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In tempi di crisi, criticare i tempi

03/02/2009

La centralità di un approccio che ripensi il vivere quotidiano. Una risorsa contro la crisi, la cui soluzione non si può affidare solo all'economia

Tutti i giorni, in innumerevoli dibattiti, in televisione, sui quotidiani, i tanti e complessi aspetti della “crisi” vengono elencati ed affrontati da giornalisti enfatici e un pò frettolosi, da studiosi anche celebri e importanti - economisti, soprattutto- e dai politici, naturalmente.

E tutti cerchiamo di orientarci, di capire.

Mi è caduto l’occhio su uno scaffale fitto di libri, scritti quasi tutti tra gli anni ottanta e i primi novanta, sorprendentemente anticipatori di molti dei discorsi che si fanno oggi. Anche allora ci si confrontava con il dato di una crisi che si manifestava in tutti i paesi occidentali, e c’erano difficoltà nel mercato del lavoro, trend non previsti e non facilmente governabili in molti settori produttivi, anche processi sociali e demografici nuovi.

Come possibili rimedi venivano formulate proposte di vario tipo: la riduzione degli orari di lavoro (in Inghilterra si annuncia, in questi giorni, la “settimana corta”; e non è il caso di riandare alla vicenda delle 35 ore in Francia); una ridefinizione del concetto “fordista” di lavoro (nel dibattito attuale, in occasione della traduzione italiana dell’ultimo libro di Richard Sennet, si cclebrano i valori antichi della manualità degli artigiani); e si proponeva, nei contributi di quegli anni, di realizzare l’“umanizzazione del lavoro”, di “lavorare diversamente”.

Al centro ancora il “lavoro”; ma si suggeriva anche: " diversi modi di vivere”.

I titoli dei libri a cui mi riferisco (il dibattito francese in particolare è stato, negli anni ottanta, molto vivace) suonano come annunci impegnativi: Le metamorfosi del lavoro di André Gorz del 1988 (la traduzione italiana è del 1992). La proposta del gruppo Echange et Projets, 1980, è : La Révolution du temps choisi. Nel 1982 esce Le travail autrement di Guy Roustang e nello stesso anno Jean Pierre Jallade suggerisce che abbia senso pensare L’Europe à Temps Partiel.

Altri testi significativi: Beyond employment di Claus Offe e R.G.Heinze 1982: nel 1986 After Full Employment, di J.Keane e Owens; fino alla dichiarazione di Jeremy Rifkin, The End of Work, 1995. Lavorare meno per lavorare tutti è la proposta di Guy Aznar (pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 1994). Nel 1981 lo stesso autore aveva proposto, in termini radicali: Tous à mi-temps.

L’elenco potrebbe essere più lungo. Val la pena di averle presenti, le parole che vengono lanciate, ovviamente di forte rottura rispetto alla cultura prevalente e tendenti a far emergere –andando aldilà delle analisi dominate da criteri economici e delle proposte centrate appunto sui processi dell’economia- un diverso significato del lavorare e la possibilità di vivere il tempo con modalità innovative.

Negli studi dei decenni scorsi dunque si affronta la disoccupazione -effetto dei meccanismi e delle storture dell'economia capitalistica, è l’interpretazione che prevale, e principale tema politico e ambito di intervento-; e ci si interroga su come crearlo, o redistribuirlo, il lavoro. Si denunciano limiti e problemi indotti dalla generalizzazione del modello fordista: i compiti parcellizzati, le procedure standardizzate, i tempi “in frantumi”. E non si affrontano soltanto i meccanismi dell' economia, ma il sistema del welfare, la formazione, e l'organizzazione complessiva dei tempi. Si pensa dunque a forme di occupazione flessibile e alla possibilità di scelte, nel corso della vita, non uniformi e rigide (relativamente all'uscita dal lavoro e al pensionamento ma anche per il periodo di transizione tra scuola e mondo del lavoro). Si pensa alla possibilità di alternare, nel corso del nostro vivere, fasi di formazione e fasi di “vita attiva".

Sono analisi che segnano una frattura con la fase precedente.

E il tempo viene visto come una fondamentale risorsa: dunque si propongono modi per misurarlo (i “bilanci tempo”). E si comincia a tener conto delle condizioni ed esperienze del vivere quotidiano delle persone: ci sono “tempi scelti", "tempi personali", si dice.

Emerge un tema fino ad allora assolutamente ignorato, la "cura". Si tratta, tra gli anni settanta e ottanta, del percorso avviato dal Rapporto dello Swedish Secretariat for Futures Studies. E viene pubblicato in inglese nel 1984 un testo assolutamente innovativo, Time To Care. Tempi e cura, un collegamento fino ad allora rimasto invisibile.

Nel testo ci sono espressioni come: "cura che si dà e che si riceve", "cura del singolo e della comunità"; si auspica una maggiore responsabilità dei cittadini nel “prendersi cura gli uni degli altri" e nel "far sentire la propria influenza e controllo su chi esercita professionalmente attività di cura". Si mette l’accento sul valore delle pratiche della "cura interpersonale" e della "cura quotidiana informale". Si propone di riorganizzare tutti i tempi del vivere.

Da qui in avanti il “lavoro di cura” non sarà più ignorato (e lasciato invisibile). Verrà rivolta attenzione al lavorare delle donne adulte, che ha forme e modalità diverse dal “lavoro” tradizionale (maschile) e caratteristiche che anticipano le linee di cambiamento fin qui delineate: tempi flessibili, pluralità dei compiti, continua ridefinizione delle soluzioni. E’ come comporre un patchwork, è stato suggerito.

Da una semplificante contrapposizione tra "lavoro" e "ozio" si passa a uno scenario in cui si riesce a dare centralità al vivere quotidiano (mentre, così Guy Roustang, la prospettiva economica aveva determinato le politiche e anzi la cultura stessa, in cui si era stati fino ad allora collocati). Roustang auspica che ci si possa sottrarre alla "sottomissione collettiva" dei tempi imposti, sottomissione che dall'avvento della società industriale ha condizionato tutte le vite. Ricorrono temi del dibattito anche politico di quegli anni: porre fine alla "standardizzazione", realizzare soluzioni "individualizzate", introducendo per esempio modalità di negoziazione per quanto riguarda la durata e la retribuzione delle ferie e la riorganizzazione del part time (non soltanto sulla giornata lavorativa ma sulla settimana, o nell'arco dell'anno).

In Svezia, Francia, Germania, Olanda organismi di governo avviano su questi temi iniziative di studio e sperimentazioni. Negli anni successivi a livello europeo si recepiscono e rilanciano studi su questi temi (il network “Families and Work, la Fondazione Europea “Living and Working Conditions” di Dublino); e si arriva poi alle proposte miranti alla “riconciliazione” di famiglia e lavoro: misure variamente recepite e applicate, caratterizzate da elementi di ambiguità e però anche da potenzialità che negli anni davanti a noi si svilupperanno.
Un altro tema già allora anticipato, la do-it-yourself economy, l’economia fuori mercato. E’ particolarmente significativo il dibattito che si sviluppa tra studiosi inglesi: Jonathan Gershuny, Ray Pahl, Ignacy Sachs. Una parte rilevante delle risorse che servono per vivere, si suggerisce, non sono prodotte da attività di mercato ma attraverso l’auto-produzione (e quindi da coloro che non sono nel mercato del lavoro). Uno scenario mai prima preso in considerazione: si scopre che si lavora –e si produce- anche con il "bricolage", il "giardinaggio", interventi di manutenzione della casa e dell’automobile. Contributi alla produzione e al benessere quotidiano che naturalmente erano stati messi in luce negli studi che avevano tenuto conto anche del lavoro “domestico”, “di cura”, delle donne. Economia “informale”, si diceva, self-service economy: il valore del lavorare per l'autoconsumo viene posto al centro: così Gershuny: After Industrial Society. The Emerging Self-Service Economy (1978).

Negli stessi anni questi temi sono presenti anche in Italia in ricerche e dibattiti. Particolare attenzione è stata rivolta al “terzo settore”, al “no-profit”. Qui ho voluto mettere soprattutto in luce il dibattito internazionale. A questo oggi ci interessa soprattutto guardare. Ed è questo senso della mia rapida rilettura di contributi del passato.

Ci ritroviamo a considerare analisi e anche proposte già in larga misura formulate alcuni decenni fa, Sono letture dei processi sociali e possibili strumenti di intervento rimasti per anni erano ai margini, dimenticati.

Non ci si può permettere, nella fase attuale, di sottovalutare la centralità di questo approccio. Parlare di processi (e soluzioni) nel campo dell’ economia soltanto, non ha senso.

E dunque interessiamoci ai lavori della conferenza europea che si tiene a Barcellona in questi giorni, il 4 e 5 febbraio, sul tema degli “usi del tempo”.

Ripartire da qui potrebbe essere utile.

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