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In difesa della faziosità

20/12/2011

MicroMega torna in edicola con un corposo miscellaneo dal titolo “A sinistra!” di cui anticipiamo il sommario e parte dell'articolo di Emilio Carnevali sulla presunta neutralità delle teorie economiche

Nella prima sezione la rivista interroga filosofi, sociologi e giornalisti sul senso odierno della “sinistra”: ha ancora valore questa parola o è una categoria novecentesca? Il direttore Paolo Flores d’Arcais vede nell’eguaglianza e la libertà le due “bussole” e individua nei movimenti la speranza per una nuova sinistra. Michael Hardt e Antonio Negri affidano ad un “nuovo potere costituente” la capacità di ristrutturare la sinistra. Per Alain Touraine la sinistra, invece, dovrebbe abbondonare l’idea astratta delle classi sociali e mettere al centro della sua azione politica gli individui. Sulla stessa scia, Cinzia Sciuto spiega le potenzialità “dell’individualismo virtuoso” che contraddistingue molti movimenti apparentemente non politici. Il filosofo Roberto Esposito auspica un passaggio dalla teologia economica ai beni comuni, mentre Edwy Plenel focalizza sul nodo dell’uguaglianza, “il diritto di avere diritti”, e Michael Walzer sottolinea come quella della sinistra sia un’eterna corsa ad ostacoli, una storia di sconfitte ma anche di grandi conquiste. Di contrapposizione tra popolo ed èlite scrive Laurent Joffrin, mentre Tahar Ben Jelloun individua nel liberismo selvaggio il nemico della sinistra, sia in Europa che nel mondo arabo. Emilio Carnevali si chiede se abbia senso parlare di “economisti competenti” e se la sinistra possa abbandonare la sua vocazione ‘faziosa’ senza snaturarsi, questione al centro anche del contributo di Miguel Benasayag. Chiude la ricca sezione il filosofo Jean-Luc Nancy, per il quale la sinistra non può che ripartire dall’evidenza del “noi siamo”.

Un vivace dialogo tra l’intellettuale Marco Revelli e il sindacalista Fiom Giorgio Cremaschi riporta alle dinamiche italiane: è necessario “baciare il rospo” Monti? Anche tre autorevoli esponenti di “movimento” – Francesca Comencini, Luca Casarini e Alberto Perino – si confrontano sulle prospettive future e sul nodo della rappresentanza ai tempi del governo Monti.

Ancora sui movimenti: il giornalista Federico Rampini intervista Kalle Lasn, l’‘‘inventore” di Occupy Wall Street; Benjamin Kunkel, Charles Petersen e Mark Roth, che conoscono in prima persona il movimento americano, spiegano il significato dello slogan “Siamo il 99 per cento!”; Fernando Savater sottolinea invece le contraddizioni e i limiti degli indignados spagnoli, mentre il sociologo Zygmunt Bauman analizza il ruolo dei movimenti nella “modernità liquida” e Sergio Luzzatto illustra il significato della parola “degnazione”, l’opposto dell’indignazione, tratteggiando grazie ai Promessi Sposi una vera a propria antropologia degli italiani.

Nella sezione labirinto: Valerio Gigante ricorda don Enzo Mazzi, prete del dissenso scomparso lo scorso 22 ottobre; Pierfranco Pellizzetti analizza i “berluschini di sinistra”, ovvero quegli esponenti del centrosinistra – Renzi in primis – incapaci di essere un’alternativa anche solo etica ed estetica al Cavaliere. Guido Caldiron fa un’analisi delle diverse rivolte che hanno scosso il mondo negli ultimi anni e Luciano Gallino esamina il modello Olivetti, la lezione industriale - tutt’altro che superata - di un capitalista democratico.

Infine, immancabile, lo “scherzo” di Alessandro Robecchi che indaga lo strano caso dell’ipnosi permanente degli italiani.

 

In difesa della faziosità

di Emilio Carnevali

Il governo Monti è stato celebrato da un tripudio di consensi al grido di ‘Finalmente la competenza al potere!’. Ma esistono davvero economisti ‘competenti’? La teoria economica può essere considerata una scienza dura al pari della fisica? I suoi interpeti dispensano ricette ‘neutre’ o influenzate da giudizi di valore? E quale ruolo può avere il punto di vista della sinistra in questo dibattito?

(…) Abbiamo a che fare con una crisi nata dallo squilibrio della dinamica degli interessi in seno alle società occidentali, e in primo luogo alla società americana. Un trentennio di redistribuzione dal basso verso l’alto e di deregolamentazione dell’economia e della finanza ha gettato le basi di un terrificante corto circuito planetario da ultimo sfociato nella crisi dei debiti sovrani europei.

Ma questa redistribuzione non è – come più di qualcuno ha propagandato per anni – il semplice frutto dell’apertura internazionale dei mercati accompagnata dal travolgente sviluppo dell’Information and Communication Technology. Sono entrambi fattori che hanno certamente contribuito a produrre una crescita del divario retributivo fra lavoratori skilled (capaci di cavalcare la rivoluzione tecnologica) e lavoratori unskilled (esposti alla competizione di una considerevole massa di lavoratori non qualificati dei paesi in via di sviluppo, patrie delle nuove manifatture dell’economia globale). Tuttavia non devono essere considerati separatamente dalla «mano ben visibile» di una portentosa rivoluzione conservatrice avviatasi alla fine degli anni Settanta e dispiegatasi pienamente con i governi di Ronald Reagan e Margareth Thatcher. Una rivoluzione che ha imposto una forte riduzione dell’imposizione fiscale sui redditi più alti e sulle imprese, un cambiamento radicale della legislazione sul lavoro e un attacco sistematico al potere sindacale.

Erano i tempi – giunti sino all’altro ieri per la ridondanza della propaganda ideologica dispensata – dell’«alta marea che tira su tutte le barche». E non importava se mentre cresceva la marea si assisteva contemporaneamente a una massiccia riduzione della quota dei salari rispetto ai profitti e alle rendite nella composizione del prodotto interno lordo (in Italia, fra il 1976 e il 2006, 15 punti di Pil sono stati trasferiti dai salari ai profitti, con una media dei paesi Ocse comunque altissima, intorno ai 10 punti).

Dobbiamo dunque tornare a fare distinzioni «fra una barca e l’altra»? È stato un filosofo liberale come John Rawls a spiegarci come l’universalismo illuminista – da cui discende quasi ogni filone di quei proteiformi movimenti di lotta e di pensiero rubricati sotto la categoria di «sinistra» – non esclude, anzi presuppone, un punto di vista parziale. O per meglio dire – con una formula più complicata ma più attinente al ragionamento rawlsiano – universale in quanto dotato di parzialità dentro condizioni di disinteresse.

(…) Ricordare l’intrinseca «parzialità» di cui è intriso il concetto di giustizia anche nella sua accezione liberale potrebbe essere un esercizio utile soprattutto in tempi in cui la pretesa neutralità della «competenza» rischia di mettere fuori gioco la politica come arte di composizione degli interessi e dunque, in ultima analisi, gli stessi princìpi della democrazia. Ne abbiamo avuto una prova lampante nella portentosa campagna mediatica che ha accompagnato l’ascesa al governo del «supertecnico» Mario Monti.

Che cosa vuol dire essere un economista competente? È più o meno come essere un biologo competente, o un idraulico competente? La scienza economica può essere considerata alla stessa stregua delle scienze naturali, della loro pretesa di rigore oggettivo ed esattezza matematica?

Si dà il caso che sono molte le questioni sulle quali nella «comunità degli economisti» non si è affatto d’accordo, per quanto a volte si tenda a presentare questa disciplina come una architettura di proposizioni assolutamente sistematiche e coerenti. Lo hanno sottolineato con impareggiabile efficacia gli studenti di una delle università più prestigiose del mondo, Harvard, i quali hanno scritto una lettera aperta al loro docente Gregory Mankiw. Quest’ultimo, autore di uno dei più diffusi manuali universitari di macroeconomia («il Mankiw» è insieme al «Blanchard» il testo più adottato anche nelle università italiane), è stato accusato di offrire nelle sue lezioni una «specifica – e limitata – visione dell’economia», la quale perpetua «assetti di disuguaglianza economica inefficienti e problematici nella nostra società». «Uno studio accademico legittimo di economia», si legge ancora nella lettera pubblicata dalla Harvard Political Review, «deve includere una discussione critica sia dei vantaggi che dei difetti dei differenti modelli economici semplificati. Siccome il suo corso non include fonti primarie e raramente adotta articoli di riviste accademiche, ci ritroviamo con uno scarso accesso ad approcci economici alternativi». E per manifestare con un gesto ancor più plateale questo disagio un nutrito gruppo di studenti ha abbandonato la lezione del 2 novembre unendosi alla marcia del movimento Occupy Wall Street in programma quel giorno a Boston.

È molto riduttivo pensare all’economia come a una scienza esatta nella quale è possibile effettuare gerarchie e catalogazioni solo sulla base del principio della competenza. Anche nell’attuale dibattito sulla crisi e sul cosa fare per uscirne si fronteggiano varie analisi, differenti ricette, molteplici proposte di soluzioni. I precetti dei monetaristi saranno certamente diversi da quelli dei neokeynesiani: per fare un esempio specifico lo stesso Mankiw, che non è un monetarista benché sia stato in passato capo dei consiglieri economici di un presidente di ultradestra come George W. Bush, si è dichiarato nettamente a favore della politica monetaria espansiva promossa dal governatore della Fed, la banca centrale americana, Ben Bernanke. A loro volta le soluzioni proposte da monetaristi e neokeynesiani – e da tutti quegli studiosi che potremmo far convergere nella macrocategoria del mainstream – saranno differenti da quelle caldeggiate da studiosi di matrice «eterodossa». Riferendoci con questa etichetta – forse un po’ grossolana – a tutti coloro che si rifanno a scuole keynesiane in senso stretto (cioè fondate sulla centralità della domanda anche nel lungo periodo), oppure a idee sraffiane, kaleckiane, marxiste eccetera.

Inoltre il piano analitico-strumentale – quello sul quale ad esempio si fronteggiano diverse opinioni sul fatto che una misura o un dispositivo sia più o meno efficace per il perseguimento di un determinato obiettivo – non è l’unica dimensione del ragionamento. Molti economisti ci tengono a sottolineare che le loro proposizioni sono assolutamente scevre di giudizi di valore – come in politica molti populisti tengono a precisare che le loro proposte non sono «né di destra né di sinistra». Si tratta di affermazioni da vagliare con una doverosa dose di sospetto. (…)

Vi è infine un terzo elemento rilevante specialmente quando si fa riferimento al sistema finanziario: la realtà che si cerca di studiare attraverso i modelli matematici potrebbe rivelarsi un giorno non altro che un prodotto, una creazione di questi stessi modelli. È il problema della performatività delle teorie economiche indagato da studiosi come Donald MacKenzie, secondo il quale la scienza economica «esegue, configura e formatta l’economia, piuttosto che osservare come funziona». Si potrebbe obiettare: questo fatto certifica l’assoluta affidabilità dei modelli in questione, che rappresentano la «fisiologia» e la «meccanica» del sistema un po’ come le righe dei programmi per un calcolatore. Non può esistere un livello superiore di «scientificità», di capacità predittiva!

Non è proprio così, come spiega Luciano Gallino nel suo ultimo libro Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi (Einaudi 2011): «Il guaio è che la performatività delle teorie economiche ha un risvolto: la contro-performatività. Se una teoria risulta vera non perché descrive correttamente una realtà indipendente da essa, ma piuttosto perché gli attori coinvolti agiscono anticipatamente come se fosse vera, creando in tal modo una realtà totalmente dipendente dalla sua rappresentazione modellizzata, è molto probabile che quando gli attori smettono di credere alla attendibilità della teoria, la realtà da questa creata vada in frantumi».(…)

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