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Alleanza per il clima. Intervista a Carlo Jaeger

07/03/2010

Domanda: Copenhagen è stato un fallimento?

Carlo Jaeger: Non so se ci sono solo il fallimento e il successo, certamente non è stato un successo. Dire che c’è stato un fallimento forse è anche esagerato perché comunque la diplomazia internazionale continua, c’è stato un accordo importante su questa meta dei 2 gradi che è utile. D’altra parte, l’idea che si sarebbe riusciti a fare un accordo che avrebbe portato ad una riduzione globale delle emissioni probabilmente era un’illusione in partenza e in ogni caso non si è avverata.

Domanda: Quindi la sua speranza sarebbe che si riuscirà a rimediare o che sia una tappa nel processo internazionale che andrà avanti?

C. J.: Francamente non la vedo così, vedo il processo internazionale come una cosa che deve continuare e che continuerà, ma che non sarà l’avanguardia, piuttosto seguirà iniziative nazionali, regionali, anche locali. Penso che ora le cose importanti avvengono, in buona misura, fuori dal processo internazionale e che quest’ultimo si sbloccherà solo se riusciremo a ridefinire il problema in modo diverso da come è stato definito fino ad adesso.

Domanda: In quale modo dovrebbe essere ridefinito?

C. J.: Al momento, l’ottica prevalente è che ci sono dei costi che bisogna accettare nel presente per evitare rischi futuri, la questione è allora come distribuire questi costi; a questo punto ognuno cerca di evitare di assumere grossi costi e il tutto si blocca. Mi sembra invece che sarebbe il caso di identificare quali sono le opportunità per quelle che si possono chiamare delle “win-win situations”. Ci sono situazioni dove è possibile fare qualcosa per il clima in modo da non dover imporre dei costi, ma anzi avere dei benefici ulteriori.

Domanda: Lei vede delle indicazioni che questa percezione dell’affrontare i cambiamenti climatici in chiave di opportunità invece di guardare solo i costi, che di questo cambiamento di paradigma ci siano dei segnali da qualche parte?

C. J.: Da qualche parte sì, ma senz’altro siamo ancora agli inizi. C’è il paese in cui vivo io, la Germania, che ha cominciato a inquadrare la situazione in questi termini, ad esempio sviluppare l’industria dell’eolico, industria che ormai ha un successo notevole. Le industrie dell’energia rinnovabile tedesche fanno un’ottima figura anche con il fatturato. In Germania ci sono larghe fasce, non solo dell’opinione pubblica ma anche del mondo finanziario e industriale, che cominciano a focalizzarsi di più sull’individuazione di situazioni “win-win”. Un’ottica un po’ simile si vede in California, in parte anche in Cina. Però bisogna vedere che siamo all’inizio di questo cambiamento di paradigma e penso che sia una cosa importantissima. Se permette noterei che agli inizi di aprile l’European Climate Forum, del quale faccio parte, farà un congresso a Barcellona esattamente su questa questione, cioè come avanzare questo cambiamento di paradigma.

Domanda: Quindi sono le forze che si attivano nei contesti locali, territoriali, nazionali a favore del clima che poi spingono i processi internazionali?

C. J.: Effettivamente penso che nel mondo odierno, purtroppo, se posso dirla così, è questa la realtà. Ormai il duello che è cominciato in questo secolo - che alcuni hanno chiamato il secolo cinese - il duello tra l’America e la Cina è cominciato. Speriamo che si sviluppi in modo pacifico, comunque anche nella politica del clima, come in altri campi, sta diventando un tema principale. L’Europa non riesce più a gestire del tutto la dinamica e allora a livello internazionale le cose si fanno molto difficili. Siamo bravissimi a fare public relations, fare dichiarazioni, tutto questo funziona alla meraviglia, però fare accordi che poi portino a passi reali su scala globale, sarà senz’altro una lotta in salita.

Domanda: A questo punto, se il ruolo dell’Europa diventa sempre più periferico e se cresce il peso relativo dei Paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Sudafrica), quale dovrebbe essere il ruolo produttivo dell’Europa?

C. J.: Le cose sono due, da un lato effettivamente è importantissima la questione se l’Europa riesce a riorganizzarsi, a ridefinirsi come una forza a scala globale, il che al momento nel campo climatico non è più il caso. Era così fino all’inizio della crisi finanziaria, però con questa crisi la capacità dell’Europa di muoversi in modo compatto si è frantumata. A mio parere è urgentissimo lavorare su una reintegrazione dell’Europa e questo è un livello sul quale bisogna investire il più possibile. D’altra parte è chiaro che in Europa, a prescindere dal livello dell’Unione Europea, c’è tutta una miriade di iniziative interessantissime; possiamo fare progetti con le energie rinnovabili, facciamo progressi sull’urbanistica, sul traffico, sulla trasmissione dell’energia, tutte queste cose ormai vengono subito percepit e su scala mondiale. Se qualcuno riesce a fare un salto qualitativo, anche a prima vista insignificante, tipo la riduzione del costo del termo-solare del 5%, cambia moltissimo tutta la situazione, e in Europa c’è molta gente che lavora in questo campo. Sono convinto che in quest’ambito abbiamo delle possibilità molto grandi.

Domanda: Come battistrada aprendo nuovi campi di innovazione?

C. J.: Sì, senz’altro.

Domanda: E questo più che altro sul versante tecnologico?

C. J.: No, ormai come mostra molto bene la ditta Apple, non è più possibile separare la tecnologia dal lifestyle, dall’estetica, dalle emozioni. Anzi vorrei aprire tutto un discorso sul ruolo delle emozioni nella politica del clima, ma mi permetta prima di dire che le tecnologie
interessanti sono tecnologie che vengono con tutta una dimensione culturale, per l’appunto emotiva, di stile di vita. È chiaro che l’Europa ha ancora, per esempio, un certo senso della bellezza del paesaggio, della bellezza della città, del “dolce far niente”, anche se va un po’ fuori moda di questi tempi, ma sono cose importanti. Quindi invece del consumo feroce di prodotti industriali valorizzare anche altri aspetti della vita. Questo è legato a cambiamenti tecnologici che permettono, per esempio, la decentralizzazione di molte operazioni. In questo senso non vedo più lo spazio per iniziative di tecnologia isolate come lo era il nucleare, come lo erano altre cose dove lo stile di vita non si considerava nemmeno. Qui ormai si tratta di reinventare modi di vita con nuove tecnologie.

Domanda: La seconda parte dell’intervista la vorrei dedicare al tema della giustizia del clima che sarà un punto importante della sua relazione alla Conferenza Internazionale di Perugia 2010. Lavorando nel campo della protezione del clima da parecchio tempo, ho l’impressione, ma potrebbe anche essere stata una mia disattenzione nel passato, che il tema della giustizia del clima è sorto non tantissimo tempo fa e sicuramente ha preso una posizione centrale solo negli ultimi tre o quattro anni. È un’impressione giusta? E, se dovesse essere così, perché è così?

C. J.: In un certo senso sono anche più pessimista di lei. Il tema della giustizia, agli inizi di tutto questo dibattito, non ha giocato praticamente nessun ruolo, il che mi sembra una cosa proprio brutta. Negli ultimi anni c’è chi comincia a parlarne, però tutto questo si fa molto spesso in una chiave piuttosto cinica: bisogna pur vedere che a Copenhagen il rappresentante dei Paesi in via di sviluppo era il Sudan. Se questo Sudan, che sta commettendo il genocidio nel Darfur, si pone come rappresentante di chi viene sfruttato e chiede giustizia – più machiavellici di così non si può essere. In questo senso mi sembra che siamo ancora a meno che agli inizi. Tutto questo non per dire che il tema della giustizia non sia importante, tutt’altro, ma per dire che siamo ancora lontani dall’inquadrare il problema in un modo “utile”, o che serva a quelli che poi di questa giustizia hanno più bisogno.

Domanda: Ma non è vero lo stesso che della giustizia del clima si parla molto di più rispetto al passato?

C. J.: Sì, questo è senz’altro vero. A me piace molto una pista un po’ più differenziata della situazione che fa riferimento al libro di Dominique Moisi, “Geopolitica delle emozioni. Le culture della paura, dell’umiliazione e della speranza stanno cambiando il mondo”, in cui dice che nel mondo odierno la globalizzazione ha creato tre tipi di emozioni. Una è la paura, e la paura è l’emozione dominante dell’Europa e dell’America del Nord; l’altra è l’umiliazione, l’essere stati umiliati, e questa è l’emozione dominante nel mondo islamico; e la terza è la speranza, che è l’emozione dominante nel mondo asiatico. Credo che questa analisi sia molto importante, perché mette il discorso della giustizia in termini di umiliazione. In Europa e in America abbiamo un mondo ormai impressionato dalla paura, che poi sia paura del clima, del terrorismo, di non so che, in un certo senso non è nemmeno tanto importante, ma se abbiamo un confronto tra chi si vede umiliato e chi ha paura, la speranza di arrivare a delle soluzioni è minima, non arriveremo molto lontano. La questione è come si possa ribilanciare il rapporto tra la speranza asiatica e la paura del mondo antico, che fa anche un po’ spavento. Il tema della giustizia a questo punto diventa non più una questione di ridistribuzione, come compensare chi si sente umiliato, ma diventa una questione di opportunità, di come cogliere le occasioni e far sì che tutti ne possano partecipare.

Domanda: Quindi nella misura in cui c’è questo cambiamento di paradigma, del modo di vedere i cambiamenti climatici anche come un’opportunità, il problema della giustizia non si risolverà automaticamente, ma verrà meno?

C. J.: Beh, diciamo che si pone in termini ben diversi. Le do un esempio che mi sembra importantissimo, quello dell’educazione: ormai è chiaro che la capacità di usare il computer è una cosa elementare nella civiltà di questo secolo, dunque far partecipare i bambini di Haiti, del Niger, di dove sia, a questo mondo, dargli occasione di usarlo, di familiarizzarsi con questo mondo, di giocarci, è una cosa importantissima. In questo senso per me giustizia diventa innanzitutto una questione di offrire a chi è escluso in parte da questi sviluppi, l’occasione di entrare, di farne parte, ma non in un modo passivo, bensì in un modo attivo, così da gestirlo.

Domanda: E non rivolgere l’attenzione tanto alle tonnellate di CO2 a persona all’anno e alle dimensioni e modalità di pagamento di compensazione per i danni causati dai cambiamenti climatici?

C. J.: Fa benissimo a menzionare questa cosa. Sono due i temi: la storia del CO2 procapite è un’altra operazione machiavellica. Qui c’è dietro l’India che dice “vogliamo le stesse emissioni pro capite su scala mondiale” sapendo benissimo che ci vorrà molto tempo finché l’America riuscirà a ridurre le proprie emissioni, e dunque dire “vogliamo le stesse per tutti” vuol dire “noi in India continuiamo ad aumentare quanto si riesce ad aumentare” e questo mi sembra un discorso francamente assurdo. Sicché porre la questione della giustizia del clima in termini di emissioni procapite non è secondo me un modo molto ragionevole di affrontare il problema. Porlo in termini di educazione, di proprietà intellettuale, di accesso alle tecnologie, questo sì. La questione della compensazione è per me un altro discorso, perché prima o poi ci sarà chi soffrirà duramente del cambiamento del clima. Magari non saranno nemmeno tanti, ma è vero che ci saranno senz’altro isole dove la gente se ne andrà perché non si potrà più vivere lì, così come già oggi ci sono i poveri eschimesi che perdono il loro spazio di vita e quasi nessuno ci fa caso, il che è un cinismo incredibile. Trovare meccanismi di compensazione per chi è direttamente colpito mi sembra un compito assolutamente essenziale, però devo dire che credo che non sia una questione molto difficile in termini di soldi, non si tratta di somme comparabili a quelle spese per la guerra dell’Iraq o cose del genere. Qui si tratta piuttosto di dire: mettiamoci d’accordo e organizziamoci per compensare a questo livello. Però il problema della giustizia del clima è molto, molto più grosso, è proprio chi può partecipare nel creare il futuro e chi ne viene escluso.

Domanda: Per concludere vorrei tornare a questa figura delle opportunità. La domanda nasce dalla lettura dell’ultimo libro Nicholas Stern “The Global Deal”. Lui insiste molto sul nesso tra l’etica e l’economia e dice che non è pensabile uno sviluppo economico verso una civilizzazione post-fossile che non abbia un’impronta etica, o più in generale: qualsiasi politica economica ha una base etica - esplicita o implicita. Lei è d’accordo?

C. J.: In un certo senso mi sembra una banalità. È chiaro che ogni azione umana ha una sua dimensione etica e senz’altro le scelte economiche che facciamo hanno non solo una, ma anche più di una dimensione etica. La vera questione è quali sono le scelte che abbiamo di fronte nel campo del clima e cosa ne facciamo. C’è un detto, che a me piace molto, secondo il quale il problema fondamentale dell’etica non è scoprire cosa dobbiamo fare, ma è scoprire come possiamo portare noi stessi a fare ciò che sappiamo benissimo di dover fare. È lì che al momento siamo un po’ nei guai con la politica del clima.

Domanda: Portare noi stessi a fare quello che sappiamo che dovremmo fare?

C. J.: Esattamente. C’è un gioco, che in tedesco si chiama “Schwarzer Peter” (L’uomo nero), nel quale chi si muove per ultimo ha vinto: non è così che riusciremo a risolvere il problema. Penso che sia utile il paragone con il movimento per l’abolizione della schiavitù: è chiaro che anche in quel caso c’era chi aveva paura che abolendo la schiavitù nel proprio Paese avrebbe avuto degli svantaggi economici e dunque era meglio aspettare che lo facessero gli altri, ma per fortuna c’è stato chi ha semplicemente cominciato e si è visto che effettivamente era possibile vivere senza la schiavitù e portare avanti un’economia perfettamente competitiva. La scelta etica era abbastanza chiara - abolire la schiavitù - e la questione era trovare il coraggio di dire “io prendo l’iniziativa e parto”. Credo che abbiamo una situazione abbastanza simile, una scelta del tipo “rafforziamo le rinnovabili, cambiamo le città così da renderle più vivibili e da emettere meno CO2”. È abbastanza chiaro, si tratta di farlo e, facendolo, mostrare agli altri che è perfettamente possibile farlo senza rovinare se stessi.

Tratto da www.perugia2010.it