Home / Sezioni / globi / Il punto sulla crisi e sui suoi possibili sbocchi

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Sezioni

Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito

Il punto sulla crisi e sui suoi possibili sbocchi

31/08/2011

Se fosse la tanto vituperata "finanza" a garantire la sopravvivenza alla way of life occidentale? Nel riflettere sulla crisi dell'economia mondo sono tante le possibili interpretazioni...

“…in un modo o nell’altro, ciascuno ha l’impressione che il terreno sia sul punto di affondare sotto i suoi piedi…; …c’è la sensazione diffusa che la festa sia finita…”

Anselm Jappe

 

Premessa

Nonostante che il fenomeno della crisi in atto sia stato esplorato in tutte le direzioni e continui costantemente a esserlo, permangono molti punti controversi sulla sua origine, sulla sua stessa definizione e sulla sua natura di fondo, nonché conseguentemente sulle vie di salvezza, if any.

In ogni caso, sono ormai passati diversi anni dallo scoppio della crisi e nessuno sembra avere a livello politico delle idee adeguate, nonché la capacità e la volontà per uscire fuori dai guai.

Una definizione della crisi

Manca intanto apparentemente una qualche espressione definitoria che sintetizzi la sostanza del fenomeno in atto e questo appare piuttosto sorprendente. Al momento delle sue prime manifestazioni si è parlato di crisi del sub-prime; successivamente, man mano che essa si apriva nuove strade, si è tentato di appiccicargli qualche altra etichetta, quale “crisi sovrana”, “crisi finanziaria” o anche “crisi del credito”, ecc., ma nella sostanza sembrerebbe mancare a oggi, almeno sui media occidentali, una definizione chiara e convincente.

Dobbiamo andare in Asia per trovarne una che sembri plausibile; in tale angolo del mondo si parla chiaramente di “crisi atlantica” (Padis, 2010), di un fenomeno cioè che riguarda essenzialmente la parte più sviluppata del pianeta.

Prendendo per buona, almeno per il momento, tale definizione, apparentemente censurata dalle nostre parti, si tratta di individuare soprattutto le ragioni di fondo del fenomeno, nonché le vie per poterne uscire. Le due cose sono ovviamente strettamente legate.

Il fronte finanziario

Molti concentrano la loro attenzione critica sul tema della finanza. Di fronte a un’economia reale considerata sana, il marcio starebbe negli “eccessi” del sistema finanziario che, sfuggito a ogni regola e a ogni controllo, metterebbe in pericolo l’economia mondiale. Si sottolinea così l’avidità degli speculatori, la complicità e i conflitti di interesse delle agenzie di rating, la follia delle borse, la rapacità dei manager delle istituzioni finanziarie, le male azioni delle banche.

C’è chi, con una leggera variante rispetto all’analisi precedente, cerca di distinguere la buona dalla cattiva finanza. La prima sarebbe quella che sostiene l’economia, le imprese, i cittadini, la seconda quella che si dà alla speculazione e trascura e umilia il mondo produttivo. La prima forma avrebbe sostanzialmente caratterizzato la fase che dal dopoguerra va sino grosso modo alla fine degli anni settanta, la seconda avrebbe poi preso il sopravvento a partire dai primi anni ottanta, facendosi poi sempre più aggressiva e dominante.

Ma “basterebbe” sistemare il fronte finanziario con i suoi cattivi protagonisti per bloccare alla radice la crisi? Chi scrive ha pubblicato diversi testi che cercano di contribuire a individuare le vie per una possibile riforma del sistema finanziario e quindi pensa che in effetti l’influenza della finanza sulla vita economica e sociale sia stata negli ultimi decenni devastante e che una profonda riforma del settore sia comunque indispensabile e urgente, ma non ha mai pensato che questo potrebbe bastare per risolvere tutti i problemi posti dalla crisi. D’altro canto, è giocoforza constatare che i governi e le istituzioni internazionali stanno facendo sostanzialmente troppo poco per sistemare la questione.

Ma anche quando tale fronte venisse largamente presidiato, il che appare molto improbabile, ci troveremmo di fronte a un problema ancora maggiore, quello delle difficoltà dell’economia reale.

Viene alla mente, in effetti, anche un altro pensiero: e se i processi di finanziarizzazione in realtà, invece di rovinare l’economia reale, l’avessero aiutata a sopravvivere al di là della sua “data di scadenza” (Jappe, 2011)? Di fatto, nel decennio che ha preceduto la crisi, solo la finanza e l’immobiliare, attività per molti aspetti sorella della prima, hanno sostenuto in qualche modo la crescita dell’economia occidentale. E se quindi in tale periodo la finanza avesse continuato a far respirare un corpo moribondo? E se, alla fine, all’origine della malattia stiano problemi più gravi di quelli provocati dagli speculatori?

Il fronte dell’economia reale

In effetti, molto presto tra i seguaci dell’analisi economica di tipo keynesiano e comunque tra gli economisti “radicali” l’origine della crisi è stata fatta risalire all’avvio della fase tatcheriana-reaganiana dell’economia, che ha portato tra l’altro in occidente, oltre che a una profonda messa in discussione del ruolo dello stato, a una forte crescita delle diseguaglianze, con un sostanziale blocco dei redditi da lavoro in valori assoluti e a un loro arretramento rispetto a quelli di capitale nella composizione del pil dei vari paesi. Le classi medie e popolari non hanno più, da un certo punto in poi, avuto altra via per continuare a consumare e investire che quella di aumentare il loro livello di indebitamento, ciò che ha portato alla fine al crollo della piramide. Parallelamente, negli ultimi decenni non si è manifestato alcun grosso stimolo alla domanda attraverso lo sviluppo di qualche nuovo settore che fungesse, come in epoche passate, da traino per tutta l’economia. E trascuriamo, per semplicità, i fattori internazionali, pur rilevanti.

In tale quadro, le malefatte della finanza sono state certamente stimolate ed esse hanno sicuramente contribuito ad aggravare la situazione, ma alla radice della crisi starebbe una carenza di domanda nel settore dell’economia reale, più di recente aggravata dal tentativo da parte dell’operatore pubblico di ridurre il livello di indebitamento attraverso il ridimensionamento della spesa pubblica.

Il suggerimento di fondo che viene conseguentemente da tale tipo di analisi è quello che appare necessario, da una parte, ridistribuire il surplus prodotto nell’economia indirizzandolo maggiormente a favore del lavoro, avviare poi, dall’altra, da parte degli stati, un grande programma di investimenti nel settore dell’economia verde, accompagnato anche da forti e paralleli stimoli all’industria privata; tale settore potrebbe e dovrebbe costituire il prossimo asse di sviluppo dell’economia del mondo.

Che dire di tutto questo? Chi scrive appare sostanzialmente convinto che nella situazione attuale sia presente certamente un problema di domanda, con l’evidente necessità di ridistribuire la torta tra il lavoro e il capitale e che sia anche indifferibile spingere per una grande riconversione “ecologica” dell’economia.

Ma duole constatare che nessun paese occidentale è in grado in questo momento di avanzare in maniera significativa sul primo fronte – anzi, tutti i programmi di controllo della spesa pubblica dovrebbero avere un effetto di riduzione nella stessa domanda, nonché della qualità dell’offerta – né sul secondo. Così Obama era partito dichiarando la volontà di avviare grandi sforzi verso una nuova politica energetica e constatiamo tutti come la cosa sia in effetti andata a finire.

In tale quadro è evidente come l’uscita dalla crisi appaia una possibilità sempre più lontana.

L’ipotesi giapponese

A questo punto l’ipotesi più immediata che viene alla mente è quella che il mondo occidentale si stia avviando verso una situazione di tipo giapponese, cioè verso un periodo di lunga e persistente stagnazione economica; il paese del sol levante non cresce ormai in effetti da una ventina d’anni. Il timore di una giapponesizzazione è ormai fortemente presente nelle classi dirigenti atlantiche.

Il modello giapponese appare caratterizzato da alcune caratteristiche di fondo che gli altri paesi ricchi sembrano stare acquisendo più o meno rapidamente con il tempo: alto rapporto debito/pil, bassa crescita della popolazione, sostanziale blocco e debolezza della politica, tassi di interesse molto bassi e deflazione o minaccia di deflazione, banche in difficoltà, crolli di borsa e del settore immobiliare (Milne, 2011).

Va sottolineato che una stagnazione prolungata dei vari paesi potrebbe certamente manifestarsi con qualche possibile variante rispetto al caso giapponese, che tutto sommato presenta diverse caratteristiche positive, quali un elevato livello tecnologico, un alto livello di benessere accompagnato da una distribuzione della ricchezza tra le meno diseguali tra quelle dei paesi ricchi, una buona efficienza della macchina pubblica, una coesione sociale piuttosto elevata. La variante italiana, altro paese in difficoltà economica almeno da una quindicina di anni, potrebbe esserne per molti versi una sua versione in peggio.

Peraltro bisogna sottolineare che il modello giapponese si regge su di una continua crescita del livello dell’indebitamento pubblico, che ha ormai raggiunto cifre elevatissime e che non appare più sopportabile a medio termine.

L’ipotesi argentina e quella di una crisi finale del capitalismo

A questo punto quella del fantasma giapponese potrebbe comunque costituire ancora un’ipotesi consolatoria. C’è chi comincia invece a pensare a uno scenario di tipo argentino. Il paese sudamericano alla fine della seconda guerra mondiale era uno dei più prosperi del mondo; da allora esso ha registrato un lento ma inesorabile declino, precipitando poi qualche anno fa in un crollo improvviso. D’altro canto, lo stesso modello giapponese potrebbe anche preludere a quello argentino.

Ma è peraltro possibile tornare invece al modello di sviluppo keynesiano del dopoguerra, cioè a un capitalismo “ben temperato”, regolato e governato dalla politica, a un modello molte delle cui basi materiali sono state nella sostanza distrutte dall’avanzamento tecnologico e dalle mutazioni economiche e sociali degli ultimi decenni? Hic Rodhus, hic salta.

Alla fine, viste le difficoltà di azione da parte dei paesi occidentali e gli ostacoli di peso collocati sulla strada di un ritorno a un modello pre-tatcheriano dello sviluppo, può venire persino il dubbio che la situazione attuale non abbia sbocchi possibili. Allora diventerebbe in qualche modo plausibile anche l’ipotesi che la crisi in atto sia in realtà quella finale del capitalismo.

Naturalmente, potrebbe certamente accadere che invece, in qualche modo, la situazione migliori e l’economia atlantica prima o poi si riprenda. Da molte parti si può sostenere che il modello capitalistico abbia molte vite, che troppe volte esso sia stato dato per morto e che anzi le sue crisi periodiche rappresentino di solito dei momenti di “distruzione creatrice” di tipo schumpeteriano, di riorganizzazione e di riavvio del sistema su nuove e anche migliori fondamenta e non sono in molti, per la verità, ad avanzare, almeno per il momento, l’ipotesi estrema.

A conoscenza di chi scrive soltanto poche persone hanno messo in campo di recente tale eventualità. Da una parte, Immanuel Wallerstein, in un articolo scritto nelle prime fasi della crisi (Wallerstein, 2008), testo accolto a suo tempo con molto scetticismo anche a sinistra; dall’altra, uno studioso francese, Anselm Jappe (Jappe, 2011), autore che ha ispirato in parte questo articolo; possiamo ancora citare Steven Stoll, la recensione del cui testo sulla crisi si può trovare su di un numero recente di un periodico francese (Books, 2011). Infine, ricordiamo la pubblicazione dell’ultimo volume di Slavoj Zizek che sembra, in qualche modo, aprire alla stessa ipotesi (Zizek, 2011).

Sottolineiamo soltanto quello che a tale proposito sostiene in particolare A. Jappe. La crisi del capitalismo viene ormai per l’autore non solo dai limiti esterni alla sua crescita, sotto forma di esaurimento delle risorse e di distruzione delle sue basi naturali a livello mondiale, ma anche da quelli intrinseci al suo sviluppo, della sua forma di accumulazione e di riproduzione sociale; “…la merce… il denaro… la concorrenza… il mercato: dietro le crisi finanziarie che si ripetono da più di venti anni, ogni volta più gravi, si profila la crisi di tutte queste categorie…”.

E i paesi emergenti?

L’ipotesi di una crisi “finale” del capitalismo, avanzata da qualche autore, si scontrerebbe peraltro con diversi dubbi e con alcuni punti oscuri. Ne vogliamo ricordare uno soltanto, l’esistenza dei paesi emergenti, molti dei quali presentano da tempo una situazione di pieno boom economico.

La crisi dei paesi ricchi travolgerebbe anche loro, o essi riuscirebbero invece, in qualche modo, a resistere alle difficoltà e a riavviare una nuova epoca, un nuovo modello capitalistico? Nessuno può concretamente immaginare cosa potrebbe accadere. Non si potrebbe invece forse parlare, almeno per quanto riguarda la Cina, di gran lunga peraltro il paese più importante tra quelli emergenti, dell'esistenza di un modello di mercato non capitalistico, come a suo tempo ipotizzato da Giovanni Arrighi (Arrighi, 2011)? E allora il problema non si porrebbe, almeno in parte.

Solo il futuro, comunque, potrà sciogliere molti dei dubbi che abbiamo oggi davanti.

Testi citati nell’articolo

Arrighi G., Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano, 2007

Books, aprile 2011

Jappe A., Credit à mort, Nouvelles Editions Lignes, Parigi, 2011

Milne R., West shows worrying signs of “Japanisation”, www.ft.com, 18 agosto 2011

Padis M. O., Le bosculement des puissances, Esprit, n. 10, 2010

Wallerstein I., Le capitalisme touche à sa fin, Le Monde, 11 ottobre 2011

Zizek S., Vivre la fin des temps, Flammarion, Parigi, 2011

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti

Documentarsi

La cosa che forse più mi rattrista, in tante discussioni che leggo su Internet, è l'enorme pigrizia intellettuale di chi legge e scrive.
Caro "Lettore", basta una rapidissima ricerca su Google per correggere una banale svista: quello di Wallerstein è un articolo apparso su Le Monde l'11/10/2008.
Colgo l'occasione per chiedere a Vincenzo Comito a quali studi sul Giappone a medio termine fa riferimento.
Grazie.

Correzione

Pardon, pensavo Comito ed è uscito Politi. Boh. Suppongo che per la data del libro citato sia incorso in lapsus analogo al mio.

Futurismo

Wallerstein I., Le capitalisme touche à sa fin, Le Monde, 11 ottobre 2011

Complimenti a Politi, è riuscito a leggere un libro che verrà stampato nel futuro!

il caso giapponese

vorrei fare soltanto una precisazione rispetto alle interessanti note di Segio Polini; sino ad oggi il debito pubblico giapponese è in effetti finanziato quasi interamente all'interno, dal risparmio delle famiglie; ma vorrei ricordare che alcuni studi mostrano che tra qualche anno il volume del risparmio di casa non ce la farà più a sostenere tale peso e allora chissà cosa succederà.

La fase prossima ventura

Crisi del capitalismo? Potrebbe suonare bene, ma rivelarsi solo una questione di nomi.

Mi pare che, in realtà, il capitalismo sia molto mutato nel tempo e che oggi la "crisi atlantica" sia la crisi di una sua fase (se poi questa è l'ultima o no, può dipendere da come i posteri definiranno la successiva...). Sintetizzando all'estremo, il capitalismo di Ricardo e Marx si reggeva sul salario di sussistenza, su un salario appena sufficiente per il "consumo necessario"; il grano era una componente essenziale della produzione e tale è stato, in Europa, fino alla lunga depressione 1873-1895. Henry Ford ha inventato la fase del produttore-consumatore: il salario deve essere tale da consentire al produttore di consumare ciò che produce, la produzione è in buona parte produzione di beni durevoli di massa. Problema: nell'agricoltura produzione e consumo seguono cicli coerenti, entrambi di durata annuale; la produzione di beni durevoli richiede invece sempre meno tempo, un tempo sempre minore del ciclo di vita del prodotto, al punto che la saturazione dei mercati incombe.

Mi chiedo, quindi: non sarà che la finanza e l'immobiliare si sono proposte come principale risorsa proprio a causa di tale saturazione? Penso all'Italia: un'automobile ogni due persone, più telefonini che persone, televisori e lavatrici in ogni casa, condizionatori in molte ecc., mentre anche lo stesso numero di case non può più crescere al ritmo degli anni dell'urbanizzazione. Non credo che la situazione sia molto diversa in altri paesi "atlantici". Sbaglio?

Quanto ai paesi emergenti, mi limito alla Cina e all'India. Se il loro consumo pro capite di petrolio diventasse uguale a quello USA, la Cina dovebbe consumare circa 90 milioni di barili al giorno (più o meno quello che ora è il consumo mondiale!), l'India oltre 70. Se ciò invece accadesse per il consumo pro capite di cereali, la produzione mondiale annua dovrebbe aumentare di oltre 1600 milioni di tonnellate, ma in realtà ristagna da qualche decennio. Aggiungo che non riesco proprio a immaginare 700 milioni di automobili in Cina e 600 in India. In sintesi, non riesco a immaginare, per i paesi emergenti, uno sviluppo analogo a quello che si è visto nei paesi "atlantici". Continueranno certamente a crescere, magari affrontando tra qualche anno forti tensioni sociali, ma dovranno comunque inventarsi qualcosa di diverso. O no?

Forse i paesi "atlantici" devono imparare a convivere con un PIL che non cresce, forse devono capire che la "decrescita" non è il fumoso obiettivo di una pattuglia di eretici ma la dura realtà. E magari dovranno imparare dal Giappone che quel che davvero importa non è tanto il debito pubblico, ma il debito estero. Probabilmente i paesi emergenti saranno "costretti" a inventare la nuova fase. Chi vivrà vedrà se sarà una fase del capitalismo (magari di impronta cinese e... guidata da un forte partito comunista!) oppure altro.