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Protezionismo, il nuovo male assoluto secondo Davos
Purtroppo la crisi economica avanza, minacciando sempre più posti di lavoro anche nei Paesi ricchi. Di fronte all'incapacità dei governi di far fronte alle sue cause sistemiche, limitandosi per il momento ad interventi a pioggia di corporate welfare per i soliti “poveri” noti, diversi ministri del commercio e delle finanze dei paesi che contano, riunitisi a Davos nel contesto quanto mai sobrio e sommesso del World Economic Forum 2009, hanno provato a trovare unità identificando il nuovo nemico comune da combattere. A guidare la nuova crociata il premier inglese Gordon Brown, l'architetto della City “speculativa” di Londra, alla ricerca di un modo per parlare di economia reale evitando di dire come mettere invece la finanza pesantemente sotto controllo.
Oramai il pericolo Islam ed Al Queda sembra passato in secondo piano, con la tregua in Medio Oriente e l'apertura iniziale del presidente Obama al mondo arabo. Allora è necessario individuare un nuovo male assoluto, meglio ancora se nella sfera economica. Ma certo, eccolo individuato nel protezionismo, sia commerciale che finanziario. Brown e compagni e gran parte degli economisti - ortodossi e non - sono pronti a ricordarci come il protezionismo acuì la grande depressione e ci portò all'incubo degli anni Trenta, del nazionalismo e quindi della Seconda Guerra Mondiale.
Per questo il “capo” della Wto Pascal Lamy sta cercando di vendere la chiusura del negoziato di nuove liberalizzazioni commerciali lanciato a Doha 2001 come la ricetta centrale per far ripartire l'economia mondiale. Peccato che siano quasi otto anni che quel negoziato si sia impantanato più volte per i legittimi interessi di governi nazionali, nel Nord come nel Sud del mondo. Nel 2008 il commercio mondiale ha rallentato del 2 per cento, così come i tanker che girano per il mondo, riducendo per altro un po' le emissioni di gas serra. Addirittura gli attuali pacchetti pubblici di salvataggio sono criticati non per la mancanza di innovative condizioni rispetto al passato, ma perché troppo indirizzati al sostegno del mercato interno e dell'economia reale, più locale che globale.
Ancora una volta, pure di fronte a una crisi sistemica di dimensioni mai viste, l'ideologia liberista tarda a morire e prende il sopravvento sui fatti anche nelle menti più lucide e illuminate. I più importanti centri di ricerca mainstream del pianeta hanno documentato come la chiusura di un avanzato Doha round produrrebbe una tantum un aumento di meno dell'1 per cento del PIL globale, per altro distribuito in pochi Paesi del Nord e delle economie emergenti. Gran parte del Pianeta perderebbe in crescita economica. Inoltre, semplici analisi delle serie storiche sulla crescita globale ci dicono che nel ventennio Sessanta-Settanta a dominazione pubblica e con limiti protezionisti i tassi di crescita sono stati in media superiori in tutte le regioni del pianeta rispetto ai liberisti anni Ottanta e Novanta.
Senza dilungarsi poi sul fatto che una reintroduzione di un sano controllo dei capitali consentirebbe al sistema bancario e finanziario di sostenere l'economia reale sia a livello locale che nazionale. Reintrodurre un mix di politiche protezioniste e di modulazione dell'offerta e dell'accesso al mercato potrebbe proprio essere la strada per definanziarizzare l'economia, ovviamente considerando la possibilità di avere maggiori integrazioni e liberalizzazioni in blocchi regionali, se utili per tutti. E' il buon senso che manca a Brown, Lamy e company anche in questi giorni; parafrasando il presidente Clinton: “it’s the economy, stupid!”.