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Il nostro Bernard Maris

08/01/2015

Bernard Maris, nato a Tolosa nel 1946 e assassinato il 7 gennaio nell’agguato alla redazione di Charlie Hebdo, era un economista molto noto, capace di comunicare con stile e ironia anche i concetti più complicati. Sul giornale satirico francese, di cui era un pilastro, si firmava Oncle Bernard

Con melanconia, difendeva l’idea di un’economia alternativa alla “furia del capitalismo”, dove la gratuità e il dono hanno il loro spazio importante. Professore all’università e autore di romanzi, ha dedicato un libro a Keynes (Keynes ou l’économiste citoyen, 1999) e i suoi due Antimanuels d’économie (2003, 2006) sono dei punti di riferimento. Ha partecipato ad Attac, politicamente aveva un retroterra socialista ma ultimamente di era avvicinato ai Verdi. Guardava con disincanto i socialisti, ridotti a “gestori” il cui unico progetto era diventato quello di “farci uscire dal deficit di bilancio”. Ultimamente, aveva uno sguardo disincantato sull’euro, di fronte a un’Europa sempre più “balcanizzata”. Incrociava l’economia con la letteratura, amava Balzac, Zola, di recente, sorprendentemente, aveva apprezzato Huellebecq che, ne La carte et le territoire, secondo lui era “riuscito a cogliere il malessere economico che incancrenisce la nostra epoca”. Il keynesiano iconoclasta dal 2011 era nel consiglio generale della Banque de France. Presentiamo qui alcune parti delle conclusioni del suo Antimanuale di economia (tradotto in italiano da Marco Tropea, 2005). La dedica del libro è “All’economista ignoto, morto per la guerra economica, che per tutta la vita ha spiegato magnificamente il giorno dopo perché si era sbagliato il giorno prima”.

«Abbiamo iniziato con la questione della scarsità e della distribuzione, concludiamo con una nota di ottimismo relativa all’abbondanza: quella della cultura e della conoscenza. È difficile parlare di abbondanza quando oltre un miliardo di persone non ha accesso diretto all’acqua! La questione dell’acqua, per l’appunto, mostra che il problema economico è lontano dalla soluzione.

Eppure verrà il giorno in cui l’umanità lotterà per ciò che può avere in abbondanza – e quindi cesserà di lottare, giacché non si lotta per ciò che abbonda – e non più per per quello che l’attività economica rende drammaticamente scarso. Il capitalismo organizza la scarsità, i bisogni e la loro frustrazione. Le generazioni passano, si arricchiscono (accumulano oggetti e rifiuti), ma sembra che la frustrazione e la paura del futuro e della privazione non diminuiscano (…). Gli economisti raccontano che il funzionamento delle società è naturale, che lo scambio di mercato è primordiale e naturale, che la concorrenza è anch’essa qualcosa di naturale, che non si può contraddire il mercato. Se per mercato s’intende il “girotondo dei potenti” (analisti, esperti, multinazionali, banche d’affari, agenzie di rating, giornalisti finanziari, uomini politici) è vero. Ma non vi è nulla di meno naturale di un mercato creato, organizzato, istituzionalizzato a favore di interessi molto particolari, né vi è nulla di più inefficiente. La storia, la genesi dei mercati, dei prodotti, delle invenzioni, le loro relazioni con la sociologia, l’antropologia, i costumi, la psicologia, la geografia, la politica – di tutto questo dovrebbe occuparsi una buona analisi economica, che privilegi la storia, i fatti. Tutto il resto è solo ideologia o, nella migliore delle ipotesi, cattiva psicologia (…).

Il filo conduttore di questo libro è il grande dibattito sul “mercato” e sul “gratuito” (…) Alla fine di questo Antimanuale, dovrebbe essere chiaro che la gratuità e la solidarietà determinano la crescita, l’invenzione, la ricchezza, malgrado la concorrenza, sostanzialmente inefficiente. (…). Il sistema di mercato sopravvive soltanto perché fagocita tutto quello che discende dalla gratuità e dalla solidarietà. Si appropria dei beni pubblici e impone pedaggi per il loro uso (…). Virtù come l’onore, la fedeltà, il rispetto per gli altri, la morale, non hanno alcun interesse per l’economista, a meno che si presentino sfigurate da qualche grottesca formulazione del tipo “Quanto mi rende essere onesto?”. Dobbiamo smascherare instancabilmente i rapporti di potere che si celano sotto le “evidenze” economiche, rifiutare tutte le false leggi (“i profitti di oggi sono i posti di lavoro di domani”, “il commercio arricchisce”, “la Borsa tira la crescita”) e tutte le false evidenze (“gli Stati Uniti sono un paese liberale”: al contrario, sono nazionalisti, interventisti in campo economico e fanno un enorme ricorso, specie in materia di ricerca, ai fondi pubblici).

La gratuità e la solidarietà sono di buon auspicio per quella che potrebbe essere la società di domani, una volta scomparso il problema economico, Può darsi che l’ideologia economica regni per sempre: Orwell e Huxley hanno raccontato la fine della storia e l’eternità dell’orrore economico ben prima di Fukuyama.

Ma facciamo un sogno: quando l’economia e gli economisti saranno scomparsi, o saranno stati quanto meno relegati in “secondo piano”, saranno scomparsi anche il lavoro senza senso, la servitù volontaria e lo sfruttamento degli esseri umani. Allora sarà il regno dell’arte, del tempo oggetto di libera scelta, della libertà. Chi sognava tutto questo? Keynes, il più grande degli economisti.»

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