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Bitcoin. La moneta che sfida gli Stati

04/06/2013

Non è stampato da nessuna zecca centrale. Non passa da nessuna banca. Eppure un Bitcoin, la valuta digitale nata nel 2009, oggi vale quasi 100 euro. Tra speculazione e rivoluzione
Scordatevi l’odore dei soldi. Ma soprattutto scordatevi il ruolo dei governi e delle banche. Perché a differenza di tutte le valute in circolazione, la moneta digitale lanciata nel gennaio 2009 col nome di Bitcoin non è prodotta da una zecca centrale ma da un algoritmo crittografato. Il timbro della legittimità non arriva, quindi, dallo Stato monopolista ma dalla collettività della rete peer-to-peer. La mancanza di intermediari non ha solo un valore simbolico ma anche, e soprattutto, pratico: nessuno può bloccare le transazioni di Bitcoin né esigere commissioni. Non a caso, la prima vera affermazione della valuta inventata dal fantomatico Satoshi Nakamoto si ebbe nel dicembre 2010, all’indomani del blocco delle donazioni a Wikileaks, quando i giganti del credito sfruttarono il loro ruolo per fermare le sottoscrizioni al sito che aveva reso pubblici documenti segreti del governo Usa. Avrebbe potuto fare la fine degli altri esperimenti e restare una moneta di nicchia, utilizzata essenzialmente da hacker che ne enfatizzano la sfida al monopolio statale e alle banche, o da criminali che ne sfruttano l’anonimato. Invece il Bitcoin è decollato. Smerciato inizialmente per pochi centesimi, oggi si cambia a 90/100 euro, dopo aver raggiunto il record di 266 dollari il mese scorso. Il maggior sito che ne permette la compravendita è MtGox. Algoritmi in cambio di monete sonanti. Molti esperti assicurano che continuerà a crescere. Perché, a differenza delle altre valute, non sarà emessa all’infinito, ma si fermerà a 21 milioni (al momento ha superato gli 11 milioni, circa un miliardo di euro). Dopo la decuplicazione del suo valore, la Bitcoin Foundation, che paga i salari in cyber moneta, ha deciso che l’ammontare degli stipendi sarà pattuito mese per mese.
Rimpiazzando i picconi dei cercatori d’oro con i processori, i pionieri della nuova moneta (“miners”) cercano numeri rari enormi che corrispondono a precisa una funzione matematica. Ormai solo potentissimi computer muniti di avanzate schede grafiche possono sviluppare l’algortimo che permette di creare nuovi Bitcoin. A verificare la correttezza dell’intero processo sono gli utenti stessi grazie al software open source: garanti volontari premiati con Bitcoin. Lo scambio della super valuta digitale avviene attraverso una rete peer- to-peer simile a quella usata per i file musicali dei tempi di Napster, ma è graniticamente protetto da una crittografia a doppia chiave asimmetrica. Rigorosamente anonime (l’unico elemento che compare è un indirizzo digitale), le transazioni sono però tutte pubbliche, certificate e irreversibili. Nessuno può spendere due volte la stessa moneta. I possessori di Bitcoin possono scegliere se custodirli in portafogli digitali o direttamente sul disco fisso del loro computer.
«Il Bitcoin rivoluziona la contabilità a partita doppia grazie all’introduzione della verifica collettiva. E trova la sua forza nella neutralità del suo sistema », dice l’hacker Jaromil in polemica con le istituzioni statali o bancarie «scoperte spesso a barare». In particolare, la crittovaluta offrirebbe soluzioni interessanti per gli immigrati e i piccoli artigiani: «Oggi l’economia migrante è dominata dall’oligopolio delle società specializzate nel trasferimento del denaro come MoneyGram e Western Union che intascano sino al 20 per cento di margine sui cambi. Con Bitcoin questo non accadrebbe », sottolinea Jaromil. «Anche i piccoli imprenditori ne beneficerebbero perché oggi devono fare i conti con barriere di entrata sul mercato online che rendono impossibili le microtransazioni. Oppure sono costretti ad alzare i prezzi per assorbire le commissioni delle carte di credito». Un’altra caratteristica di Bitcoin è che può essere frazionato in parti piccolissime, fino a otto cifre dopo lo zero. Facilitando le microdonazioni.

continua

Tratto da www.left.it