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Il "ben fare" e la realtà. L'ambiguo terzo settore

02/11/2009

Si è tenuto due settimane fa a Roma un interessante convegno sul Terzo Settore. Non ricordo chi vi ha detto che la condizione degli operatori sociali e del volontariato di oggi è quella di essere dei “vagabondi” che non hanno una meta precisa piuttosto che dei “pellegrini” che una meta ce l’hanno. Diceva Berneri che si deve imparare a «navigare in un mare senza porti», e ha scritto di recente la Guidetti Serra (in Bianca la rossa, Einaudi) che non ci si mette in un’impresa perché si è sicuri del successo ma perché la si considera giusta, e basta.
Non credo si debba parlare del Terzo Settore, dei suoi relativi successi e dei suoi sostanziali insuccessi, fuori dalla grande discussione che dovrebbe coinvolgere tutti, ma in particolare chi «opera nel sociale», sul mondo in cui viviamo e sulla possibilità che si può avere di contribuire anche in modi minimi a intralciare la china dei disastri inventando e proponendo interventi diversi da quelli grati alle concentrazioni finanziarie ed economiche e ai loro portavoce. O si aderisce a un ordine delle cose che ci sembra ineluttabile, cercando di ricavarne i nostri piccoli vantaggi, oppure lo si confuta e vi si reagisce perché si è convinti, sulla base delle nostre (scarse, non solo per colpa nostra) conoscenze scientifiche e delle nostre pur piccole pratiche, che quest’ordine e questa direzione portano a nuove disparità e ingiustizie e mettono in forse lo stesso futuro dell'uomo. O si accetta la realtà com’è, o si intende intervenire per modificarla, pur essendo insicuri dei risultati.

È successo al Terzo Settore quel che è successo ad altre imprese precedenti, politiche, sociali, culturali: di trovarsi, crescendo, di fronte ai ricatti della realtà - particolarmente pesanti quando all’intorno si respira un’aria viziata com’è stata quella di questi anni. Ai membri del Terzo Settore è stato detto, in sostanza: o ti fai piacere questi usi e ti ci adegui, o non potrai godere dei privilegi piccoli o grandi che potresti ricavare dall’aderirvi. E a questo per migliaia di iniziative - si è aggiunta spesso la beffa, e all’adesione seguiva il disinteresse o il disprezzo, se non si contava abbastanza nel computo dei voti e non si era rappresentati da leader famelici o spettacolari, i professionisti della carità pelosa e quelli dell’antimafia. L’adesione comportava il compromesso, il clientelismo, la burocratizzazione, le astuzie, le sgomitate, e la cosa peggiore: la guerra tra associazioni (tra poveri) e il disinteresse per possibili alleanze. Da questo derivava il dominio dei funzionari interni e dei commercialisti, con le loro carte e i loro conti da far tornare o da truccare. Il peggio lo si è visto con le organizzazioni di ambizione internazionale, di aiuto a popolazioni provate da carestie e guerre o dal «normale sottosviluppo».
Per fortuna sono tanti i gruppi e le associazioni che credono realmente nel «ben fare» - anche se ormai la maggior parte non si sentono più rappresentati dal Terzo Settore e c’è una frammentazione di esperienze che può apparire come una parodia della democrazia e la smentita del ruolo positivo che dovrebbero avere le «iniziative dal basso». Essi tentano in tutti i modi di restar coerenti con le proprie idealità. Ma è chiaro che la china su cui le associazioni di volontariato e le imprese di Terzo Settore e del cosiddetto no profit si sono poste è molto ambigua, e porta inesorabilmente a trasformarle o in un pezzo dell’ingranaggio del potere, o a far loro perdere ogni originalità e differenza (collettiva e non solo singola) e, soprattutto, ogni possibilità di un contributo diverso e autonomo, non tanto di aggiunta quanto di proposta, di apertura. E se necessario di rottura. Se si diventa “comuni” invece che “diversi” , la ragion d'essere del Terzo Settore e del volontariato (e della militanza politica!) sparisce, è recuperata nei meccanismi di un sistema che non riesce a nascondere la sua immane crudeltà. Il Terzo Settore, credo, ha compiuto il suo ciclo, ma ci sono in giro lo stesso migliaia di iniziative nuove: e se tantissime sono utili solo a riempire il tempo di chi ne ha troppo, in mezzo ce ne sono di ottime e sane la cui molla è l’aiuto al prossimo e il contributo al cambiamento. Ricominciare ogni volta, dopo cedimenti e compromessi, con persone nuove o con quelle “vecchie” sopravvissute degnamente è certo difficile e faticoso, ma non è sempre stato così, per le minoranze che ambiscono a ridurre il male delle società e a proporre e sperimentare i modi di una società più giusta?

(da L'Unità 1/11/2009)

Tratto da www.unita.it