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I Comuni italiani non fanno acquisti verdi

18/11/2008

Sono al palo i bandi per gli acquisti delle pubbliche amministrazioni in Italia. Una panoramica sullo stato d'attuazione del Green Public Government

I Comuni hanno in mano lo strumento per trasformare l'industria e impiegare i soldi dei contribuenti, i nostri soldi (che finanziano la pubblica amministrazione), in base a criteri di sostenibilità ambientale e sociale: sono i bandi di gara per forniture e servizi sostenibili ispirati ai criteri del Green Public Prourement (Gpp), e coprono il 16% del prodotto interno lordo dell'Unione Europea.

Le scelte virtuose in Italia restano esempi da vetrina: un Comune medio-grande come quello di Brescia (circa 190mila abitanti), ad esempio, nel 2007 ha superato il milione e 300mila euro di acquisti considerati “verdi”, pari al 31,64% delle forniture.
Peccato che gli “acquisti verdi” dovrebbero ormai essere la prassi: il primo libro verde sul Green Public Procurement della Commissione europea, Gli appalti pubblici nell'Unione Europea, è del 1996. Quest'estate, una comunicazione della Commissione europea ha posto ai Paesi membri l'obiettivo di inserire i criteri del Gpp nel 50% delle gare d'appalto della pubblica amministrazione entro il 2010. Bruxelles non inserisce nessun tipo di obbligo, ma è un target possibile, perché tarato sul comportamento virtuoso dei 7 Paesi più sensibili (Austria, Danimarca, Finlandia, Germania, Olanda, Svezia e Regno Unito, definiti “Green-7”).
E l'Italia? Il nostro Paese arranca: siamo fermi all'8-10% di “acquisti verdi”, lasciati alla buona volontà di amministrazioni illuminate o sensibili alle tematiche ambientali.
Ma il volontarismo non è efficiente né sufficiente.

L'acquisto ambientalmente sostenibile della pubblica amministrazione non funziona nemmeno quand'è un obbligo di legge: il decreto legislativo 22 del 1997, undici anni fa, obbligava le Regioni a coprire il 40% del proprio fabbisogno con carta riciclata. Sei anni dopo, il decreto 203 del 2003 obbligava tutti gli enti pubblici a coprire il 30% del proprio fabbisogno annuo di manufatti e beni (dalla carta, ai mobili) con materiale riciclato. Ma l'operatività del decreto è ingessata da “condizioni” che ne limitano (o azzerano) l'efficacia.

Sul Green Public Procurement siamo in ritardo: nel 2003 l'Unione Europea ha invitato tutti i Paesi membri ad elaborare, entro il 2006, piani d'azione per “l'integrazione delle esigenze ambientali negli appalti pubblici”. Il Piano di azione nazionale italiano (Pan Gpp) è stato approvato solo nell'aprile del 2008, ma ancora restano al palo i decreti attuativi che definiranno i requisiti per definire “verde” un bene o servizio oggetto del bando. Tecnicamente, si chiamano “criteri ambientali minimi” e riguardano una dozzina di tipologie di prodotto individuate.
Il ritardo nell'attuazione dei principi del Green Public Procurement non è cosa da poco: in Italia, i “consumi” della pubblica amministrazione -l'insieme di Comuni, Province, Regioni, ministeri ed enti di ricerca- valgono circa 115 miliardi di euro all'anno. E almeno 50 miliardi, secondo Riccardo Rifici, che presso il ministero dell'Ambiente coordina il gruppo di lavoro sul Gpp, fanno riferimento agli undici settori prioritari individuati nel Piano d'azione nazionale, ossia sono “aggredibili”.
Il Gpp, cioè, sarebbe un volano straordinario, in grado se attuato di trasformare il sistema produttivo italiano, valorizzando piccole, medie e grandi imprese che investono sulla sostenibilità ambientale e non solo in greenwashing.
Sul numero di novembre di Altreconomia un'inchiesta fa il punto sul fallimento del Gpp. Un fallimento della politica, legato anche al mito eterno della libera concorrenza.

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