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Tra tecnocrazie monetarie e speculazione

09/09/2011

L’austerità è un’arma spuntata contro gli attacchi dei predoni della finanza. E la cessione di potere alla Bce non ci salverà. Riflessioni sul da farsi, a partire dalla lunga estate pazza

I parte. La politica in Europa, succube di tecnocrazie e professionisti della speculazione

Mi impensierisce, in questi giorni di follia internazionale, la confusione mentale di molti di quelli che, sulla grande stampa quotidiana, hanno da dire qualcosa su quanto accade e su cosa bisogna fare. Se il problema del governo è quello dell’agire subito e con decisione, non vi è molto da capire. I margini di tempo e di discrezionalità sono talmente ristretti che non resta che fare, ma subito, il meno peggio, e farlo senza credere nelle favole di chi dice che sia possibile praticare nell’immediato politiche che concilino austerità e sviluppo. Una ricetta per lo sviluppo a breve non l’ha nessuno. Ora è come quando si combatte strada per strada in una città che si pensava felice e ben fortificata. Prima bisogna salvarsi. Ma chi non è coinvolto nei combattimenti, chi ha a che fare con il pensare strategico, dovrebbe riflettere sulle origini lontane e sulle sequenze di eventi e decisioni da cui da ultimo è derivata la falla, al fine di costruire, da domani, un futuro più sensato.

Sosterrò, lungo queste linee, che

(a) le politiche di austerità sono non solo inutili per combattere gli attacchi speculativi, ma dannose, nel senso che giocheranno a favore di nuovi attacchi;

(b) l’idea degli eurobonds non ha alcuna rilevanza nel combattere e nel prevenire gli attacchi speculativi. Gli eurobonds vanno invece usati, insieme ad altri strumenti e in un contesto di bilancio federale e di politica industriale europei, per indurre una nuova fase di sviluppo (ma non penso a qualcosa di genericamente “keynesiano”);

(c) esiste una strada maestra per rispondere agli attacchi speculativi, che è quella di fare della Bce un soggetto prestatore di ultima istanza, non solo nei confronti delle banche ma anche degli stati, come con chiarezza e argomentazioni convincenti è stato indicato indipendentemente e in forme leggermente diverse, proprio in questi caotici giorni, da Paul de Grauwe e da Daniel Gros (www.voxeu.org).

Purtroppo siamo assuefatti, in materia, al contesto di luoghi comuni e di proiezioni culturali che la politica internazionale e i suoi echi di stampa ci pongono sotto gli occhi e non riusciamo a prenderne le distanze. Partirei quindi da qualcosa di immediato, che la nostra assuefazione ha condotto a non considerare grave e anomalo e che invece avrebbe dovuto fungere da campanello d’allarme. Sarebbero partite due lettere ai premier d’Italia e Spagna, firmate dal Presidente della Bce ma controfirmate dai governatori delle due rispettive banche centrali nazionali, con la richiesta dettagliata di assunzione di impegni sulla quantità e sulla qualità delle azioni con riflessi di bilancio pubblico. Avrebbe dovuto esservi grande scandalo per un tale evento, quanto meno sul piano della forma e dei particolari soggetti coinvolti. Le prescrizioni assomigliano infatti più alla determinazione delle penalità imposte dal Trattato di Versailles ai paesi che avevano perso la guerra che a rapporti corretti tra stati sovrani, partner di una Unione Europea che ha speso infinito tempo nel tentare di disegnare una costituzione europea, non riuscendovi. Invece scandalo non vi è stato (parziali eccezioni a me note nella stampa italiana sono Roberto Esposito e Barbara Spinelli, su la Repubblica rispettivamente del 12 e del 17 Agosto).

Il punto essenziale è che non si trattava di condizioni poste e definite dai governi europei in una qualche sede istituzionale, bensì dettate direttamente dal presidente della Bce; da una tecnocrazia, cioè, e controfirmate dai vertici di altre tecnocrazie sorelle; vertici – è bene ricordarlo – designati e non eletti, comunque inamovibili. Sarà che i fondamenti del diritto internazionale spesso non sono solidissimi, ma sono sicuro che in nessuno dei paesi europei esistano elementi giuridici di sostegno alla prassi seguita. Non parlo solo della procedura, ma anche della sostanza. Ed è questo che richiede riflessione, che richiede una diagnosi non delle ragioni del comportamento della Bce, ma del fatto che pochi si scandalizzino. La forma, per certi tipi di decisione, ha un rilievo almeno eguale a quello della sostanza.

Potrebbe sembrare che la giustificazione per accettare senza proteste quanto accaduto sia il carattere di necessità e urgenza (come in Italia per i decreti legge) che tale prassi pretendeva di avere; ovvio che quando sembra si stia affogando tutto sembri lecito. Credo tuttavia la ragione sia ben diversa. Ci siamo abituati ad accettare, per tutto ciò che riguarda i problemi economici, la supremazia delle istituzioni monetarie internazionali, dal Fmi alla Bce. Viene cioè dato per scontato che siano esse a prendere tali decisioni, anche quando non rientrano, statutariamente, nei loro poteri. Ed è questo “dare per scontato” che impedisce di vedere a fondo le ulteriori, nascoste e sottili, “anomalie” che si celano al di sotto della superficie.

Ottemperare alla lettera della Bce era condizione per ottenere la sottoscrizione dei nostri titoli del debito in scadenza e il sostegno dei loro corsi (meno male, visti i tempi). Ma ciò che dava alla Bce la facoltà di negare la sottoscrizione era l’art. 101 del Trattato europeo, un articolo sciagurato che le stesse banche centrali avevano voluto e ottenuto in passato per “affrancarsi” dalle pressioni politiche. Questo articolo infatti consente alla Bce di negare la sottoscrizione quando vuole e al contempo di concederla quando vuole per il tramite delle banche ordinarie. E non è forse l’Art. 101 il figlio lontano dei “divorzi” che le banche centrali dei maggiori paesi del mondo avevano voluto e ottenuto nella prima metà degli anni '80 (la cessione del potere statale di signoraggio, cioè il diritto di stampare moneta) e che erano stati poi rafforzati negli anni 1990, almeno in Europa, dal divieto per le banche nazionali di sottoscrivere direttamente titoli emessi dagli stati (cioè la sostanza dell’attuale Art. 101)?

Ci siamo assuefatti, assuefatti al punto che non ci interroghiamo sull’uso che è stato fatto del potere ceduto (ci sarebbe molto da discutere sull’atteggiamento della Bce in merito all’alimentazione delle bolle speculative, ma per i governi europei si è trattato evidentemente di un argomento tabù). Né riflettiamo su una seconda e ben più rilevante cessione di potere, quella a favore della c.d. “fiducia dei mercati”. Dobbiamo fare certe cose (inutile riassumerle) perché questo è quanto “il mercato si attende”. E chi lo dice, su quali fondamenti? A ben vedere si limita a suggerirlo una semplice associazione di idee: l’attacco speculativo e l’interpretazione che Bce e Fmi ne danno. Ma è una associazione spuria, non appena ci si rifletta. Se infatti il mercato fosse, come solo un atteggiamento ideologico o lobbistico può pretendere sia, quella virtuosa forza che deriva dalle interazioni di un’anonima massa di decisori individuali, come farebbero Fmi e Bce a sapere quel che il mercato si attende? Non sarà che il mercato accetta la visione che di ciò che è bene fare hanno Fmi e Bce? Ma allora esso sarebbe di fatto, pur nella sua infinita, anonima, spontanea saggezza, poco di più e di diverso che il braccio armato del “bene”, quale pensato dalle tecnocrazie di Fmi e Bce. Saremmo insomma ad una delle tante varianti delle crociate.

Sono in molti a sapere che le cose non stanno così. I mercati finanziari sono guidati e sfruttati da speculatori professionisti. Essi “lanciano” delle operazioni al ribasso (ma non solo), danno inizio al ribasso vendendo in modo concentrato titoli o divise di cui si sono approvvigionati a ritmi lenti, gli stessi titoli che al contempo vendono anche a termine (cioè con impegno di consegna differita), nella fiducia che il ribasso venga potenziato dalle vendite operate dalla massa di chi, possedendoli, li vende per paura (chiamiamo pure questa massa il “parco buoi”). Da notare un’altra cosa che tutti gli esperti sanno: per operare tali manovre i mezzi propri degli speculatori sono una piccola frazione dei fondi totali che essi mobilitano, in quanto i fondi propri sono moltiplicati, di 10-20 volte o perfino più, da una leva finanziaria notevole assicurata da banche d’affari che in ciò trovano il loro tornaconto.

Il problema degli speculatori è solo l’occasione e il timing del lancio delle operazioni intorno ai quali imperniare le più opportune manovre di manipolazione delle informazioni. In questo entrano, per opportunismo, impudenza o peggio, le agenzie di rating (Krugman in un recente articolo su la Repubblica ha incisivamente argomentato quanto Standard & Poor’s si inaffidabile e perché). Il “mercato” del quale stiamo parlando, cioè, non è certo quello le cui virtù vengono tanto mitizzate, quello dei grandi capitani di impresa, dai Krupp agli Steve Jobs; non è il mercato in cui la borsa serve essenzialmente per acquisire il capitale di rischio e per arbitrare il “vero” valore delle aziende. E non è nemmeno una lotteria governata dal caso.

I problemi che stiamo incontrando oggi, quindi, non stanno nel semplice fatto che esistano le attività speculative appena dette. Sta, certo, nella massa di liquidità che tali speculatori riescono a usare. Ma sta, soprattutto, nella enorme e inflazionata massa di titoli finanziari detenuti in varie divise il cui valore eccede quello della capacità produttiva (quello che ho appena chiamato il “vero valore” delle sole aziende produttive). È infatti tale secondo stock, detenuto dal parco buoi per vari motivi (cautelari, pensionistici, ecc.), quello che consente agli speculatori professionisti di ingigantire a dismisura le variazioni di valore da loro innescate, inducendo i fenomeni di “crisi di fiducia”.

Ciò dischiude un ulteriore duplice terreno di riflessione: la difficoltà di contrastare movimenti di stock con manovre operate su grandezze di flusso (tasse e spese) e come si siano potuti formare degli stock così ingenti, cui si fa spesso riferimento con termini come “paper economy” e “finanziarizzazione” delle economie. È un discorso da sviluppare in una seconda parte dell’articolo.

II parte. Austerità: agire sui flussi è un’arma spuntata contro attacchi che fanno leva sugli stock

Ho ricondotto – a conclusione della prima parte dell’articolo – il successo degli attacchi speculativi alla loro capacità di indurre vendite da parte di quello che ho chiamato il “parco buoi”. I soggetti politici che contano, invece – le tecnocrazie monetarie, il Tea Party negli Usa, i partiti di maggioranza in Germania – le riconducono ad un eccessivo rapporto tra debito pubblico accumulato e Pil e fanno leva, per contrastarlo, su manovre fiscali. Si pretende in tal modo di mettere ordine in qualcosa che ha a che fare con variazioni di valore di stock di ricchezza agendo su grandezze economiche di flusso, quali sono le imposte (normalmente funzione di redditi e valori aggiunti correnti) e le spese pubbliche. Ma i valori degli stock sono un multiplo dei valori dei flussi. Per avere un’idea dello squilibrio tra i due tipi di grandezza si pensi che è un po’ come se il proprietario di una casa il cui valore commerciale in un certo anno è considerato di 200.000 euro ed è affittata a 10.000 euro all’anno, a seguito di una crisi del mercato delle abitazioni che fa scendere il valore della casa del 5%, a 190.000 euro, pretendesse di rifarsi raddoppiando il canone di affitto.

La pretesa dei sostenitori dell’austerità fiscale è in effetti di portata (solo apparentemente) più modesta. L’austerità – dicono – sarebbe la dimostrazione data al mercato della serietà delle intenzioni per il futuro. Piuttosto fragile, come argomento! Per quali buone ragioni il fantomatico mercato, di cui nella prima parte dell’articolo ho descritto le vere fattezze, dovrebbe considerare “sufficiente” un qualsiasi livello di austerità sui flussi e non un altro? Tanto più che, se le considerazioni che ho già sviluppato sulla reale natura del mercato sono corrette (e francamente non temo smentite) gli speculatori sono pronti a scatenare una nuova offensiva non appena vi siano notizie tali da far riprendere le vendite di titoli da parte del parco buoi. Ed è inevitabile che tali notizie emergano.

Infatti le grandezze di flusso – reddito e prodotto nazionale – e gli indicatori ad essi connessi – di occupazione, di crescita – non sono indipendenti da tasse e spese pubbliche. L’austerità non può che avere effetti depressivi su tutte le grandezze di flusso; in altri termini non può che indurre tendenze recessive, creando in tal modo le premesse di nuovi e diversi attacchi speculativi, sia perché qualsiasi indicatore collegato alla recessione – disoccupazione, produttività, competitività – può essere usato dagli speculatori professionali come un segnale da sfruttare per lanciare nuovi attacchi, sia perché, in ogni caso, il rapporto tra debito pubblico accumulato e Pil non migliorerebbe di molto e potrebbe addirittura peggiorare. Se davvero si volesse – e sarebbe oltremodo opportuno – far diminuire l’importanza relativa del debito accumulato, l’unica via sarebbe quella di indurre maggiore sviluppo delle grandezze di flusso: produzione, investimenti produttivi, trainati da consumi interni e da esportazioni. Ma questo è uno scenario che viene escluso dal fatto che tutti i paesi, anche quelli che non dovrebbero, guidati da feticci e da profonde incomprensioni di ciò che sta succedendo, si stanno avventurando sulla strada dell’austerità.

Lascio in sospeso per un momento la questione di quali possano essere le alternative. Voglio prima chiarire – perché fornisce utili elementi diagnostici e terapeutici ancor oggi – la posizione sostenuta da Keynes a Bretton Woods nel 1944; una posizione che venne sconfitta allora dalla delegazione statunitense e che è stata riabilitata solo di recente e – devo dire – del tutto inutilmente dal Governatore della Banca centrale cinese (Zhou Xiaochuan nel 2009), nonché da un rapporto dello stesso Fmi (rapporto nel 2010 dello Strategy, Policy and Review Department).

A Keynes non stava solo a cuore che la liquidità internazionale venisse assicurata da una banca mondiale che emettesse moneta di riserva (il Bancor) il cui scopo era quello di bilanciare transitoriamente gli squilibri del commercio internazionale, ma il fatto che a seguito di squilibri i paesi in attivo fossero costretti in breve tempo ad aumentare i loro consumi e le loro importazioni da parte dei paesi in deficit. Questo obbligo avrebbe dovuto fare da contraltare ad interventi restrittivi mirati nei confronti dei paesi in difficoltà. Il fallimento di Bretton Woods con l’abbandono della convertibilità del dollaro (1971) ha dato ragione a Keynes sulla impossibilità di usare una moneta nazionale quale il dollaro Usa come moneta di riserva. Ora è il momento di dargli ragione anche sull’esigenza di obbligare i paesi forti a praticare politiche espansive, sia pure con opportune qualificazioni in materia di politiche per lo sviluppo, nonché per chiarire ulteriori virtù che avrebbe potuto avere il Bancor. Vediamo meglio.

Sotto l’ipotesi che la creazione di moneta per accompagnare la crescita nei singoli paesi fosse affidata ai rispettivi governi e subalternamente ad essi alle singole banche centrali (l’intangibilità del diritto statale di signoraggio era a quei tempi fuori questione), il ruolo del Bancor sarebbe stato quello di sanare squilibri negli interscambi tra paesi, squilibri resi transitori proprio dalla doppia lama di forbice costituita dagli obblighi imposti sia ai paesi in avanzo che a quelli in disavanzo. Di conseguenza per un verso non era pensabile una crescita fuori controllo della moneta di riserva, per un altro il Bancor appariva una istituzione capace, per i paesi partecipanti, di associare principi di responsabilità ad elementi di garanzia e affidabilità idonei a rassicurare i mercati ed evitare attacchi speculativi. Prevalse (per ovvie ragioni di equilibrio politico internazionale) la proposta di usare il dollaro statunitense come moneta di riserva. A lungo andare tuttavia sarebbero emerse delle contraddizioni tra la politica monetaria nazionale, rivolta agli obbiettivi interni, e la politica monetaria globale, come posto in evidenza da Robert Triffin fin dal 1960. Ma c’è di più.

Una rilevante quota dei dollari emessi per finanziare il commercio internazionale e/o le importazioni degli Usa prima, successivamente anche una quota rilevante di altre divise accettate quale mezzo di pagamento internazionale, usate, anche in questo caso, per finanziare il commercio internazionale e/o le importazioni dei paesi emittenti, anziché andare ad alimentare una maggiore domanda di merci (tendenzialmente equilibrando in espansione, tra i diversi paesi, i flussi di merci e di servizi prodotti), è stata “risparmiata” e tenuta sotto forma di stock di ricchezza relativamente liquidi. Ciò che da un lato ha contribuito (all’inizio solo virtualmente, come dirò) a rallentare i ritmi di crescita delle economie inizialmente più progredite, dall’altro è andata a costituire il nucleo forte degli stock di liquidità ora usati a fini speculativi.

A mio avviso, poi, tali fenomeni sono stati rafforzati, in una buona parte dei paesi ad eccezione degli Usa, da una tendenza ad una formazione di risparmio monetario in eccesso rispetto a quanto usato per finanziare gli investimenti (in relativo declino) per crescita ed innovazione. Tali saldi monetari attivi hanno trovato sbocco (nella ricerca di diversificazione per motivi precauzionali) in una lievitazione degli impieghi finanziari e in altre forme di inflazione degli assetti di ricchezza. Le implicazioni di per sé recessive determinate dall’eccesso relativo di risparmio sono state parzialmente compensate per un rilevante periodo di tempo da spese pubbliche in disavanzo. Se questo ha fatto bene all’economia reale, ha tuttavia aggravato il problema dal punto di vista dell’accumularsi dei saldi monetari attivi nelle mani delle famiglie. Tali saldi monetari sono andati comprando, anche con l’aiuto delle banche, titoli e altri assetti di ricchezza non connessi all’espansione della capacità produttiva (titoli finanziari, case esistenti, terreni, opzioni su materie prime, ecc.), inducendone quegli aumenti di valore che hanno creato e alimentato l’espansione della c.d. “paper economy”. Di quella ricchezza, cioè, la cui abnorme inflazione ha già determinato in passato distorsioni nella distribuzione del reddito e probabilmente ha contribuito al rallentamento degli investimenti produttivi, e che oggi costituisce il combustibile che propaga l’incendio innescato dagli speculatori professionali. Sono infatti le crisi di ansia dei possessori di questi stock di ricchezza (il parco buoi) che, in assenza di politiche di garanzia autorevoli e credibili, moltiplicano gli effetti delle manovre speculative e le premiano.

Ciò rende evidente che il problema non è quello di imbrigliare gli speculatori – compito a dir poco arduo se non addirittura impossibile per il momento – bensì quello di togliere loro il moltiplicatore, rassicurando il parco buoi. Ma esiste un solo modo per far ciò: dare una garanzia immediata e totale nei confronti di possibili annunciati fallimenti, ciò che possono fare solo le banche centrali. A manovre che fanno leva su variazioni dei valori degli stock si risponde rendendo chiaro, con gli annunci e con i fatti, che le vendite saranno fronteggiate da acquisti, senza limiti, sostenuti da adeguamenti degli stock di moneta; e se si risponde, subito e con decisione, dando prova di forza, non succede niente o succede poco. La rassicurazione completa e pronta evita di dover comprare (creando moneta) perché poche saranno le vendite. L’unico soggetto che ha una tale potenza di fuoco è in Europa la Bce, come ha messo lucidamente in evidenza Paul de Grauwe recentemente (18 agosto, “The European Central Bank as a lender of last resort”, www.voxeu.org).

Rispondendo invece, come purtroppo si sta facendo, solo con garanzie parziali, centellinate nel tempo, rese incerte da conflitti tra presunte cicale e ottuse formiche, da invidie e competizioni tra stati, con promesse di politiche “virtuose” esercitate sui flussi, che sono sempre a rischio di grandi tensioni sociali e di backlash recessivi (e quindi di nuovi attacchi speculativi), si premia la speculazione, si fanno inutilmente soffrire i popoli, si mina la coesione internazionale.

La Bce – fa notare de Grauwe – non ha esitato a sostenere le banche nel 2008 quando esse rischiavano un fallimento a catena. Eppure ha esitato ed esita ad intervenire sui rischi dei debiti pubblici, sebbene questi ammontino nell’Eurozona all’80% del corrispondente Pil, mentre l’indebitamento complessivo (le liabilities) delle banche fosse ben il 250% del Pil. I rischi di fallimento a catena, in assenza di un prestatore di ultima istanza, sono esattamente gli stessi per i debiti bancari e per i tioli pubblici e sollevano gli stessi problemi. Di qui la sua proposta, che la Bce funga da prestatore di ultima istanza anche per i debiti pubblici. Una proposta, del resto, non dissimile da quella di Daniel Gros (“August 2011: The euro crisis reaches the core”, 11 agosto, www.voxeu.org), che propone di trasformare lo European Financial Stability Fund (Efsf) in una banca, rispetto alla quale la Bce dovrebbe agire come prestatore di ultima istanza. Entrambi sostengono il carattere dilatorio e alla fine fallimentare di soluzioni diverse. Concordo pienamente, anche per ragioni ulteriori che chiarirò in un successivo articolo.

continua

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La Grecia, la speculazione e il ruolo della Bce

Eccellente ricostruzione, mi permetto di aggiungere un paio di tasselli tesi ad approfondire il punto a:
“le politiche di austerità sono non solo inutili per combattere gli attacchi speculativi, ma dannose, nel senso che giocheranno a favore di nuovi attacchi”.
Il differenziale tra i rendimenti dei titoli emessi dagli stati dell'eurozona, il famigerato spread, nei confronti del benchmark, il Bund tedesco, è stato nullo per tutto il decennio dell'avventura euro. Sottoscrivere Btp italiani, Bonos spagnoli o qualsiasi altro titolo a dieci anni emesso dagli stati di eurolandia , Grecia e Portogallo inclusi, dava lo stesso rendimento agli investitori, remunerandoli con il medesimo tasso d'interesse annuale (mediamente attorno al 3 % nominale). Tutto ciò nonostante la Germania facesse registrare costantemente saldi attivi della sua bilancia commerciale, un'inflazione interna inferiore ed un tasso di crescita della propria economia maggiore rispetto alla media dei restanti 15.
La crisi del 2008 propagatasi all'Europa dagli Stati Uniti dopo la sciagurata decisione di lasciar fallire una banca d'investimenti (una banca che quindi non raccoglieva depositi) comincia a far risaltare tali differenze. Tuttavia sarà la “vicenda greca” che le metterà definitivamente a nudo: nell'ottobre 2009 il dimissionario governo di Karamanlis (centro destra) lascia il potere nelle mani del vincitore delle elezioni Papandreu. Il Pasok, partito di centro sinistra guidato da Papandreu, ottiene la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento. La prima dichiarazione del nuovo primo ministro greco è sconcertante: il governo Karamanlis aveva truccato i conti, i deficit greci (la differenza tra le entrate e le uscite durante l'anno) erano stati mediamente intorno all'11 % rispetto al Pil contrariamente a quanto affermato dal governo precedente che dichiarava di essere in linea col dettato europeo e dunque entro il limite del 3%. Gli enormi disavanzi degli anni della giunta Karamanlis andavano a gonfiare il debito pubblico complessivo, che improvvisamente si scopriva essere maggiore del Pil. La Grecia entra nell'occhio del ciclone, vengono condotte delle massicce operazioni allo scoperto sui suoi titoli di stato, rastrellati presi in prestito e venduti in massa, inducendo la paura negli altri possessori (quelli che Sergio Bruno chiama il “parco buoi”) che a loro volta vendono, il prezzo scende il rendimento si impenna. Chi ha venduto a 100 adesso può ricomprare a 40, rendendo come da contratto i titoli greci ai rispettivi proprietari che glieli avevano ceduti in prestito, pagando loro un interesse, e incassando la enorme differenza. Il gioco è semplice ma soprattutto molto redditizio, perché non replicarlo? Ma in Europa nessun altro governo (forse) ha truccato i conti, tuttavia la crisi del 2008 ha ampliato i disavanzi e con loro i debiti. Ma tutto ciò non rappresenta un problema, anzi ne è la soluzione; dopo la depressione gli stabilizzatori automatici entrano in funzione per non far crollare i consumi, inoltre misure volte a far ripartire la crescita espandono la spesa pubblica nonostante le entrate in calo. In economia tuttavia esiste una legge non scritta: se si comincia ad avvertire come un problema un aspetto economico che non rappresenta una questione rilevante e la platea di coloro che lo avvertono come tale si allarga, quell'aspetto diventerà un problema. Ecco allora servito il problema insormontabile: l'insostenibilità del debito pubblico dovuto all'espandersi dei disavanzi. Intendiamoci il debito pubblico rappresenta una questione molto rilevante, nella misura in cui ogni anno parte della ricchezza prodotta dovrà andare a finanziare gli interessi, ma innanzitutto la parte sottoscritta dai cittadini del paese emittente rappresenta una mera redistribuzione interna (il Giappone ha un debito pubblico oltre il 200 % del Pil ma è stato quasi tutto sottoscritto da investitori nipponici), inoltre, senza scomodare la teoria economica, il buon senso vorrebbe che ci si indebitasse per finanziare progetti di investimento volti al futuro e non (a meno di casi eccezionali) la spesa corrente.
Ecco quindi che gli attacchi speculativi nei confronti del Portogallo e dell'Irlanda possono essere condotti. A stretto giro di posta non poteva mancare l'attacco al paese con il debito più grande. Ma non voglio soffermarmi su questo, piuttosto vorrei fare un passo indietro, perché è importante a mio avviso sottolineare quale sia stato il comportamento della Bce e dei grandi colossi bancari privati europei, durante il corso del 2009. Occorre prima di tutto sottolineare come dai dati forniti dalla stessa Banca centrale europea si evinca come dal 2003 si assiste ad un continuo incremento di liquidità definita “in eccesso”, ovvero la differenza tra la moneta effettivamente in circolazione e la moneta teoricamente necessaria per finanziare la crescita reale dell'economia con un tasso di inflazione al 2 %. alla fine del 2009 la liquidità in eccesso era superiore ai 2000 miliardi di euro.
Tale eccesso di liquidità è in perenne “caccia” di rendimenti, ed è ciò che ha costituito la materia prima per le bolle immobiliari prima e azionarie poi. Quando nel 2008 il valore delle azioni è crollato, parte di questo eccesso si è sgonfiato.
Per tutto il corso del 2009 la Bce ha inondato il mercato di liquidità, fornendo attraverso misure straordinarie fondi all'1 %. Si è trattato, bene inteso, di misure sacrosante volte ad evitare l'avvitamento dell'economia europea in una spirale recessiva. Tuttavia le banche europee partecipanti alle aste, il cui compito sarebbe quello di intermediare il credito dalla banca centrale alle imprese per finanziare la crescita, e alle famiglie per finanziare l'acquisto di beni mobili ed immobili, hanno utilizzato tali fondi per ristrutturare prima e per acquistare titoli di Stato poi. Dopotutto perché fornire credito a imprese e famiglie in un momento in cui il loro tasso di insolvenza è più alto del solito, quando ci sono all'orizzonte profitti certi acquistando titoli che rendono il 3% avendo a disposizione enormi fondi all' 1%?
Come già evidenziato in precedenza la Grecia nell'ottobre 2009 comincia ad offrire rendimenti più alti rispetto ai partners europei, le grandi banche non si fanno sfuggire l'occasione, in particolare BNP Paribas e Deutsche Bank i colossi bancari più grandi di Francia e Germania acquistano titoli greci rassicurati dal paracadute che la Bce inevitabilmente gli fornirà. Si tratta di quello che in economia viene definito azzardo morale. Se il fallimento di una banca d'affari come la Lehman Brothers ha provocato la più grande crisi finanziaria dal '29, i colossi nati dalle fusioni bancarie dell'ultimo decennio (dal Banco di Santander ad Unicredit e Intesa passando per BNP e Deutsche) possono permettersi esposizioni ad alto rischio perchè il paracadute della Bce per loro sarà sempre aperto.
Quando nell'aprile del 2010 Papakonstantinou, il ministro delle finanze greco, annuncia che la Grecia non è in grado di pagare gli interessi infrannuali di maggio, inizia la catastrofe; ragazzi non scherziamo, quella cedola deve essere pagata, chi ha preso impegni con il mercato deve rispettarli.
La Grecia ha le casse vuote, iniziano le pressioni delle banche francesi e tedesche presso la Bce che interviene, in aiuto della Grecia si dirà. Grecia che immediatamente onora il debito e paga gli interessi. La sacralità del mercato è salva, le banche private incassano la cedola e cominciano molto gradualmente a disfarsi dei titoli greci.
L'aspetto più grottesco della storia avviene un anno più tardi quando la Bce compie l'ennesimo intervento a sostegno dei titoli greci e, alla stessa stregua del Fondo monetario internazionale negli anni '80 quando intervenne in America Latina, detta le sue condizioni: austerità, taglio della spesa pubblica ed aumento delle tasse. Misure che rendono impossibile la ripresa economica nella penisola ellenica. Va detto che nella pubblica amministrazione greca si annidavano, e probabilmnete si annidano tuttora dopo i poderosi tagli, grosse sacche di inefficienza. La soluzione tuttavia è l'aspetto bizzarro che stupisce. Il licenziamento in massa. Le aziende purtroppo da questo lato insegnano, non esiste miglior ricetta per risanare una azienda inefficiente. Ma lo Stato non è un azienda, e al contrario di operai ed impiegati rimossi dall'impresa, quelli licenziati dalla pubblica amministrazione continuano a far parte del paese. Toglier loro lo stipendio senza alcun meccanismo selettivo e per di più in massa, non potrà che abbattere i consumi. Risultato: a fronte di interessi sul debito da capogiro le prospettive sulla crescita economica greca nel 2012 sono di un – 7 %!
Storicamente, come sottolineato da De Cecco in un articolo su affari e finanza di repubblica dello scorso 3 maggio "da una situazione di debito pubblico in rapido aumento si esce con l'inflazione, con una adeguata crescita del PIL o con una mistura di entrambe”, pensare di combattere il debito con misure di austerità fiscale rimane una pia illusione degli estimatori del libero mercato.

speculazione e tecnocrazie

Articolo utilissimo, illuminante e profondamente condivisibile.
Mi chiedo come sia possibile che le scorribande speculative al ribasso sui debiti sovrani non possano mai uscire dall'anonimato, che non sia possibile identificarne autori, obiettivi, limiti e modalità per fermarle.
Non è compito dei regolatori vigilare sulla trasparenza dei "mercati"? Non è compito delle autorità introdurre freni ed ostacoli al libero dispiegarsi delle forze distruttive? A cosa servono i limiti temporali per le vendite allo scoperto? Non sono queste le modalità di svolgimento delle guerre moderne? Non si possono introdurre leggi eccezionali in stato di guerra? Nessuno si pone l'obiettivo politico di agire per distruggere i distruttori?