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Garantire il reddito o il lavoro? Una ricomposizione possibile

02/05/2013

Un sistema di reddito minimo potrebbe sostenere i salari e favorire il lavoro, oltre che proteggere il reddito ed evitare la povertà. Come si lega a tassazione e relazioni sindacali. La discussione di sbilanciamoci.info

Sbilanciamoci.info ha aperto un’utile discussione sul reddito minimo, con la presentazione della proposta di legge d’iniziativa popolare sul reddito minimo garantito (1). La proposta è stata avanzata da movimenti e forze politiche e riflette la diffusa percezione che le condizioni di disoccupazione e di precarizzazione, non solo dei giovani ma anche degli anziani, rendano urgente introdurre forme di garanzia del reddito per assicurare condizioni minime di vita individuale necessarie anche a contrastare la crescente insicurezza che mina la coesione sociale. Una garanzia di reddito è uno strumento che in Italia manca, ma è presente nelle altre nazioni europee, seppur in modo differenziato per quanto riguarda i soggetti interessati, le modalità di erogazione, le condizioni per poterne usufruire (un’utile sintesi e un confronto internazionale è in Bin Italia, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile: www.bin-italia.org/informa.php?ID_NEWS=423).

La proposta di legge è un tentativo generoso di indicare una via d’uscita dalla crisi in quanto prospetta un assetto di politica economica radicalmente diverso da quello con il quale vi siamo entrati e che ci sta costringendo nel lungo travaglio di questa crisi “infinita”. È un cambio di ottica radicale poiché pone come obiettivo centrale della politica economica non la pretesa efficienza e stabilità dei meccanismi di regolazione di mercato, ma le condizioni e le prospettive materiali del lavoro, di chi ce l’ha e di chi non ce l’ha.

Le politiche attuali accentuano il contenimento dei redditi salariali, l’elusione dei diritti, la precarizzazione della vita dei lavoratori; rendono tutto questo un elemento strutturale dell’assetto del paese, con una spirale che ha radici lontane e una drammatica prospettiva futura. L’economia è segnata dalla doppia tendenza alla delocalizzazione delle produzioni a più alta intensità di lavoro e a un’innovazione tecnologica risparmiatrice di lavoro; il mondo del lavoro, in assenza di appropriati interventi alternativi, si trova così stretto in una tenaglia in cui il dilemma è tra una perdita (in quantità e di qualità) di occupazione e una perdita nei livelli salariali. Si tratta, in ogni caso, di una regressione nelle prospettive di vita per ampi strati della popolazione, siano lavoratori o aspiranti tali, siano giovani o vecchi, siano precari o garantiti.

Da tempo vi è la consapevolezza che le difficoltà occupazionali non siano un fatto congiunturale, ma l’espressione di fondamenti strutturali che preesistono alla crisi e che rischiano di risultare accentuati in futuro. Ha fatto bene Laura Balbo (old.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Disoccupato-dell-anno.-Quale-15034) a richiamare su queste pagine l’attenzione alle radici del deterioramento delle condizioni del lavoro, così come l’analisi di Lia Fubini (old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Lavorare-meno-per-un-new-deal-verde-15172) a sollecitare iniziative per scongiurare una prospettiva così drammatica attraverso una necessaria redistribuzione del lavoro.

Lo stesso Ocse conferma implicitamente queste analisi quando, nel suo rapporto sulla crescita globale nel lungo termine (www.oecd.org/eco/outlook/2060%20policy%20paper%20FINAL.pdf), rileva che, estendendo lo sguardo fino al 2060, il tasso di crescita del prodotto interno del nostro paese si aggirerà interno all’1,5% (quello pro-capite poco di meno). Considerato che, a livello di sistema, non è pensabile che la produttività per unità di lavoro non possa crescere a un tasso inferiore dovendo l’economia mantenere un livello accettabile di competitività, si dovrebbe dedurre che il volume dell’occupazione (le persone occupate o le ore lavorate) non si modificherà sostanzialmente nel corso di questo lungo periodo; ciò risulta confermato dalla valutazione che lo stesso Rapporto dà della stagnazione del nostro tasso di partecipazione (previsto al di sotto del 50%). Per quanto possono valere queste valutazioni a così lungo periodo, esse comunque segnalano una situazione strutturale in cui l’offerta di lavoro eccede sistematicamente la domanda e quindi l’esclusione inevitabile e sistematica di una consistente fascia di popolazione dalle opportunità di impiego e l’assoggettamento a un continuo carosello tra disoccupazione e occupazione in lavori precari.

Per quanto si possa essere convinti che sia il lavoro e non il reddito il fattore decisivo per la realizzazione dell’individuo e per uno sviluppo di qualità della società, ci si deve preoccupare che la mancanza di un’occupazione stabile e dignitosa e il ridimensionamento della quota di reddito da lavoro complessivo non si traducano in un fattore disgregante del corpo sociale. Una politica economica di sostegno della domanda e politiche fiscali di perequazione potrebbero sostenere la quota del reddito da lavoro, ma, nelle condizioni strutturali che viviamo, esse appaiono ampiamente insufficienti: il reddito di sopravvivenza non può dipendere in assoluto da un’occupazione che i mercati non sono in grado di garantire.

Di fronte a una politica dell’offerta che penalizza il lavoro, è necessario pensare a un’alternativa che, ponendosi allo stesso livello di complessità, metta il mondo del lavoro al centro dell’iniziativa di riorganizzazione istituzionale per disporre di modalità per distribuire e redistribuire lavoro e reddito. Facendo tesoro dell’ampio dibattito che si è da tempo sviluppato in Italia (oltre che a livello internazionale) sulle modalità con le quali va articolato un basic income, mi sembra ragionevole rilanciare la discussione partendo da una proposta semplice e radicale e ragionare sulle implicazioni che ne possono derivare. Ritengo che un’iniziativa di garanzia del reddito non possa che: (a) riguardare tutti i cittadini, ovvero avere carattere universale; (b) essere incondizionata; (c) avere come obiettivo il ridimensionamento delle condizioni di precarietà dell’offerta di lavoro. Quest’ultimo aspetto richiede che l’intervento non riguardi solo la sicurezza sociale ma risulti intrecciata a opportuni interventi di politica fiscale e politica sindacale.

In questa mia valutazione, il reddito di cittadinanza dovrebbe essere garantito a livello di singolo individuo attraverso un assegno destinato all’universalità dei cittadini per l’intero corso della loro vita, qualsiasi sia la loro posizione lavorativa, il genere e l’età. Si tratterebbe di un reddito incondizionato, dove l’unico requisito sarebbe l’essere “cittadino italiano” e quindi disporre di un codice fiscale; l’assegno è versato su un “conto fiscale” intestato alla singola persona. Il reddito di cittadinanza dovrebbe essere fiscalmente esente da imposte personali e dai contributi sociali, sia di quelli a carico del soggetto che dell’eventuale suo datore di lavoro. L’amministrazione pubblica dispensa l’assegno, ma, nel caso degli occupati e dei pensionati (e soggetti con analoga regolare remunerazione nel tempo), è l’impresa o l’amministrazione previdenziale a erogare la parte del salario o stipendio corrispondente al reddito di cittadinanza sul conto fiscale del soggetto. Alla cessazione o interruzione del rapporto di lavoro l’onere della sua corresponsione passa all’amministrazione pubblica. Il reddito di cittadinanza riassorbe tutti i sussidi (di disoccupazione, di povertà ecc.) e le prestazioni sociali (pensioni sociali ecc.) esistenti; esso può essere integrato da assegni integrativi per specifiche situazioni dovute a motivi sociali (varie inabilità) o per condizioni lavorative (pensioni integrative, cassa integrazione ecc.), le cui finalità, essendo nettamente distinta da quella del reddito di cittadinanza, vanno trattate in maniera del tutto distinta.

A giustificazione di una proposta a carattere universale non vi è solo l’obiettivo di favorire un assetto sociale che contrasti povertà e insicurezza, ma c’è anche la necessità di riconoscere che le “diversità” che si registrano nella società non sono frutto esclusivamente di comportamenti individuali, bensì di circostanze storiche collettive. Si deve considerare che una quota della produttività di cui le imprese si appropriano dipende dall’utilizzo di risorse umane (istruzione, cure famigliari ecc.), sociali (fiducia, cooperazione ecc.), ambientali (natura, infrastrutture ecc.) che sono disponibili liberamente in quanto frutto di una passata attività collettiva (pubblica e privata) non appropriabile; è per questo che si deve riconoscere che la parte del prodotto dell’impresa imputabile alla produttività sociale di queste risorse, e quindi il corrispondente reddito, dovrebbe costituire un reddito “comune” che va distribuito tra tutti coloro che fanno parte della società. Il reddito di cittadinanza dovrebbe essere quindi inteso come un "dividendo sociale" corrisposto ai cittadini di una comunità a titolo di compartecipazione al prodotto sociale risultante dalle diverse attività economiche rese possibili o potenziate dall’utilizzo delle risorse indisponibili e indivisibili della comunità.

Il fatto di considerare questo reddito esente dall’imposizione fiscale sulle persone fisiche e sull’impresa avrebbe importanti implicazioni. Per quanto riguarda i singoli soggetti, un reddito universale esente definisce una base incomprimibile della famiglia e aumenta proporzionalmente all’aumentare dei soggetti che vi partecipano. L’impresa, d’altra parte, avrebbe la convenienza a tenere rapporti di lavoro regolari per poter sfruttare l’esenzione fiscale e contributiva sulla parte dei salari relativa al reddito di cittadinanza, favorendo l’emersione del sommerso. L’obbligo di segnalare le variazioni nella posizione lavorativa (in entrata e in uscita) del lavoratore poiché essenziale per individuare il soggetto che è tenuto a corrispondere l’assegno (impresa o amministrazione pubblica), rende possibile il continuo monitoraggio di chi e come beneficia dell’assegno. Il fenomeno del lavoro “nero” dovrebbe quindi essere ridimensionato; un tale effetto sarebbe rafforzato sottoponendo i lavoratori (e le imprese) che non segnalano il rapporto di lavoro a pesanti penalità (per i lavoratori, la restituzione dell’assegno percepito indebitamente e la sospensione della sua erogazione per un ulteriore congruo periodo; per l’impresa l’obbligo a trasferire all’amministrazione pubblica le somme precedentemente non versate al lavoratore).

Ma, al di là degli interventi di controllo e repressione, l’introduzione di un assegno così strutturato potrebbe avere un effetto importante se la riorganizzazione del lavoro dell’impresa si sviluppa in un contesto di redistribuzione del lavoro a livello generale. Ciò potrebbe essere realizzato articolando l’imposizione fiscale e contributiva sul salario eccedente il reddito di cittadinanza sulla base dell’orario di lavoro: più bassa per il reddito da part-time; più alta per il reddito da orario normale; più alta ancora per il reddito del lavoro straordinario. Una fascia di soggetti potrebbe preferire orari più ridotti dato che il reddito da tale attività integrato con il reddito di cittadinanza potrebbe raggiungere livelli soddisfacenti (presumibilmente superiori agli attuali redditi precari). L’impresa d’altra parte potrebbe scegliere in maniera più flessibile la combinazione degli orari, part-time e full-time, in maniera più consona alla sua organizzazione (o riorganizzazione) produttiva. L’espansione del lavoro a tempo parziale è, non va dimenticato, un obiettivo essenziale per allargare le opportunità di lavoro e ridurre l’inoccupazione strutturale esistente e prevista.

Il modello redistributivo del reddito che viene qui prospettato accentua la rilevanza dell’intervento sindacale poiché nella contrattazione, sia salariale che normativa, si trova a dover trovare un raccordo tra le esigenze differenziate dei lavoratori e le necessità dell’organizzazione produttiva dell’impresa; non si dovrebbe trascurare che la contrattazione sul part-time dovrebbe essere interpretata come un “contratto di solidarietà” di carattere nazionale.

Non è prevedibile che tutti i soggetti beneficiari del reddito di cittadinanza siano assunti da un’impresa. Non è escluso, anzi, che si espanda il lavoro indipendente, la cui attività produttiva sarebbe gestita in maniera analoga alle attuali partite Iva. Anche l’assegno del titolare autonomo costituirebbe reddito esente fiscalmente e le aliquote fiscali sul reddito eccedente dovrebbero essere equiparate a quelle del lavoro (part-time e full-time) delle imprese. Il reddito di cittadinanza potrebbe risultare funzionale alle intraprese di autoimpiego, di autopromozione della propria imprenditorialità, fornendo quel minimo di sicurezza ai singoli (o collettivi) che investono nei propri progetti; un analogo sostegno si avrebbe per coloro che si impegnano in altre attività non remunerate, quali quelle non-profit. Va da sé che l’esistenza di un reddito di cittadinanza potrebbe indurre nelle persone un atteggiamento non meno, ma più choosy, secondo l’espressione della nostra ineffabile Ministra, ma offrire loro l’opportunità di scegliere con più consapevolezza il proprio lavoro non è un fatto disprezzabile dato che queste scelte sono per il singolo soggetto quelle decisive per il processo di formazione della propria personalità.

Il reddito di cittadinanza dovrebbe attivare una controtendenza rispetto alle direzioni correnti che mirano all’allungamento dell’orario di lavoro e alla precarietà (sia come continuità che come remunerazione) del rapporto di lavoro. In prospettiva, esso dovrebbe mirare alla riduzione dei tempi di lavoro individuali e all’ampliamento del numero di persone coinvolte nel processo produttivo e, nel contempo, migliorare le condizioni di vita dei lavoratori per la minore insicurezza e la minore soggezione a una domanda di lavoro dai caratteri precari. Naturalmente, l’esistenza di un reddito di cittadinanza riduce (irrigidisce) l’offerta di lavoro eliminando le forme di precariato più vessatorie e ponendo un pavimento ai salari contrattati e quindi contendo le spinte alla disuguaglianza dei redditi e alla povertà. Un effetto a livello ancor più generale si potrebbe avere se la garanzia fornita dal reddito di cittadinanza favorisce la ricostruzione di forme di solidarietà tra settori, tra generazioni, in quanto tutti godono di un ancoraggio, per quanto minimo, che li ripara dalla variabilità (esterna e interna) delle opportunità lavorative. Non va trascurato inoltre che esso potrebbe rappresentare un efficace sostegno per tutte quelle attività (soprattutto di cura interne e esterne alla famiglia) che, essenziali per il benessere della popolazione, non trovano alcun esplicito riconoscimento del loro valore sociale.

L’introduzione di un reddito di cittadinanza costituisce naturalmente un progetto costoso. Il suo onere finanziario diretto può comportare un maggiore impegno dell’amministrazione pubblica non inferiore al centinaio di miliardi a regime. A tale impegno finanziario si deve aggiunta le minori entrate fiscali per l’esenzione fiscale e contributiva dell’assegno nonché per l’eventuale sviluppo delle posizioni lavorative part-time che ne potrebbero conseguire; ma proposte di riduzione delle imposte sono ampiamente sul tappeto e questo modo di ridurle mi sembra tra le più preferibili. Non va peraltro trascurato che l’introduzione di un reddito di cittadinanza comporterebbe una non irrilevante riduzione di spesa per l’eliminazione (o comunque il ridimensionamento) di quell’ampia gamma di sussidi e di trasferimenti sociali (sussidi di disoccupazione, pensioni sociali ecc.) che sarebbero riassorbiti nel nuovo quadro redistributivo. Ancora, non va sottovalutato il ridimensionamento (o comunque la drastica semplificazione) dell’attuale apparato amministrativo, e la notevole riduzione dei costi burocratici, dovuto all’eliminazione di tutti quegli interventi di welfare che verrebbero sostituiti dal reddito di cittadinanza.

Si deve infine rilevare che il reddito di cittadinanza fornisce alla politica economica uno strumento flessibile per una politica dei redditi; un tale strumento potrebbe permettere di governare (attraverso l’indicizzazione ai prezzi o alle variazioni dell’Iva, con variazioni nelle aliquote fiscali e contributive ecc.) l’evoluzione delle condizioni, sia strutturali che congiunturali, del mondo del lavoro. Ma soprattutto permetterebbe di meglio programmare tutte quelle attività collaterali di promozione all’avviamento al lavoro, all’istruzione, alla formazione culturale e professionale per costruire (o ricostruire) le capacità individuali per una più adeguata partecipazione all’attività produttiva, sia di mercato che non di mercato. Anche il contrasto della povertà e dell’esclusione sociale risulterebbe più efficace in presenza di persone dotate di un minimo per la loro sopravvivenza; non è quindi in contrasto con ipotesi variamente avanzate di lavori di cittadinanza, di lavori utili e di altri progetti di intervento finanziati pubblicamente che risulterebbero, in questo quadro redistributivo, iniziative opportune non solo in quanto integrazione del reddito di cittadinanza, ma anche perché i soggetti coinvolti non li considererebbero una forma mascherata di sussidio, ma una vera partecipazione a progetti di rilevo.

(1) old.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Reddito-minimo-garantito-la-proposta-di-legge-d-iniziativa-popolare-18109; old.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Reddito-minimo-come-si-potrebbe-fare-18107 ; www.redditogarantito.it/#!/home

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distribuzione del lavoro

PROPOSTA ELABORATA DA UN GRUPPO DI LAVORO DI FEDERMANAGER TORINO NEL 2002, approvata dalla giunta e fermata in assemblea.

Torino 28/3/2002

Lo scontro in atto sul superamento dell’articolo 18 focalizza la problematica della flessibilità, oggi regolata da un coacervo di strumenti, risultato di innumerevoli interazioni. L’approccio fin qui attuato sta provocando uno scontro sociale. Il sindacato dei dirigenti propone di affrontare il problema cambiando il paradigma; si propone di passare:

DALLA TUTELA DEL POSTO DI LAVORO
AL LAVORO COME DIRITTO

Per affrontare in modo organico un tema come questo, che richiede di analizzare altre problematiche come: la competitività del paese, la coesione sociale, la coerenza dell’ambiente esterno, è probabilmente opportuno formulare una:

PROPOSTA DI UN MODELLO DI RELAZIONI INDUSTRIALI
PER L’ITALIA DEL PRIMO DECENNIO DEL SECOLO

Per progettare qualsiasi cosa si deve prima definire cosa si vuole ottenere (specifiche), questo vale anche per la progettazione di un nuovo modello di relazioni industriali.
Si propone anche un percorso:
1. definizione di quali sono gli attori (EU, stato, sindacati, imprese)
2. definizione delle specifiche del modello di relazioni industriali che si vuole realizzare (è più facile concordare le specifiche che il come realizzarle)
3. definire le modalità di realizzazione delle specifiche che trovano le parti su posizioni abbastanza comuni
4. completare il modello




Il nuovo modello di relazioni industriali deve garantire:
1. Una elevata competitività delle imprese a livello internazionale, in modo da realizzare elevati risultati economici che permettano di distribuire di più sia ai lavoratori che alle imprese
2. La massimizzazione occupazione
3. Una buona coesione sociale
4. Una buona qualità del lavoro
5. Un buon funzionamento del sistema sia in caso di congiuntura favorevole che di congiuntura sfavorevole
6. Una chiara definizione dei ruoli e delle competenze: EU, stato, sindacati, imprese
7. Il superamento della coesistenza, sul nostro territorio, di sistemi di relazioni industriali basati su regole differenti
8. La possibilità di soddisfare le esigenze a livello: regionale, locale, di impresa

Vediamo ora una ipotesi relativa ad un modello di relazioni industriali e come questo risponderebbe alle specifiche poste.

1) Per determinare una elevata competitività delle imprese a livello internazionale, in modo da realizzare elevati risultati economici che permettano di distribuire di più sia ai lavoratori che alle imprese, è necessario:
o Superare la logica del conflitto, concordando le condizioni che possano fare evolvere verso la partnership. La contrapposizione che distrugge la ricchezza non è nell’interesse ne dei lavoratori ne delle imprese, ma è la situazione odierna, determinata da una reciproca mancanza di fiducia che ha profonde ragione storiche. Nel definire il nuovo modello di relazioni industriali, si deve porre come presupposto di base che le parti (imprese/lavoratori) fanno i propri interessi; la soluzione è possibile definendo un modello nel quale le parti pur agendo solo in base alla logica di massimizzazione dei propri benefici, non solo non si danneggino a vicenda, ma costruiscano insieme la competitività dell’azienda. E’ possibile! Non c’è uno schema unico (vedi caso G.B. e Germania). Molte esperienze in EU dimostrano che la competitività si può costruire insieme. Queste esperienze si possono ulteriormente migliorare. Per risolvere alla base il problema ci deve essere una precisa volontà delle parti oggi contrapposte, volontà che discende solo dalla convinzione, che superare la logica del conflitto sia il percorso vincente per tutte le parti.
o Superare la logica della tutela del posto di lavoro, definendo la tutela del diritto al lavoro ( equivale a dire soddisfare pienamente la domanda di lavoro). E’ questo un diritto costituzionale mai realizzato. Per trasformare le dichiarazioni di principio in uno scenario che possa garantire il diritto, è necessario portare la disoccupazione ad un certo livello ( es. inferiore al 4%) equamente distribuito su tutto il territorio nazionale. Questo obbiettivo può essere raggiunto in tempi brevi distribuendo il lavoro che c’è, attraverso tre azioni:
A) L’incentivazione del part-time . B) Il superamento degli straordinari . C) La definizione di un orario annuale massimo. - Il part-time nei paesi nordici interessa circa il 20% dei lavoratori, in Italia non raggiunge il 2%. Una forte incentivazione del part-time, con una opportuna riduzione degli oneri di impresa, determinerebbe da sola , nel medio periodo, un significativo aumento dell’ occupazione. Il part-time può essere vissuto anche in modo nuovo: potrebbe essere una formula apprezzata per il sostegno all’invecchiamento attivo ( potrebbe essere anche un utile incentivo per il proseguimento del lavoro, oltre l’età della pensione di vecchiaia) e per una introduzione al lavoro di giovani universitari: gli studenti lavoratori potrebbero essere uno degli strumenti di integrazione dell’Università con il mondo delle imprese e permetterebbe di far frequentare l’Università anche a chi oggi non ne ha la capacità economica . - Lo straordinario ammonta al 3-5 % delle ore lavorate (come conseguenza di una serie di regole distorcenti); flessibilizzando le ore di lavoro annuali in quantità e disponibilità oraria (flessibilità che dovrebbe essere definita da ogni azienda nell’ambito di specifiche regole), ed aumentando decisamente la tassazione degli straordinari (ad es. triplicandola), questi potrebbero essere fortemente ridotti, anche riducendo gli attuali controlli. E’ importante segnalare che part-time e flessibilizzazione degli orari richiedono una evoluzione della organizzazione aziendale, fattore questo che non va sottovalutato. - La definizione di un orario annuale massimo; questa definizione dovrebbe essere effettuata dalle singole regioni/aree territoriali, in funzione della specifica situazione, in modo tale da determinare una disoccupazione inferiore al 4%, che equivale in pratica alla piena occupazione. Le retribuzioni dovrebbero comportare il pagamento delle sole ore lavorate. Questo intervento comporterebbe una riduzione sensibile degli stipendi nelle regioni con alti tassi di disoccupazione, anche se la ricchezza complessivamente distribuita non si riduce, anzi dovrebbe salire per la maggiore competitività. La nuova situazione malgrado gli stipendi più bassi determinerebbe maggior benessere nelle famiglie in cui si determina un maggior numero di occupati, mentre nei casi di reddito unico al di sotto di una certa soglia, sarebbe necessario intervenire per assicurare il mantenimento del reddito non riducendo l’orario di lavoro. La massimizzazione dell’occupazione attraverso le 3 azioni suesposte, può permettere di raggiungere accordi sulla piena flessibilità in uscita per tutti. Le singole regioni/aree territoriali, in funzione della specifica situazione dovrebbero definire oltre all’orario massimo annuale, anche un orario minimo annuale oltre il quale le aziende in crisi possano licenziare. Le aziende in crisi, prima di raggiungere la soglia minima di orario annuo, potrebbero attivare azioni di outplacement efficaci (dato il basso livello di disoccupazione comunque determinato dai meccanismi esposti). Questo meccanismo ridurrebbe i casi di licenziamento, ed in caso di licenziamento, il lavoratore , perso un posto ne troverebbe un altro, in quanto il livello di disoccupazione sarebbe mantenuto basso dal sistema. E’ certo che questo tipo di tutela del diritto al lavoro richiede di affrontare il problema della mobilità, ed in particolare il costo della variazione dell’abitazione, nel caso questa sia determinata da una variazione del posto di lavoro.
Il modello descritto determina:
• la massima flessibilità per le imprese
• la tutela del diritto al lavoro
• l’aumento della possibilità, per i lavoratori, di cercare il lavoro a loro più adatto, il che va a vantaggio anche delle imprese e della competitività paese.
• l'allungamento, a livello volontario, dopo una soglia determinata, l'età della pensione, in funzione della richiesta del mercato, anche utilizzando il part-time

o Mettere tutti i dipendenti in condizione di operare al massimo livello della conoscenza posseduto dall’azienda, conoscenza messa a disposizione attraverso sistemi avanzati di esplicitazione . E’ una specifica disciplina , fondamentale per rendere disponibile in modo efficace ed efficiente il miglior Know-How. aziendale. Questa disciplina dovrebbe essere materia di formazione nelle scuole di ogni grado.
o Mettere a disposizione delle imprese e delle scuole di ogni grado, sistemi avanzati per attuare un processo di gestione della conoscenza, che assicuri durante tutto l’arco della vita dei lavoratori, le competenze adeguate per gestire i nuovi processi e le nuove tecnologie
o Definire per ogni azienda quali sono, tra le conoscenze necessarie, quelle precompetitive di base e quelle che determinano la competitività. Le prime dovrebbero essere rese disponibili dalle Università competenti garantendone un livello allineato al più alto livello mondiale / EU. Le Università dovrebbero poi sviluppare corsi di applicazione di tali conoscenze, in modo che gli studenti escano dall’Università preparati in tal senso.
o Definire processi di innovazione che facilitino la definizione dei prodotti / servizi innovativi esplicitando l’output in modo da renderlo immediatamente utilizzabile da parte di chi deve poi applicare l’innovazione.

2) La massimizzazione dell’occupazione, è immediatamente realizzabile con lo schema suesposto

3) Una buona coesione sociale discende da: un diffuso convincimento che la contrapposizione distrugge la ricchezza, che la partnership porta buoni frutti a tutti. Costruire una base di fiducia reciproca è un lungo percorso da costruire con i fatti, anche se le parole sono un presupposto necessario. Il nuovo modello di relazioni industriali può essere determinante per tracciare il percorso di costruzione di una fiducia reciproca tra le parti (es. definire ad alto livello linee guida che riducano la contrapposizione ai livelli più bassi, indicando come distribuire la ricchezza generata, definendo regole che determinino trasparenza, ecc.)


4) Una buona qualità del lavoro deriva da:
• Un rapporto di lavoro a tempo indeterminato
• Uno spirito di corpo aziendale (possibile solo con un rapporto a tempo indeterminato e con motivazione al lavoro determinata da fattori che vadano oltre la retribuzione, es. clima)
• Un lavoro reso sempre creativo e partecipativo con il coinvolgimento nella definizione dei metodi di lavoro che ognuno applica ( è parte del processo di gestione della conoscenza)
• Dallo spirito di partnership
Il modello proposto determina/favorisce le condizioni esposte

5) un buon funzionamento del sistema, sia in caso di congiuntura favorevole che sfavorevole, è determinato dalla massimizzazione dell’ occupazione realizzata secondo lo schema suesposto, in quanto:
• minimizza i licenziamenti; le aziende potranno rimanere competitive senza licenziare (riducendo l’orario), mantenendo il patrimonio umano di conoscenze, che renderà poi più agevole cogliere la ripresa e salvaguardare lo spirito di corpo dell’impresa, fattore importante per la competitività
• in caso di licenziamento, il lavoratore trova in breve un’altra occupazione dato il basso livello di disoccupazione che viene comunque assicurato
• nel caso che la congiuntura sfavorevole riguardi una od un limitato numero di aziende, ci sarebbe una naturale migrazione di lavoratori verso quelle che offrono la possibilità di orario/stipendio maggiori.


6) Una chiara definizione dei ruoli e delle competenze: EU, stato, sindacati, imprese, è definibile solo con un chiaro accordo tra tutte le parti succitate. In linea di massima l’EU e lo stato a livello nazionale, dovrebbero concordare più linee guida ed obiettivi, che leggi cogenti, queste linee guida dovrebbero essere formulate per lasciare ai livelli inferiori spazi regolamentati in modo tale da ridurre la contrapposizione e favorire la partnership. Le Regioni dovrebbero applicare le linee guida indicate ai livelli superiori, definendo quanto è utile alla specifica realtà regionale (es. orario annuale massimo e minimo), lasciando spazi a livello imprese, perché siano colte le specifiche opportunità.

7) Il superamento della coesistenza, sul nostro territorio, di sistemi di relazioni industriali basati su regole differenti consegue al fatto che una piena occupazione ed una flessibilità in uscita come sopra definite, cancellando le attuali distorsioni (es. uso non corretto dei contratti a tempo determinato, del lavoro interinale, ecc.) permetterebbe di definire un sistema di relazioni industriali che consideri il “contratto a tempo indeterminato” l’asse portante e permetterebbe di unificare la normativa che regola il pubblico ed il privato.

8)La possibilità di soddisfare le esigenze a livello regionale, locale di impresa deve discendere da decisioni a livello EU/nazionale, che impostino i rapporti tra i vari livelli, in modo che siano lasciati ai livelli inferiori, spazi determinati.

“Il lavoro è vita, senza quello esiste solo paura e insicurezza”
John Lennon

Garantire il reddito

Gent. Gnesutta, forse il paragone che ho proposto con Speenhamland e l'Inghilterra della prima rivoluzione industriale, ripreso da Polanyi, mi sembrava corrispondesse meglio alle preoccupazioni di IDP circa il confronto sussidio/produttività. Di questo confronto, tuttavia, non sono molto convinto forse perchè lo si intende sempre a senso unico (il lavoratore dipendente verso la proprietà delle macchine e del capitale) e mai di ritorno come responsabilità sociale del capitale verso chi genera la ricchezza. Oltretutto considerando la saturazione nei mercati delle merci, bisognerà pur considerare un ridimensionalmento delle produzioni manufatturiere (almeno per non appesantire le problematiche ambientali) ed un riequilibrio del capitale umano nel senso di un minor impegno lavorativo dipendente in favore di una migliore qualità della vita.
Sì, tutto sommato, penso che oggi comunque occorra sostenere il reddito; contestualmente, però, bisogna ricominciare a parlare a tutto tondo di politica: politica del lavoro, economica, industriale, ecc.

sperando di non aver troppo annoiato, la saluto cordialmente. G.C.

Un chiarimento

Caro G.C.,
l’alternativa che poni - reddito o lavoro (+welfare) di cittadinanza - è il punto cruciale che richiede una riflessione che deve continuare. Considero spunti interessanti le tue considerazioni tratte da Polanyi che forme di sussidi non garantiscono (non hanno garantito) né produttività né sicurezza salariale e che un reddito universalistico può avere un sapore paternalistico rispetto a una politica del lavoro (uno scambio comunque condizionato e mediato da apparati politici e burocratici). Si tratta di punti che sviluppano la discussione che, a mio avviso, non hanno una risposta univoca. Per questo è utile (se c’è qualche interesse) a continuare a riflettere.
In questo spirito, non devi dimenticare che l’idea di reddito di cittadinanza che ho avanzato risulta comprensibile solo se si condivide la previsione che nei prossimi cinquant’anni, solo una parte (non maggioritaria) di persone potrà godere della sicurezza di un impiego di lungo periodo, un’altra sarà esclusa del tutto e la parte (maggioritaria) oscillerà in maniera strutturale tra lavoro e non lavoro; ovvero, stante l’attuale struttura di relazioni sociali, la precarietà di lavoro e di vita saranno la condizione normale per più della metà della popolazione (rendendo sistematici gli interventi di un reddito minimo).
Il senso della mia ipotesi è invece di provare a legare il sostegno del reddito con l’espansione dell’occupazione (attraverso una generalizzazione del part time quale forma di redistribuzione di una data quantità di ore di lavoro determinata da una domanda di lavoro strutturalmente insufficiente). Il ricorso a un reddito di cittadinanza universalistico lo vedo come diritto e non come concessione burocratica (e in questo senso lo ritengo non paternalistico) che ha come obiettivo di attenuare le condizioni di subalternità e di precarietà in cui è e sarebbe sistematicamente sottoposta gran parte dell’offerta di lavoro. Come tu ricordi una tale ipotesi pone il problema della riorganizzazione della produzione in modo tale che generi quel reddito che dovrebbe finanziare il reddito di cittadinanza. È un vero problema che non può essere ignorato. Anche qui due osservazioni non conclusive: la prima è che, nell’ipotesi che discutiamo, le imprese godrebbero di una defiscalizzazione del loro costo del lavoro sulla parte di reddito di cittadinanza e sull’integrazione del reddito part-time; la seconda, all’estendersi del part-time si ridurrebbe l’impegno finanziario per garantire il reddito alla parte della popolazione (donne, minori, inabili ecc.) che, per definizione, non possono far parte delle forze di lavoro.
Ma il punto cruciale della mia ipotesi è che esse mette al centro i bisogni delle persone (lavoratori, effettivi e potenziali) chiedendo all’economia di ristrutturarsi per adeguarsi ad essi (ridefinendo quindi anche le politiche fiscali, industriali e sindacali). Una visione che non è solo un profondo processo di redistribuzione del reddito, ma e soprattutto un processo di redistribuzione di potere, di fornire ai singoli di poter contare sulla propria vita individuale e collettiva. Non sono tutti qui i problemi e senz’altro non è una soluzione che si trova dietro l’angolo, ma se si cominciasse a pensare che può essere un’alternativa possibile …

Garantire il reddito

Gentile Claudio Gnesutta
Nel leggere il suo articolo, l’intervento di IGP e la sua replica mi è venuto in mente ciò che scriveva Karl Polanyi su “La Grande trasformazione” a proposito delle poor law e di Speenhamland, ossia delle leggi paternalistiche a protezione dei poveri, che garantendo un reddito di sussidio non favoriva ne la produttività ne le dinamiche salariali (cap. 7, Speenhamland 1795; ed. Einaudi 2000). Questa situazione fu superata con l’abolizione di ogni sussidio nel 1834 con conseguenze ovviamente disastrose per le classi meno abbienti, anche se, sostiene Polanyi, da questo è poi seguito come reazione la nascita delle Trade Union con un processo durato però decenni. Certo da allora strada ne è stata fatta pure se siamo in una fase di ritirata da tutti i fronti di cui le giovani generazioni ed in parte le vecchie pagano tutte le conseguenze. Certamente il lavoro è l’elemento che permetterebbe di superare il discorso, perché con una politica di massima occupazione (e chi se le ricorda?) non staremmo qui a discutere se occorre dare un reddito di cittadinanza, dimenticando quanti tra super stipendi e super pensioni, costituiscono una redditività certamente non da sopravvivenza e talvolta parassitaria.
Un reddito invece di cittadinanza rischierebbe di avere carattere paternalistico e a mio parere (ovviamente opinabile), non garantirebbe alcuna ripresa di alcuna economia, perché soprattutto non darebbe garanzia di accesso a quel sistema di welfare che ha segnato la nostra vita in passato. Certo oggi non esiste più un sistema industriale che faceva dello Stato la prima azienda in Italia (dalle navi, ai panettoni…), costituendo di per se un grande serbatoio di lavoro che permetteva di sfuggire alle condizioni di ricattabilità sul lavoro, oggi così in auge.
Intanto però se ci fosse davvero una simile intenzione (ossia finanziare un tale reddito), invece di offrire paternalisticamente un sussidio non si potrebbero garantire dei servizi? Per esempio abolendo i ticket sanitari, o riducendo le tasse universitarie o garantendo il diritto ad una casa con una politica di acquisizioni di patrimonio edilizio invenduto o vuoto, o riducendo i costi del trasporto o finanziando il lavoro giovanile ecc.
Cose che farebbero piangere più di un appartenente alla casta, ma a noi permetterebbero di cominciare a sorridere.
(Ho visto un re!...).
G.C.




Superare le sovrastrutture mentali: una risposta a IGP

Per quanto stimolanti, le osservazioni di IGP possono essere fuorvianti per comprendere lettera e contenuto della mia nota.
1. Sono pienamente d’accordo con la considerazione che è (anche) attraverso il lavoro salariato che si costruisce la personalità individuale e l’appartenenza sociale, ma non penso che sia il lavoro precario e ricattato a costituire il miglior mezzo a tale fine. Ben venga qualsiasi altra proposta che affronti concretamente il nodo “strutturale” dell’insufficiente domanda di lavoro nel lungo periodo, ma in assenza di qualsiasi proposta in questa direzione la “combinazione” reddito di cittadinanza e estensione dei contratti part time mi sembra essere la soluzione che può favorire occupazione e inclusione sociale.
2. Penso sia un lapsus il ragionamento “facile: come posso pensare di creare reddito senza che vi sia creazione di valore?”. Non voglio affrontare la questione – per quanto rilevante - della creazione del valore sociale (il dibattito sulla contrapposizione tra pil e benessere è troppo nota!) e nemmeno sulla visione che le forme della distribuzione del reddito (dei diritti dei singoli sul prodotto della società) sono una costruzione “sociale” che, nell’attuale contesto, attribuisce esclusiva importanza al reddito monetario derivante dalla produzione di merci con l’esclusione di tutti coloro che non vi partecipano … se non esistesse forme di redistribuzione del reddito da parte dell’amministrazione pubblica. È il caso concreto che rende possibile pensare che si può distribuire reddito a chi non partecipa (direttamente) alla creazione di valore. Il reddito di cittadinanza sarebbe, ovviamente, una modalità di questa redistribuzione.
3. Se l’imposizione fiscale sui patrimoni rappresenta un “salto concettuale enorme”, a me sembra che “reddito di cittadinanza più sostegno al part time” sia un salto ancora maggiore. Cos’è di più concettualmente eversivo per il senso comune che mettere al centro della politica economica le persone e non le imprese?
Molte sono le cose discutibili nella mia proposta (sia in generale che nel nostro contesto) e per questo mi auguro che essa sia occasione di riflessioni e di approfondimenti in grado di contrastare, qualsiasi siano le conclusioni sulla sua fattibilità e opportunità, quel senso comune che vede nella subordinazione del lavoro alle relazioni produttive “di mercato” l’unica bussola per orientare, in questa fase storica, i comportamenti individuali e istituzionali.

sovrastrutture mentali e loop funzionali

Lodevole è porre al centro dell'attenzione le tematiche dei salari e del lavoro, non mi capacito tutta via di come, in un'economia di mercato, dove ci riempiamo la bocca di parole desideranti come "liberalizzazioni", "concorrezza", "produttività", "equità", "meritocrazia"...si possa voler privilegiare il concetto di "sostegno del reddito" a quello di "sostegno dell'occupazione" e dunque della laboriosità/produttività degli individui e del sistema.
D'accordo col minimo "sindacale", ma questo Paese ha un grosso problema di produttività e queste Persone (gli italiani, ma anche gli europei) stanno via via perdendo competenze specifiche ed abitudine/ attitudine al lavoro.
Un mondo ipotetico (nei fatti insostenibile nel medio-lungo) di "piena salarizzazione", ma di "scarsa occupazione", genererebbe in poco tempo un sistema sociale composto da individui avulsi dai meccanismi che permettono il loro stesso sostentamento e svolgimento delle attività quotidiane. Un insieme di individui che difficilmente potremmo definire "Società", laddove per essa intendiamo una collettività che decide di se stessa ed indirizza la propria evoluzione e, perchè no, involuzione. Un mondo di lavoro, professioni, imprese, studi ed "applicazioni" corrisponde ad un mondo di ricerca e conquista, di curiosità, di esigenze e di mezzi per soddisfarle. Un mondo di "mantenuti" è invece un mondo apatico, asfittico, mutilato nella propria ambizione all'elevazione, ma soprattutto è un mondo di schiavi, di esistenze dipendenti da una mammella esogena che per semplicità definiremmo stato o sistema o apparato o cosunque la nostra fantasia collettiva potrebbe oggi immaginare come quella sovrastruttura in grado -non si sa come- di finanziare i nostri bisogni.
Le persone, per loro dignità e realizzazione devono potersi autodeterminare e dunque devono essere protagonisti nel costruire (produrre) le forchette con cui addentano i propri pasti e languori quotidiani.

Dopidchè, da un punto di vista prettamente di funzionamento, non si capisce come si possa ritenere applicabile un modello che nei fatti non funziona. Ragioniamo facile: come posso pensare di creare reddito senza che vi sia creazione di valore? Il reddito è conseguenza del valore creato, non posso sperare di ottenere una conseguenza senza però averne la causa.
Qualche anno fa Bertinotti, poco prima della sua scomparsa dalla ribalta politica, sosteneva in una trasmissione televisiva che si sarebbe dovuto aumentare i salari, i quali erano al chiodo da tempo e non fornivano adeguato sostegno ai consumi. Bene, in quell'occasione fu accusato, da me compreso, di proporre "soluzioni nuvoletta", che sono quelle soluzioni tendenzialmente utopiche che non riescono alla fine a tradursi in possibilita concrete. Un incremento salariale (assoluto o relativo, individuale o complessivo) non sorretto da un pari incremento della produttività produce, inevitabilmente, inflazione.
Certo, si può pensare ad iniziative di stimolo iniziale, ma gli sforzi dovrebbero presto tradursi in un incremento dell'occupazione, cioè in un aumento delle persone che di fatto lavorano, rispetto a quelle che percepiscono una qualche forma di reddito, anche parziale, pur non pareggiandola con la propria attività produttiva.

Che sia più facile oggi ricorrere all'indebitamento, per potere disporre di liquidità (leggasi anche "stampare moneta"), rispetto al creare condizioni di occupazione, non ci sono dubbi, ma non vi sono dubbi anche che, la prima, sia un' ipotesi non sostenibile nel tempo ed attuale concausa dei dissesti finaziari le cui conseguenze quotidiane ormai tutti ben conosciamo.

Per sostenere l'occupazione e la produttività, non vi è altra via del rivedere l'impostazione dell'imposizione fiscale, applicando i più elementari principi del "bastone e della carota", per favorire il lavoro, a scapito della rendita: detassare il lavoro, il merito, l'applicazione e l'impresa e tassare le rendite e gli impressionanti stock di capitali ed immobili che si muovono lungo gli assi ereditari. Detassare i redditi dei dipendenti ed i profitti degli imprenditori (flussi), e finanziare l'ammanco derivante, attraverso la tassazione delle rendite e dei patrimoni (stock) che non si trovano lungo l'asse merito-reddito-ricchezza.

Si tratta di un salto concettuale enorme, si tratta di infrangere un vero, grande tabù, me ne rendo conto, in quanto da una parte trova la + feroce e consapevole resistenza da chi oggi detiene quegli stock, da cui continua a trarre altra ricchezza e potere, dall'altra parte trova pure la più insipegabile e ingiustificabile resistenza di chi pensa che un tale salto culturale, potrebbe mettere a repentaglio quei miseri soldini che la nonna ci ha regalato per comprare il garage o l'alloggetto in periferia. Gli stock da tasare sono ben altri e di ben altra misura.