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Occupazione e moneta. Secondo Keynes
Perchè si può, e si dovrebbe, ricercare una soluzione Secondo Keynes. Qualche riflessione a partire dal libro di Carabelli e Cedrini edito da Castelvecchi
Nelle pagine finali della Teoria generale, Keynes, dopo aver costruito il suo edificio teorico con riferimento a un’economi chiusa, sembra aver un sussulto e, ricollegandosi ai temi del sistema economico internazionale che l’avevano fino ad allora occupato, afferma che “in un sistema interno di laissez faire e con un regime aureo internazionale (…) non vi era alcun mezzo disponibile per il governo di mitigare la depressione economica all’interno salvo la lotta di concorrenza per la conquista dei mercati”. Lo sforzo teorico appena concluso gli fa affermare che “le nazioni possono imparare a costituirsi una situazione di occupazione piena mediante la loro politica interna” e così facendo costruire un nuovo sistema internazionale che “potrebbe essere più favorevole alla pace di quanto lo sia stato il vecchio.”
Oggi, in un momento in cui, dopo una lunga fase di trasformazioni, il sistema di Bretton Woods si è rimodellato sulle “vecchie” basi, non è possibile disinteressarsi della sua architettura se si vuole comprendere le difficoltà che incontrano le singole nazioni nel trovare un soddisfacente equilibrio interno. Ad affrontare la complessità del problema ci aiuta il denso “Pamphlet” - collana della Castelvecchi Editore - di Anna Carabelli e Mario Cedrini la cui esposizione accurata delle trasformazioni registrate dal sistema monetario internazionale negli ultimi settant’anni è alla base dell’interpretazione suggestiva del perché si possa, si debba, ricercare, come dice il titolo del libro, una soluzione Secondo Keynes (il cui sottotitolo è Il disordine del neoliberismo e le speranze di una nuova Bretton Woods, Roma: Castelvecchi Editore, 2014, p. 116, € 10,20.
In poche righe non è possibile riprendere i molti e importanti spunti del libro; è però possibile ripercorrere i suoi punti principali utilizzando come guida il concetto di «policy space» che, come gli Autori ricordano, indica “la libertà e la capacità di un governo di «identificare e perseguire il mix di politiche economiche e sociali appropriato per ottenere il processo di sviluppo equo e sostenibile più adatto allo specifico contesto nazionale»”. Analizzare lo spazio di politica economica che, nel rispetto delle regole internazionali, è lasciato all’autonomia e sovranità del paese non solo è utile per la ricostruzione, rapida ma ricca di dettagli anche bibliografici, del sistema di Bretton Woods e dei successivi sviluppi, ma anche perché permette di riflettere sui nodi che, nella situazione attuale, condizionano le politiche economiche nazionali.
Carabelli e Cedrini parlano dell’ordine internazionale uscito da Bretton Woods in termini di “magia e mito”. Se “magico” è risultato il sostegno al modo di sviluppo dell’“età dell’oro del capitalismo”, l’aspetto “mitico” può essere compreso solo tenendo conto che la sua efficacia è dipesa dal costituirsi di un «mondo à la Bretton Woods» dovuto ad «alcune circostanze estremamente favorevoli che hanno accompagnato i suoi primi anni di vita». Vi hanno contribuito alcune condizioni istituzionali e di politica economica, quali l’adozione del Piano Marshall che, non previsto negli schemi di Bretton Woods, ha confermato la visione di Keynes di come i paesi possono uscire dalla crisi con la «ristrutturazione del debito attraverso un piano condiviso e garantito dai surplus countries». Fattori importanti sono stati anche la posizione degli Stati Uniti come «creditori del mondo»; la loro politica monetaria che, detronizzando l’oro, ha garantito la liquidità necessaria agli squilibri delle bilance dei pagamenti; gli stretti controlli dei movimenti finanziari internazionali. È la situazione complessiva che ha garantito uno space policy progressivo che permette, per un periodo non breve, politiche interne espansive con bilance dei pagamenti sotto controllo.
Il mondo à la Bretton Woods si modificherà negli anni settanta trasformandosi in un assetto istituzionale in cui l’abolizione del controllo pubblico sui flussi finanziari con l’estero mette in difficoltà i paesi nel perseguire politiche interne per l’occupazione. Inizia il periodo di «disordine del neoliberismo» e l’avvento di quel Washington Consensus che, dichiarando «esplicitamente guerra a quella concezione dello sviluppo, protetta dal mondo di Bretton Woods», mira a sovvertire gli assetti istituzionali interni (intervento pubblico in economia, politiche industriali, sostegno bancario all'economia privata ecc.) per adeguarli al modello di organizzazione socio-economica occidentale fondato sui “dieci comandamenti” che accompagnano le condizionalità dal Fondo monetario e Banca Mondiale, allargati poi con l’estensione della regolamentazione finanziaria anglosassone, l’adesione agli accordi del WTO, l’indipendenza delle banche centrali, la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Lo spazio della politica interna viene così assoggettato alla disciplina dei poteri (finanziari) internazionali e il mancato rispetto delle «norme presuntamente universali di un'economia di mercato» è sufficiente per rifiutare l’aiuto ai paesi in difficoltà e costringerli ad adottare l’agenda del Washington Consensus.
Misurato in termini di stabilità, l’ordine mondiale di questo “non-sistema” si dimostra disastroso per la sequenza di crisi finanziarie (Messico, sud-est asiatico, Argentina) direttamente connesse all'idea che, adottando le politiche monetarie restrittive del Fondo Monetario, gli investimenti esteri avrebbero garantito la crescita interna. Gli stessi effetti necessari al successo di questa strategia anti-inflazionistica (sopravvalutazione del tasso di cambio, ingente afflusso di capitali esteri) costituiscono altrettanti impedimenti alla ristrutturazione interna necessaria al rilancio della crescita.
Non ha alcun senso riferirsi al sistema che si è venuto affermando come una «Bretton Woods II» poiché il suo assetto istituzionale e politico è diametralmente opposto a quello di un «embedded liberalism» che qualificava il modello di sviluppo internazionale dell’“età dell’oro del capitalismo” nel quale la libertà di commercio su basi multilaterali e l’esistenza di controlli, anche sui movimenti di capitale, risultavano compatibili, come proponeva Keynes, con una disciplina internazionale che lasciava spazio ai governi nazionali per intervenire nella vita interna, economica e sociale.
Affrontando la realtà odierna, Carabelli e Cedrini si richiamano al “trilemma di Rodrik” che sostiene che i tre processi - globalizzazione, democrazia, sovranità nazionale - non sono tra di loro compatibili, se non a due a due. In presenza di una finanza globalizzante, non rimarrebbe che arrendersi o all’illusione di un federalismo globale non certamente all’orizzonte o all’accettazione di una trasformazione autoritaria delle istituzioni interne per adeguarle alle perentorie regole della competitività internazionale in modo da riscuotere la fiducia dei mercati finanziari (la cosiddetta golden straitjacket).
Se non si vuole che sia la democrazia ad essere il terzo escluso, è necessario salvaguardare il policy space nazionale accettando una «maggiore integrazione in luogo della piena integrazione»; una prospettiva, argomentano efficacemente i due Autori, che rispecchia la ricerca di un “compromesso sostenibile tra le esigenze disciplinari del sistema (internazionale) e quelle autonomistiche degli stati membri”. È in fin dei conti la conclusione alla quale perviene Keynes al termine del suo percorso intellettuale; esemplare a questo riguardo è il suo piano per la Clearing Union, istituzione sovranazionale alla quale Keynes riteneva che si dovesse affidare la gestione degli squilibri globali utilizzando “un mix composto da una moneta realmente internazionale, regole simmetriche per l’aggiustamento, possibilità di controlli sui capitali, e politica monetaria globale in armonia con gli interessi del sistema”; il suo atteggiamento a difesa dell'eterogeneità delle nazioni e del loro diritto di «gestire le economie e proteggere i loro contratti sociali» si spinge fino a rivendicare pragmaticamente la “necessità dei controlli sui capitali” per preservarle “dalla spinta all'uniformazione esercitata dagli investitori internazionali”. Si ha qui l’espressione piena della sua «fondamentale differenza di filosofia e di metodo» (rispetto a quella americana, neoliberista) per una “visione dell'economia come scienza morale e dell'economico come mezzo anziché come fine”.
Sebbene la riflessione di Carabelli e Cedrini sia rivolta a riscoprire “il potenziale inesplorato” di quel pensatore della complessità dell'integrazione economica internazionale che è stato Keynes, ugualmente la loro argomentazione, sorretta da quel filo rosso che è il policy space, si dimostra utile per interpretare le difficoltà dell’Europa di fronte all’aggravarsi della situazione economica.
Rifacendosi al trilemma di Rodrik, e in particolare alla situazione di golden straitjacket nella quale sono forzati i paesi europei, i due Autori sottolineano come, contrariamente alla narrazione dominante, l’attuale processo globale ha preso la forma di una gated globalization, della formazione di aree mondiali (si pensi al Sud-est asiatico e all’America latina in particolare) che, contrapponendosi alle pressioni del liberismo, tentano di costruire un’organizzazione economica e sociale in grado di coniugare gli obiettivi interni con la partecipazione al mercato mondiale. Essi sostengono che, in questa direzione, l’Europa “ha un'opzione in più”, un “federalismo - non globale ma europeo –” capace di un futuro di solidarietà se riesce a riconquistare la propria libertà di scelta politica per perseguire, attraverso il controllo della finanza, la piena occupazione interna.
Questa prospettiva richiede però che l’Europa non si rinchiuda nella “gabbia” del TTIP - priorità per Junker e per il governo-Renzi – che con la rinuncia alla sua “diversità” la farebbe ricadere in un atlantismo socialmente indifferenziato. Una politica europea che vuole preservare il proprio policy space richiede - riprendendo le critiche di Keynes del periodo tra le due guerre ai paesi in surplus - un'assunzione di responsabilità da parte della Germania che, come paese leader e con una “visione generale”, avrebbe l’onere di garantire a tutti i paesi membri politiche interne progressive per loro e per il sistema intero. La domanda radicale che il libro pone è se la Germania, e l’Europa, possa e voglia definire una politica che abbia al centro l’occupazione e il suo legame con il territorio e se, partendo da un tale obiettivo “nazionale”, si senta impegnata a ricostruire un ordine (finanziario) internazionale non contraddittorio con l’obiettivo interno. Ma anche qualora mancasse una scelta europea in questa direzione, i singoli paesi non dovrebbero rinunciare a costruirsi le condizioni per garantirsi la piena occupazione interna poiché solo così “il commercio internazionale cesserà di essere «quello che è attualmente, un disperato espediente per preservare l'occupazione interna forzando vendite di merci sui mercati stranieri e restringendo gli acquisti» ed essere invece fattore di vantaggio reciproco in modo che vengano meno le ragioni economiche dei conflitti nazionalistici. Una conclusione che rende evidente come l’argomento e l’argomentazione di Secondo Keynes rappresenti un’occasione preziosa per comprendere e per decidere come affrontare aspetti nodali del nostro futuro.
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