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Datagate: i colpevoli sono due

30/10/2013

Chi aveva decretato la fine dell’età dei diritti, oggi dovrebbe riflettere sul fatto che la prima, vera crisi tra Stati Uniti e Unione europea si è aperta proprio intorno alle violazioni di un diritto fondamentale — quello alla privacy. Ed è una crisi che mostra con chiarezza che cosa significhi in concreto la globalizzazione, quali siano i limiti della sovranità nazionale, di quale portata siano ormai le sfide rivolte alla democrazia attraverso diverse negazioni di diritti.
L’Europa reagisce, ma non è innocente. Non si può dire che questa sia una sorpresa, una vicenda imprevedibile, se non per la dimensione del fenomeno. Fin dai giorni successivi all’11 settembre, era chiaro che la strada imboccata dall’amministrazione americana andava verso l’estensione delle raccolte di informazioni personali, la cancellazione delle garanzie per i cittadini di paesi diversi dagli Stati Uniti, l’accesso alle banche dati private.
Vi è stata una colpevole sottovalutazione di queste dinamiche e sono rimaste inascoltate le sollecitazioni di chi riteneva indispensabile un cambio di passo nelle relazioni tra Unione europea e Stati Uniti, per impedire che sul mondo si abbattesse il “digital tsunami” poi organizzato dalla National Security Agency e provvidenzialmente rivelato da Edward Snowden.
Angela Merkel ha reagito alla notizia di un controllo sulle sue telefonate. Ma negli anni Novanta si seppe di un sistema mondiale di intercettazione delle comunicazioni chiamato Echelon (gestito da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda), che riguardò anche Romano Prodi, allora Presidente del consiglio. Le reazioni furono deboli e il Parlamento europeo svolse una indagine assolutamente inadeguata. L’atteggiamento dell’Unione europea, quando ha negoziato con l’amministrazione americana in queste materie, è sempre stato debole, addirittura subalterno, e le pressioni delle lobbies americane continuano a farsi sentire in relazione al nuovo regolamento europeo proprio sulla protezione dei dati personali. Ora Barroso fa dichiarazioni molto dure, che tuttavia hanno senso solo se accompagnate da un profondo cambiamento di linea.
Tutto questo non diminuisce le responsabilità degli Stati Uniti, gravissime, perché è ormai chiaro che la gigantesca caccia alle informazioni non aveva come fine la sola lotta al terrorismo. Altrimenti non si sarebbero intercettate le comunicazioni di capi di Stato o di governo. Fin dai tempi di Echelon era chiaro che i dati raccolti servivano per conoscere strategie politiche ed economiche, per dare alle imprese americane un di più di informazioni per renderle più competitive rispetto a quelle europee.
Vale la pena di ricordare le parole dette all’ultima assemblea dell’Onu dalla Presidente del Brasile, Dilma Rousseff, anch’essa intercettata: «Senza tutela del diritto alla privacy non v’è libertà di opinione e di espressione, e quindi non v’è una vera democrazia». E questa dichiarazione è stata seguita dalla cancellazione del suo viaggio ufficiale negli Stati Uniti. Siamo dunque di fronte ad una vera questione di democrazia planetaria, che nessuno Stato può pensare di affrontare da solo, sulla spinta di risentimenti nazionali o personali. Angela Merkel usa parole dure, Enrico Letta invoca verità, François Hollande protesta. Ma loro sono governanti della regione del mondo dove la tutela dei dati personali ha trovato la tutela più intensa, considerata come diritto fondamentale dall’articolo 8 della Carta dei diritti dell’Unione europea. Essi hanno l’obbligo e l’occasione per aprire una fase in cui la tutela dei diritti fondamentali sia adeguata alle nuove sfide tecnologhe, che si traducono in una offerta crescente di strumenti utilizzabili proprio per violare quei diritti.

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