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L'indice della bontà. Una mappa filantropica

11/03/2011

Charity Aid Foundation ha elaborato il "World giving index". Ne viene fuori che non sono i paesi più ricchi quelli che donano di più

Di beneficenza si parla fin troppo nei media italiani e internazionali, trattando, ad esempio, le donazioni di ricchi magnati e di squali della finanza, quasi sempre guidati da un controverso ed ipocrita capitalismo compassionevole. Eppure, tralasciando quest’aspetto, di studi inerenti ad un indice di beneficenza non ve ne sono molti, e quelli che sono stati effettuati sino ad ora si basano sulla correlazione tra ricchezza pro capite di un paese e ammontare di denaro destinato alla beneficenza. Di recente, però, è stato pubblicato uno studio condotto dalla Charity Aid Foundation (CAF) – un ente no profit britannico – che ha delineato un nuovo approccio allo studio della propensione dei soggetti all’ attività filantropica.

Comunemente si ritiene che i paesi ad essere maggiormente impegnati in tal senso siano quelli più ricchi, ovvero quei paesi che presentano un reddito pro-capite più elevato. In realtà i risultati che emergono da questo studio dimostrano una realtà dei fatti alquanto diversa.

Il CAF ha sviluppato un indice di beneficenza denominato “World Giving Index”, il quale non tiene conto soltanto degli aspetti monetari del fenomeno, ma anche di altri fattori tutt’altro che trascurabili.

L’indice è definito come media aritmetica semplice - non ponderata - composto da tre indicatori: il primo indica la percentuale di popolazione che ha destinato denaro in beneficenza, il secondo la percentuale di persone che si è dedicata al volontariato, e infine il terzo che indica la percentuale di persone che hanno aiutato almeno uno straniero nell’ ultimo mese trascorso. In definitiva, dunque, l’indice definisce la percentuale di popolazione coinvolta nella beneficenza.

In cima alla classifica troviamo l’Australia e la Nuova Zelanda, seguite da Canada e Irlanda. Gli Stati Uniti si classificano al quinto posto, mentre l’Italia si piazza al 29esimo posto con uno score del 41%. Eppure i risultati più interessanti riguardano i paesi asiatici e africani. Hong Kong, ad esempio, vanta un 70% di popolazione impegnata in aiuti prettamente monetari; Liberia e Sierra Leone figurano al top della classifica per quanto riguarda gli aiuti agli stranieri. La Cina, invece, in aperta controtendenza con la sua crescita galoppante, la ritroviamo soltanto al 147esimo posto con un pessimo tasso di partecipazione del 14%.

A questo punto possiamo rilevare le macroregioni con i trend più elevati: l’Oceania e il Nord America, seguite dall’ Europa centro-settentrionale e da alcune regioni nordafricane e del continente asiatico. Da notare, infine, le pessime performance dei paesi dell’ Est-Europa e l’ ottimo 53% dello Sri Lanka, un paese comunemente ritenuto povero.

Un’altra parte caratterizzante dello studio si è focalizzata su comparazioni di genere e inter-generazionali. Nello specifico si sono volute quantificare eventuali preferenze, o meglio, propensioni all’attività filantropica. Quelli che ne sono emersi sono dei risultati a dir poco stupefacenti: ad esempio è stata rilevata una maggiore propensione alla filantropia degli anziani rispetto ai giovani e una maggiore propensione delle donne ad effettuare contributi monetari rispetto agli uomini, anche se gli uomini sono risultati più “virtuosi” delle donne nell’ ambito del volontariato vero e proprio. Specialmente in quest’ultima rilevazione il senso comune è stato completamente spiazzato: generalmente, infatti, si ritiene che siano le donne ad occuparsi del volontariato vero e proprio, e semmai gli uomini semplicemente relegati a contributi di natura pecuniaria, o poco più. Questo luogo comune risulta tanto più forte quando ci si riferisce a società tipicamente familistiche come quella italiana, dove alla donne viene deputato il ruolo di badare ai componenti più anziani o più deboli della propria famiglia.

Un importante risultato raggiunto dall’analisi, infine, mostra come vi sia una maggiore correlazione tra il tasso di felicità della popolazione e il contributo monetario rispetto alla correlazione tra ricchezza nazionale e relativo contributo in denaro. Da questo risultato sembra emergere, dunque, una caratterizzazione molto più emotiva del fenomeno rispetto ad una definizione prettamente legata alla ricchezza dei vari paesi. Possiamo concludere, dunque, che i paesi più felici fanno più beneficenza rispetto ai paesi più ricchi.

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Commenti

L' indice della bontà. Una mappa filantropica.

Chiaramente possono esserci delle perplessità in merito alla costruzione dell' indice, specialmente laddove si vadano ad analizzare le correlazioni tra le variabili e la loro significatività. La ponderazione poi è altrettanto discutibile, così come il campione analizzato e le modalità condotte nel questionario statistico.
Ciononostante la rilevanza di tale ricerca deve, a mio avviso, essere contestualizzata: credo che il suo contributo più evidente sia stato quello di porre in rilievo il fatto che un indicatore di sintesi unidimensionale basato esclusivamente sugli aiuti di natura pecuniaria non basti. La via da seguire sembrerebbe, semmai, quella di un indicatore di sintesi plurudimensionale. Ed in tal senso credo sia importante il contributo di questa ricerca. Speriamo si riesca a raffinare la rilevazione facendo un più ampio uso degli strumenti statistici appropriati.

World giving index

Ho letto solo la parte iniziale del rapporto, senza addentrarmi nelle descrizioni delle singole aree geografiche. Tuttavia vorrei sottolineare che l'indice e' costruito a partire dalle sole aree urbane, con numerosita' diverse a seconda della facilita' di raggiungere almeno 1000 persone per paese (scendendo quindi a valori accettabili di questionari raccolti pari a 500), in parte per contatto umano e parte per contatto telefonico (ove possibile). Inoltre viene specificato che nella voce volontariato viene considerata anche la partecipazione a partiti politici e che la domanda relativa agli stranieri include tra essi/e anche "persone sconosciute".

Credo che l'insieme di queste specificazioni nella metodologia di costruzione dell'indice spieghi molte delle cosiddette "anomalie" (gli uomini danno piu' tempo delle donne, per es., potrebbe includere la minore possibilita' delle donne di partecipare attivamente alla vita sociale), che le persone piu' anziane diano in denaro o tempo piu' dei giovani (e' innegabile che laddove vi sia un reddito maggiore e un sistema pensionistico il tempo di lavoro non si deve dilatare come in altre realta' e questo spiegherebbe anche "l'anomalia" cinese), ed infine anche che nei paesi "non occidentali" sia cosi' rilevante la parte di aiuto a coloro che non si conoscono (stranieri in un senso forse piu' lato che nel caso occidentale).
E la media aritmetica non ponderata potrebbe far si' che alcuni paesi possono contare comunque meno di altri?
Che ne dite?

chiara c.