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Maledetto lavoro

La testa nelle scarpe

18/02/2011

Le case di Monte Urano, nel fermano, non hanno garage. Quasi ogni saracinesca al piano terra nasconde un laboratorio dove si fabbricano scarpe. Siamo nel Sud delle Marche, e questo comune nell’entroterra cade giusto al centro del “triangolo delle calzature”, Fermo-Montegranaro-Sant’Elpidio a mare.
Un “distretto industriale” formato per lo più da imprese artigiane (il 75 per cento delle 2.644 aziende ha meno di 10 dipendenti); un distretto che punta da sempre sulla qualità della lavorazione, e che oggi ha bisogno di ripensarsi. Perché i grandi marchi, per cui gli artigiani del fermano lavoravano come terzisti, hanno spostato la produzione nell’Europa dell’Est e nei Paesi del Mediterraneo.
A Monte Urano Carlo Gattafoni fa il calzola’ dal ‘72, e dal 1986 produce scarpe per bambini con il marchio “Mia shoes”. Tra i suoi clienti, negli anni, marchi noti come Armani e Bluemarine. Gattafoni è arrivato ad impiegare 30 persone (comprese lavoranti a domicilio), e la sua era diventata un’“industria”. Oggi gli impiegati sono rimasti in tre. Alla fine dello scorso anno, “abbandonato” da Valleverde e Sanagens (“dopo 18, 19 anni consecutivi di ordini”, precisa), avrebbe potuto chiudere. Ha scelto invece di “rivedere” le sue collezioni. E ha aggiornato il catalogo: non sono cambiati i modelli, ma le materie prime utilizzate. Mia shoes si sta “specializzando” nella produzione di calzature ecologiche, utilizzando per cominciare solo pelli conciate al vegetale. Le prime scarpe del nuovo corso sono finite ai piedi della bambina di Gilda, una ragazza marchigiana che vive a Calci, in provincia di Pisa. Frutto di un “capitale di relazioni”: il fratello di Gilda ha sposato una figlia di Carlo Gattafoni; lei nel paesino toscano fa parte del gruppo d’acquisto solidale (www.gascalci.org). È così che Gattafoni ha conosciuto l’economia solidale. Quando lo incontro, a inizio dicembre, sta caricando il furgoncino con le scarpe che porterà a un mercatino organizzato dai Gas di Quarrata. “Quest’anno, tra estivo e invernale, ho realizzato 6-700 paia di scarpe. Sto finendo le scorte di magazzino, poi per tutta la mia produzione utilizzerò solo pelle conciata al vegetale, senza l’utilizzo di prodotti chimici. Lo stesso vale per fodera e soletta -racconta Carlo-. Prima di iniziare la produzione, ho testato il tutto sui miei scarponcini”. La pelle arriva dai conciatori toscani associati al Consorzio “Pelle al vegetale” (www.pellealvegetale.it). E per le suole, Gattafoni sta testando i prodotti di Tecnofilm, un’azienda del territorio (Sant’Elpidio a mare) che ha realizzato una gomma parzialmente biodegradabile, sostituendo materie prime vegetali e quelle di origine petrolifera. “Quest’estate ho montato una suola di questo tipo sui sandali che ho regalato a un bambino di Monte Urano -spiega Carlo-. A fine stagione erano ancora come nuovi”. Obiettivo: garantire il prodotto più sano possibile per i bambini. Scarpe in grado di accompagnare i primi passi, “che devono essere morbidi sul davanti ed offrire sostegno sul calcagno -spiega Carlo-. Per questo ‘monto’ le scarpe incollando le suole con il mastice, che le rende più flessibili”. Un piede dopo l’altro, il progetto cresce. Il motore è Ronni Ricci, amico di Gilda ed animatore di numerose esperienze di economia solidale nelle Marche: tra i fondatori delle cooperativa Mondo Solidale (“ho la tessera numero 49”), oggi gestisce il negozio di prodotti biologici “il Pellicano”, con cui è socio della Rete marchigiana di economia etica e solidale (Rees). Sul numero 8 di Ae (luglio 2000) si parlava di Ronni e del furgone che guidava nei paesini del fermano, distribuendo a domicilio per Mondo Solidale prodotti biologici e locali. Oggi applica l’idea “filiera corta” alle scarpe. Il primo passo è l’allargamento della rete: “All’inizio era solo la Mia shoes di Gattafoni, oggi coinvolge 6 calzaturifici. Abbiamo modelli da donna, uomo e bambino. Sono aziende famigliari, tutte tranne una con meno di 7 dipendenti. Realtà che non hanno mai avuto contatti con il mondo dell’economia solidale” racconta Ronni. Che spiega: “Il motivo non è una lontananza ‘ideale’, ma la mancanza di conoscenza. L’attenzione alla qualità del prodotto in queste zone è innata. Oggi i grandi gruppi pagano quanto e quando vogliono, e i negozi riforniti direttamente utilizzano assegni post-datati; se riusciamo a dimostrare che questo progetto funziona, questo può diventare un modello”. Quello di un distretto accompagnato fuori dalla crisi dall’economia solidale. Spiega Ronni: “Insieme al vicepresidente della Rees, Toni Montevidoni, abbiamo incontrato anche il presidente della neonata provincia di Fermo, per condividere con lui il progetto”. Che è partito ufficialmente nel marzo-aprile 2010: “Abbiamo creato un sito internet, ecomarchebio.com, e in estate abbiamo partecipato alla festa regionale dei Gas marchigiani, riscontrando una grande attenzione. Per ora abbiamo venduto 200-300 paia di scarpe, fatturando circa 25mila euro”. Ronni gira le Marche con una campionatura di 30 paia di scarpe, quelli che entrano nel bagagliaio della sua auto. Spiega a tutti le “tre carte d’identità” che accompagnano le calzature “ecomarchebio”: quella ecologica (“nella conciatura non vengono utilizzati metalli pesanti, né cromo esavalente, e dura 20-25 giorni invece dei 3-5 per la concia normale, e i colori sono naturali, così le scarpe sono meno allergeniche; la pelle è più viva, lo si capisce perché cambia colore nel tempo”); quella sociale (“le porte dei calzaturifici sono aperte”); quella economica, che prevede anche la condivisione del prezzo trasparente: costo delle materie prime e lavorazione; costi generali e guadagni. “L’accordo con i calzaturifici è informale, e si basa sulla fiducia. C’è ancora del lavoro da fare, ad esempio per sostituire il filo sintetico con uno in cotone, o per utilizzare cere vegetali. Spesso i produttori si muovono in autonomia su questo fronte, alla ricerca di soluzione più ecologiche. A-Klima, ad esempio, usa colle con solventi ad acqua e per la colorazione ha scelto tinte ecologiche di Spring Color” (un’altra piccola eccellenza marchigiana la cui storia abbiamo raccontare sul numero 95 di Ae, ndr).
Nei primi cinque mesi del 2010 l’Italia ha importato ben 169 milioni di paia di scarpe, esportandone 98 milioni. In queste statistiche non entra il lavoro di Gianni Cirilli, che con la ditta Medical Shoes già da qualche anno ha scelto di specializzarsi in scarpe ortopediche. Davanti alla nostra macchina fotografica mostra una polacchina “smontata”, e c’insegna a metter la mano dentro la scarpa, per capire se è foderata o meno. E alla fine lucida la pelle ecologica, che cambia colore. È sabato mattina, e Gianni ha un ordine di quindici paia di “Clark” da evadere entro mercoledì. Il Gas di Ancona ha scelto le scarpe “Made in Marche”.

Sei aziende per 32 modelli: è la rete marchigiana
L’avviso che accoglie chi naviga su www.ecomarchebio.com è “attenzione: questo non è solo un sito di e-commerce!”. Non si tratta, infatti, del portale dove acquistare “in esclusiva” le calzature di sei aziende marchigiane, ma di un progetto per “cambiare modo di produrre, di commercializzare, di consumare”,
a partire dalla scarpe.
I modello disponibili sono 32, dieci da bambino/a, 11 da donna, 3 unisex e 8 da uomo. Le aziende coinvolte si chiamano A-Klima, Dario Gasparroni, Mara, Medical Shoes, Mia Shoes e Sandro Cifola.
Il negozio “Il Pellicano” di Ronni Ricci, a Porto San Giorgio (Fm) vende al dettaglio le scarpe “Ecomarchebio” ed è l’intermediario per quelle vendute on-line e ai Gas, cui va l’8-10 per cento del prezzo finale. C’è un listino scontato per i Gas. I produttori vendono le scarpe anche direttamente (nei mercati, o presso i propri spacci). Info: info@ecomarchebio.com, www.ecomarchebio.com, 333-59.02.013 (Ronni).

Dai Monti Sibillini alle Ande
Comunità di Capodarco e Commercio Alternativo realizzano un progetto per scarpe equosolidali
Il “filo” che tiene insieme tomaia e suola delle scarpe “Tungurahua”, le “polacchine” distribuite nelle botteghe del commercio equo da Commercio Alternativo (vedi Ae 121), è la solidarietà. Lo capiamo sedendoci alla lunga tavolata dell’associazione “L’Arcobaleno”, sulle colline di Porto San Giorgio (Fermo). A capotavola c’è Riccardo Sollini, direttore generale di questa comunità terapeutica residenziale; una quindicina, invece, sono i ragazzi che in questa struttura della Comunità di Capodarco stanno superando la tossicodipendenza. Protagonisti, con tutta la Comunità, di questa storia: “Insieme facciamo mercatini. In accordo con Commercio Alternativo -spiega Riccardo-, vendiamo le scarpe in fiere del fermano e del piceno. Tutto il ricavato va in Ecuador”. Ascoltando Riccardo attraversiamo anche noi l’Atlantico. Ci arrampichiamo sulle Ande, fino a Penipe, alle pendici del vulcano Tungurahua. Qui è attiva la Comunità internazionale di Capodarco (Cica), la ong della Comunità. Alla metà degli anni Novanta è stato creato un centro aggregativo per disabili. “Venendo da Fermo -spiega Riccardo-, abbiamo pensato di trasformare il laboratorio in una fabbrica di scarpe, ‘Vinicio’. I calzaturieri del ‘triangolo’ marchigiano hanno inviato le macchine dall’Italia e fatto formazione. All’inizio abbiamo vinto l’appalto per produrre le scarpe per gli alunni delle scuole elementari dell’Ecuador”. La Cooperativa de Produccion Industrial del Calzado, che gestisce il calzaturificio, era arrivata ad impiegare circa 50 persone, tutte disabili. Poi è arrivata la “crisi globale” del 2000-2001, e la “tigre” cinese ha soffiato l’appalto alla cooperativa. “Abbiamo capito che dovevamo estendere il mercato. E specializzarsi” spiega Riccardo. Un calzolaio del fermano, Luciano, di Santa Vittoria in Matenano, si mette a disposizione: produce “polacchine” da 30 anni, è un modello che tira sempre e lui è disponibile ad andare in Ecuador per formare i soci della cooperativa. “Nel 2007 un’altra tegola: il Tungurahua ha eruttato, distruggendo la fabbrica -racconta Riccardo-. Abbiamo potuto acquistare nuovi macchinari grazie al sostegno di Coop Adriatica. La relazione è continuata: fino al 2010 abbiamo lavorato per migliorare la produzione. Coop ci ha aiutato nell’analisi delle materie prime, ad individuare pelli conciate in modo ecologico.
Le prime 800 paia sono state distribuite interamente da Commercio Alternativo, e la produzione continua. “È importante per ‘tarare’ le nostre capacità. Per capire, ad esempio, se è possibile spostare tutta la produzione in Ecuador. Oggi, infatti, la filiera è un po’ complessa: le materia prime selezionate dal Cica vengono portate dall’Italia in Ecuador. La tomaia, lavorata nel calzaturificio “Vinicio” di Penipe, torna in Italia, dove le scarpe Tungurahua vengono assemblate presso il laboratorio artigianale di Luciano, “Lucianos”. “Questo ci ha permesso di affrontare la crisi in modo parallelo -conclude Riccardo-, dando lavoro a un’azienda a conduzione familiare che, come tante nel nostro territorio, stava soffrendo”. In un logica di mutualismo, dalle Ande ai monti Sibillini. Info: www.comunitadicapodarco.it, www.equosolidale.it

L'artista spagnolo
Jesus Garcia Cordero è un artigiano e un’artista della scarpa. Elabora ogni modello disegnandolo intorno a un plantare che ha la forma del piede, e lavora le sue calzature in un piccolo laboratorio sotto casa, nella provincia di Toledo, usando la stessa attrezzatura che suo padre adoperava negli anni 50 del secolo scorso.
Ogni anno, realizza poco più di 5mila paia di scarpe. Sono ecologiche: la pelle e conciata al vegetale e colorata con estratti naturali. Circa la metà della produzione viene venduta in Italia, dov’è distribuita con il marchio “Altrescarpe-Bioworld” da TempoBiologico, la piccola ditta di Gianbattista Belotti che si definisce “riduttore di filiera”. Una metà finisce in una ventina di negozi in 8 regioni (più la Repubblica di San Marino: l’elenco è su www.altrescarpe.it/rivenditori), l’altra è venduta direttamente durante le fiere, via internet o ai gruppi d’acquisto solidali. “L’abilità di Jesus è quella di costruire scarpe a partire dall’impronta di un piede sulla sabbia. Escono bombate, con la punta tonda -spiega Belotti-. Lavoro con lui da 8 anni. L’impegno, costante, è alla ricerca di soluzioni naturali per tutti gli elementi che compongono una scarpa. Se facciamo dei compromessi, ad esempio utilizzando suole di caucciù ‘attivato’ con sostanze chimiche, è perché questo favorisce la portabilità e la durata della suola. Le suole in lattice non attivato, che abbiamo usato, erano troppo rigide in inverno e si scioglievano in estate”. Belotti non teme la concorrenza. Spiega, anzi, che da quando sul mercato sono arrivate altre ditte lui riesce ad “evidenziare di più il lavoro artigiano che c’è dietro i modelli Bioworld, che ormai sono 45”. Info: info@altrescarpe.it, www.altrescarpe.it, 030-64.03.02