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Il piano B di Copenhagen
Dalla piazza del Parlamento di Copenhagen al Bella Center, il Centro congressi dove si sta svolgendo la Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici, sono oltre 6 km. Tre ore di cammino sostenuto che ha unito simbolicamente il luogo delle decisioni democratiche al luogo, almeno fino ad oggi, delle discussioni democratiche. Oltre centomila persone per sottolineare che “non abbiamo un pianeta B”, che questa terra, che è l’unica che abbiamo, sarebbe bene tenercela stretta giusto per non trovarci nell’imbarazzante situazione di affrontare stagioni non più come una volta.
Quei centomila volti erano la rappresentazione di questo movimento eterogeneo, che ha scelto il cambiamento climatico come lancio di una nuova stagione che ha però l’obiettivo di rimettere in discussione l’intero sistema economico. La crisi ecologica è solamente l’ultima delle conseguenze di un modello di sviluppo che è già entrato in crisi tre volte negli ultimi due anni: nella finanza, nell’alimentazione e nell’occupazione. “System change not climate change” è la parola d’ordine di chi, sia fuori che dentro il vertice, sta organizzando opposizione sociale.
Un summit che si sta dimostrando ostaggio degli interessi contrapposti, e che rischia di sacrificare un percorso realmente democratico e trasparente all’esigenza di trovare un accordo purché sia. Negli ultimi giorni si sono registrati irrigidimenti nelle posizioni, soprattutto da parte del G77, che assomma la maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, e dell’Alleanza degli Stati insulari, che hanno scelto di spingere sull’acceleratore delle richieste su tagli, temperatura media e finanziamenti. Le ultime indiscrezioni parlano di 45% delle emissioni dei Paesi industrializzati entro il 2020 rispetto ai livelli del 1990, di un aumento della temperatura media non superiore ad 1.5°C e di una richiesta di finanziamento che arrivi al 5% del Pil, attorno ai 300 miliardi di dollari.
Le bozze ufficiali dei testi negoziali sono uscite venerdì e sono ancora piuttosto vaghe sui numeri, inseriti in parentesi quadra per dimostrarne la provvisorietà: si prevedono tagli globali di almeno il 50%, fino al 95%, delle emissioni di gas serra da parte di tutti i paesi entro il 2050, con un impegno maggiore per i Paesi industrializzati. Sul testo non sono state inserite cifre sul finanziamento ai Paesi più poveri mentre entra nello specifico degli obiettivi di aumento massimo delle temperature, da contenere entro una forchetta tra 1,5 e 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali.
Su questi testi le diplomazie hanno lavorato e stanno continuando a confrontarsi, anche in forme del tutto inedite per una Conferenza delle Nazioni Unite, come il sistema delle green room (già presente all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio), dove alcuni Paesi che contano hanno la possibilità di organizzare meeting privati con altre delegazioni, sviluppando così un sistema negoziale parallelo e non trasparente rispetto ai lavori “ufficiali”.
Indiscrezioni dell’ultima ora parlano di un’opzione, presa in considerazione dalla presidenza, di spostare in avanti la conclusione dei lavori della Cop15 alla prossima Conferenza che dovrebbe tenersi a Città del Messico nel 2010, lasciando i gruppi di lavoro liberi di procedere nel definire i testi negoziali.
Intanto le organizzazioni della società civile continuano le dimostrazioni per concentrare l’attenzione sull’andamento del vertice e sulle loro proposte. Via Campesina domenica scorsa ha organizzato un presidio di diverse centinaia di persone davanti al Danish Agriculture and Food Council per una manifestazione contro l'agricoltura industriale e l’utilizzo degli Ogm nell’allevamento dei maiali danesi. Il presidio si è poi trasformato in una manifestazione non autorizzata che ha bloccato il centro per diverse ore. E sono in preparazione le azioni per il prossimo 16 dicembre per “Reclaim the power”, quando una grande manifestazione si dirigerà verso il Centro congressi per portare sui tavoli negoziali, con l’aiuto delle Ong presenti all’interno del vertice, le proposte della società civile globale, delle comunità indigene e dei movimenti contadini. Nel momento in cui i Capi di stato raggiungeranno la Danimarca per siglare un accordo. Vedremo quanto vincolante.