Onesta

10/01/2013

La rotta d'Italia. È diffusa l’opinione che la politica sia una serie di compromessi accettati per arricchirsi in fretta. Per vincere tale pregiudizio occorrono regole sicure, parole chiare, azioni trasparenti e un rapporto stretto con la società

Disincanto, sfiducia nei confronti del mondo della politica (non solo partitica) e disorientamento: sono i sentimenti che coinvolgono una parte significativa degli elettori. La novità che ci consegnano gli ultimi anni di egemonia berlusconiana, di sgretolamento progressivo della sinistra e di frammentazione dei conflitti e dei movimenti sociali è costituita dall’ampliamento del numero di elettori che è fortemente tentato dall’astensione alle prossime elezioni politiche.

Tra questi ci sono, come forse mai è avvenuto prima, moltissimi giovani, nati o cresciuti nell’era berlusconiana, ma ci sono anche molte donne e molti uomini che hanno alle spalle un intenso impegno politico e sociale, una lunga storia di movimento e di battaglie civili. È questa parte dell’elettorato, potenzialmente astensionista, che nulla ha a che vedere con quell’area di elettori facilmente manipolabile dalle diverse forme di populismo qualunquista, che deve preoccuparci di più e che sollecita qualche riflessione, nell’ambito della discussione su “La rotta d’Italia” aperta da Sbilanciamoci.info due giorni fa. Perché questo, più di altri, è un sintomo significativo dei gravi rischi che sta correndo la nostra democrazia.

La delegittimazione della politica tout court non è “la soluzione” dei mali del nostro tempo, come purtroppo qualche giornale malintenzionato, qualche comico in aspettativa e qualche “tecnico” abile sembrano riuscire a far credere anche ad una buona parte di elettorato intelligente, colto e dotato di senso critico. Al contrario, ciò che serve è una nuova rilegittimazione della Politica grazie al recupero del suo significato e delle sue finalità originarie – la politica come gestione della cosa pubblica, del bene comune, diremmo oggi – e alla condivisione di nuove regole capaci di curarne le patologie più insidiose.

Il lavoro politico, tanto al Parlamento romano, quanto nelle istituzioni rappresentative locali, è molto malvisto, spesso disprezzato, quanto meno osservato con diffidenza. Lo si ritiene una scorciatoia per arrivare in fretta all’agio economico e a una vita privilegiata. Spesso non è così e vi si dedicano persone altruiste e desiderose di realizzare il bene pubblico. Recenti episodi hanno però rafforzato l’opinione diffusa sulla scarsa qualità umana e sui pochi meriti di chi raggiunge i posti più ambiti; e taluno è convinto che sono proprio l’ambizione egoistica e l’arrivismo a essere premiati. La pessima fama attuale della politica si rovescia talvolta nel suo opposto e diventa, da pura ricerca di rimedi e correttivi, un male in sé ed è spesso funesta per la vita della democrazia. Dobbiamo ribellarci a un cattivo uso della critica, ma senza cadere nell’orgoglioso atteggiamento di chi si defila e – per non rischiare il contagio, o il sospetto di un possibile contagio – resta ai margini della vita collettiva.

Occorrono regole precise. Servono per aiutare chi, dopo un lungo impegno civile e sociale nel mondo dei movimenti, si rende disponibile a passare un periodo nelle istituzioni rappresentative, che, prima di impegnarsi, ci chiederà consiglio e discuterà le proposte. Sì, perché, detto per inciso, per chi è abituato a praticare la politica dal basso, nelle piazze, dalla parte dei diritti e delle minoranze, fare questa scelta oggi comporta dei privilegi, ma richiede soprattutto un grande coraggio.

Ma torniamo alle regole. In primo luogo chi sceglie di portare in Parlamento la voce dei movimenti dovrebbe impegnarsi a mantenere con questi un rapporto sistematico, facilitando le relazioni e le contaminazioni tra questi e le istituzioni. Contaminazioni che dovrebbero tradursi non solo in un lavoro parlamentare capace di assumere i contenuti delle molte battaglie rimaste inascoltate in questi anni sui temi dei diritti sul lavoro, del welfare e dell’ambiente, sulle questioni della pace e della lotta al razzismo, sui diritti civili e sulla cooperazione internazionale, ma dovrebbero riguardare anche lo stile di lavoro e di comunicazione, le forme e le sedi dei rapporti tra gli eletti e gli elettori.

Il lavoro di mediazione sarà inevitabile, soprattutto se gli equilibri parlamentari non consentiranno ampi margini di autonomia, ma la disponibilità alla mediazione non dovrebbe compromettere la coerenza rispetto alla salvaguardia e alla difesa di alcuni principi e diritti fondamentali. Il nuovo eletto dovrebbe riferire prima e dopo, secondo scadenze previste, sul suo operato in sedi di movimento, alle persone rappresentate.

Per quanto sordida possa sembrare a taluno una preoccupazione materiale, sarebbe saggio prevedere un’indicazione massima di introiti e benefici. Una novità decisiva dovrebbe consistere in un concreto distacco dall’aspetto finanziario dell’attività precedente per evitare ogni pericolo di conflitto d’interessi.

Rinunciare alla politica degli annunci, comunicare in modo chiaro, semplice e facilmente comprensibile a tutti ciò che si fa e che si è fatto Non interessa ai più chi è il nemico di chi, interessa molto invece ciò che si intende fare e che si farà concretamente. Ecco un’altra regola che potrebbe contribuire a riavvicinare l’elettorato diffidente agli eletti e alla partecipazione politica.

Infine il rifiuto di un’eccessiva personalizzazione del proprio operato istituzionale e, al contrario, il mantenimento di una forte caratterizzazione e valenza collettiva delle scelte e delle battaglie politiche condotte in Parlamento, potrebbero contribuire a curare sul piano culturale, prima ancora che dal punto vista operativo, quella politica malata che risulta così invisa all’opinione pubblica e, forse, anche ad una parte dei nostri amici lettori.

 

 

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Commenti

Ma che dice il vecchio Guglielmo?

Guglielmo Ragozzino, nell’articolo La politica come professione. Onesta, pubblicato su il manifesto del 12 gennaio 2013, è preoccupato dall’astensionismo di quella nutrita parte di elettorato che, pur avendo “alle spalle un intenso impegno politico e sociale, una lunga storia di movimento e di battaglie civili”, nutre disincanto e sfiducia verso il mondo della politica. Costoro, potenzialmente di sinistra, giovani o meno, vanno, a suo dire, in qualche modo recuperati.
Cosa propone il simpatico e noto giornalista a questo fine?
Intanto l’esigenza di contribuire a far cambiare loro idea poggia sul preconcetto che la vera politica sia collocata in altro luogo, diverso e migliore da quello in cui essi, poverini, la immaginano. La politica, quella che occorrerebbe rilegittimare recuperando il suo significato effettivo e le sue finalità originarie, risiede nella gestione della cosa pubblica, del bene comune, ci dice Guglielmo Regozzino. Una volta fissato il suo scopo, per tornare a credere in essa come d’incanto, aggiunge, basterebbe darsi regole ben precise. Ad esempio, l’impegno dell’eletto a mantenere rapporti contagiosi con i movimenti, l’indicazione di massima dei suoi introiti e benefici, il rifiuto della politica degli annunci e della eccessiva personalizzazione, sarebbero norme minime e ragionevoli.
Probabilmente è proprio l’insistenza a formalizzare regole, dopo essersi dato uno scopo che si fa beffe di ogni regola, a costringere molte persone particolarmente sensibili e dotate di senso civico, ad allontanarsi inesorabilmente dalla politica corrente, partitica e no. Perché, al contrario di quanto normalmente si pensa, l’onestà non è acquisibile costringendo gli uomini in gabbie fatte da ferree norme, ma realizzando relazioni vive in cui essa diviene di per sé un naturale valore.
È proprio questa la ragione per cui, con sempre maggiori energie, e in ogni angolo della Terra, si ricercano nuovi significati con cui declinare i modi dello stare insieme. E che ogni esperienza tesa a definire nuovi e coinvolgenti luoghi del comune, diviene preziosa più che l’osservanza di vecchi e abitudinari riti.
La politica, intesa come gestione della cosa pubblica da parte di un eletto legittimato a decidere dal consenso ottenuto, oltre che a sancire la delega come strumento delle democrazia - unico strumento, quasi fosse, della politica, il pensiero unico e inamovibile - divide l’umanità tra chi ha il potere della decisione e chi non lo ha affatto. Concentra il potere nelle mani di pochi. Abitua all’idea che l’uomo comune, quello che è costretto al lavoro per poter vivere, sia impotente e incapace a prendere decisioni. Che queste ultime siano sempre più difficili e, quindi, sempre più bisognose di tecnici e specialisti dei vari settori e insieme, sempre più lontane da coloro che per necessità debbono occuparsi d’altro.
È logico che questa politica separata dalla vita necessiti di regole che costringano l’eletto in ambiti ben precisi. Perché essa acquisisce la forza oggettiva e pericolosa della merce che, aiutata dallo spettacolo, dalla propaganda, dalla bella immagine e dal linguaggio accattivante che si accompagnano al denaro, riesce ad imporsi sul mercato e con ciò ad infinocchiare lo spossessato da ogni potere, il cittadino divenuto cliente, il poveruomo che ormai ha scambiato l’essere con l’avere. Questa politica, come ogni altra merce, possiede una forza che, però, non può essere imbrigliata da nessuna regola all’interno del nostro prevalente modello di società spacciato come unico ed eterno, perché qui regna la cosalizzazione del tutto, qui ogni cosa è merce, ogni cosa si fa merce.
E se noi abbandonassimo il tavolo su cui diretti interessati e apologeti in buona o cattiva fede ci hanno finora costretto, e partissimo dall'esigenza di concepire la politica come un fare teso al superamento della dicotomia governanti/governati e non alla sua perpetua riconferma?
Se ci sforzassimo di concepire la politica, non come cosa altra rispetto a ciò che facciamo quotidianamente, ma come l’essenza vera di ogni nostra piccola azione? Se, finalmente, concepissimo la politica come il modo e il luogo delle nostre relazioni? Come la pratica che ci connette gli uni agli altri e tutti insieme alla natura, animale, vegetale o inanimata che sia. Come ciò che deve evidenziare i nessi indissolubili con il nostro passato e, ancor più con il nostro futuro colmo di figli e nipoti che hanno diritti pari ai nostri?
Se avessimo una simile concezione della politica non avremmo bisogno di delegare a nessuno il potere del fare e del decidere. Capiremmo, finalmente, che il delegare non solo rimanda la decisione ad altri ma la rimanda pure ad altre epoche, magari rischiarate dal bel sol dell’avvenire ma comunque lontane anni luce dal tempo reale, caratterizzato dall'accettazione, dalla sudditanza e dalla sofferenza. Capiremmo di non aver bisogno né di delegare, né di aspettare che il delegato agisca, perché scopriremmo che l’azione risiede in noi già da oggi.
È tanto difficile capirlo?
Forse sì, ma se nel frattempo parecchi uomini si accorgessero che il potere che è nostro non è affatto delegabile, e neppure divisibile, al contrario di quanto finora ci hanno insegnato? Che nessuno mai potrà avere il diritto di decidere della nostra vita e della nostra morte in nessunissima circostanza? E che gli unici a fare siamo sempre stati noi, proprio noi, ultimi a cui hanno sempre insegnato che la storia è fatta da altri. A cui hanno inculcato l’idea che siamo solo pedine del fato imperscrutabile, di dio e di uomini fatti dei. Se davvero ciò stesse accadendo potremmo mai liquidare schifati queste tensioni come stupida antipolitica?
E se usassimo quel che la crisi che ci attanaglia può offrirci? Se usassimo quest’occasione per cambiare?
Se, finalmente, ci preoccupassimo di acquisire un po’ di consapevolezza circa la nostra reale forza? Quella che già esplichiamo quando, scegliendo i modi del nostro vivere, ricreiamo giorno dopo giorno il tanto odiato sistema capitalistico? Quando decidiamo cosa fare nel nostro tempo libero; quando decidiamo quali valori porre a guida del nostro esserci; quando accettiamo stupidamente come giusto e moralmente accettabile che il tempo del lavoro e il denaro che può conseguire solo da quello, siano determinanti a fondare il nostro stile di vita.
Se la smettessimo di preoccuparci di chi delegare e ci occupassimo di ciò che consegue veramente alle nostre quotidiane scelte e del potenziale enorme che è racchiuso nei nostri cuori e nelle nostre menti, non rischieremmo forse di liberarci da quella servitù volontaria a cui noi stessi ci siamo inchiodati?
Non avremmo fondato, così facendo, un nuovo modo di essere, un nuovo modo di relazionarci, una nuova politica?


Hannah Arendt e la partecipazione reale!

Per rifarsi ad una analisi ancora moderna (che prendo a prestito da Hannah Arendt) sullo spazio civile, civico e politico che deve essere usato da ogni cittadino perchè si evitino i totalitarismi e che deve essere presente accanto a quello domestico e della propria attività; possiamo benissimo affermare che quello spazio è una intersezione tra (per sintetizzare) le piazze ed il web; ovvero sconfina in proporzioni cui ognuno poi dà peso diverso, sia su internet che sull'incontro reale delle persone. Sul web però pare ci sia una maggiore prevalenza; ma lì si perdono alcuni attori importanti di un bacino elettorale che può fare la differenza: disoccupati, pensionati, immigrati ... quindi la sfida vera è la partecipazione reale non virtuale di quelle persone che consentirebbe un ritorno al voto; ma serve anche la capacità di fare progetti concreti con scadenze e di assumersene la responsabilità; andando a casa se non li si realizza!