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L'Europa salvi l'Europa
La sinistra europea può combattere la crisi, unendosi su alcuni obiettivi: evoluzione del Fondo salva-stati, ristrutturazione dei crediti sovrani, piano europeo per il lavoro, eurobond, tasse ambientali e sulle transazioni finanziarie. E uno standard europeo per i salari
Le domande poste da Rossana Rossanda sul senso dell'Unione europea vanno al cuore del problema. Si chiede, in sintesi: non c'è stato qualche errore nella costituzione dell'Unione europea? Come si ripara?
La svolta, tardiva e inadeguata, intrapresa con l'accordo raggiunto il 21 luglio a Bruxelles nel vertice straordinario dei capi di stato e di governo, lascia l’euro e l’Unione europea a rischio. Non soltanto rischio finanziario, ma sociale e democratico. È sotto osservazione, misurato ogni minuto dagli spread e dal prezzo dei Cds, il rischio di rottura della moneta unica dovuto alla insostenibilità dei bilanci pubblici e alle pressioni dei mercati finanziari. È meno osservato il rischio di rottura indotto dagli insostenibili squilibri sociali e dalle reazioni dei mercati rionali. Gli indici qui sono decisamente più rozzi, ma non meno preoccupanti: la percentuale di cittadini, soprattutto giovani, senza fiducia nella politica, il numero degli indignados, le percentuali di voto raccolte dai partiti nazionalisti e populisti.
Ha ragione Rossanda. Una causa fondamentale della inadeguata impalcatura politico-istituzionale della Ue è di ordine culturale: lo sfondo ideologico liberista che ha accompagnato la nascita dell'euro. I padri e i "padrini" dell'euro avevano e hanno impostazioni culturali diverse e finanche opposte (Ciampi non è Tietmeyer; Prodi, Napolitano e Delors non sono Merkel o Sarkozy), ma non c'è dubbio che il paradigma che ha disegnato le istituzioni della moneta unica e prima ancora le politiche economiche di stabilità e crescita ha seguito i precetti dominanti il trentennio alle nostre spalle. In sintesi: la tecnicizzazione e la neutralizzazione della politica economica. Quanto viene lasciato in mano alla politica, ossia le politiche di bilancio, perde ogni margine di manovra (fino allo "stupido" Patto di stabilità). La politica monetaria si affida a una istituzione tecnica indipendente (la Bce), dotata di pilota automatico, orientata a colpire l'aumento dei prezzi sopra la soglia del 2%. La politica industriale diventa bestemmia. Compito unico della politica è liberare l'economia dalle bardature regolative per lasciare le forze economiche far da sé e, così, fare società. Insomma, come efficacemente sintetizzava un bel saggio di Fitoussi del 1997, nella politica economica "il dibattito è proibito".
Fare l'euro è stata una straordinaria scelta politica in controtendenza. È stata giusta e lungimirante. La condizione necessaria per ricostruire democrazie fondate sul lavoro. Per recuperare, in condivisione, la sovranità nazionale perduta nel mare dell'economia globale.
Non è stata colpa dell'Ue la liberalizzazione dei mercati dei capitali. Nessuna nazione europea, da sola, avrebbe resistito. La colpa della Ue è stata di non aver fatto una battaglia nelle sedi di governance multilaterale, a esempio al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale, dove pure gli europei, insieme, avevano e hanno ancora la maggioranza delle quote ed esprimono, nell'Fmi, per diritto divino, oramai scaduto, al managing director.
Tuttavia, non c'è dubbio che le forze culturali, politiche e sociali progressiste poi hanno perso la battaglia o, meglio, hanno in misura prevalente affidato al mercato il compito di risolvere i problemi.
Oggi, rimaniamo nel tunnel della stagnazione perché, nonostante il fallimento storico, le politiche economiche sono ancora prigioniere del paradigma neo-liberista, ossia tira più forte di prima il vento culturale che ha accompagnato le scelte politiche degli ultimi 30 anni. Le condizioni dei mercati del lavoro (7 milioni di disoccupati in più nella Ue dalla metà del 2008), le condizioni di reddito, i rischi di povertà, le prospettive delle classi medie, la qualità dell’ambiente sono aspetti tematici, lasciati agli specialisti del settore (giuslavoristi, economisti del lavoro, esperti di welfare, sociologi, ambientalisti). L’economia si dedica esclusivamente alla finanza pubblica, ai mercati finanziari e al tasso di inflazione. La politica esegue le inevitabili scelte dettate dai mercati finanziari, impossibilitata a rispondere alle domande dei mercati rionali. Come il sig. Malaussène, protagonista dei romanzi di Pennac, i politici, sempre più caricaturali, sono in prima fila a prendere gli insulti o ad abbaiare alla luna. In tale quadro, monta l’ossessione dell’opinione pubblica verso i costi della politica. È comprensibile. A che servono i ministri e i parlamentari, per non parlare degli rappresentanti nei livelli di governo territoriali, quando non vi sono rilevanti scelte da fare ed è sufficiente il ragioniere generale dello stato per attuare i presunti diktat di Bruxelles?
Va chiarita la posta in gioco. Nell’Ue, non siamo in una fase di aggiustamento dei conti pubblici scassati dal “socialismo della spesa”, portato storico delle forze socialdemocratiche e, da noi, catto-comuniste, come oramai passa nel dibattito politico, nutrito da rigoristi senza se e senza ma. Oramai, anche per tanti di noi, spesa primaria corrente = spreco. Quindi, tagli alla spesa primaria = efficienza.
Dobbiamo avere chiara la posta in gioco. Nella Ue, è in atto una regressione genetica: cambiano i connotati del modello sociale europeo, dell’economia sociale di mercato, insomma quell’insieme di caratteri che nella seconda metà del XX secolo hanno reso l’Ue l’area non soltanto più ricca del pianeta ma più avanzata in termini di coesione sociale, condizioni del lavoro, opportunità. Attenzione: è necessaria l’innovazione. Le modalità per raggiungere le condizioni promosse dallo stato nella seconda metà del ‘900 devono essere superate per riconoscere e interagire attivamente con l’inedita intensità, velocità e pervasività delle interdipendenze globali del secolo appena incominciato, con la mutazione delle relazioni tra persona-lavoro-consumo, con la rilevanza delle relazioni extra-economiche per l’identità della persona, con il protagonismo dei corpi intermedi.
Qui, tuttavia, non siamo alla “distruzione creatrice”. Qui, siamo alla retrocessione strutturale del lavoro, allo smantellamento dei welfare universalistico, alla fine delle democrazie delle classi medie e alla costruzione di un ordine neo-corporativo a democrazia elitaria e populista. Tuttavia, ecco il punto, la risposta all’emergenza economica non è deterministica. La modernità non è data. Siamo in presenza, invece, di una “rivoluzione passiva” per un’ulteriore concentrazione dei poteri come adattamento reazionario all’ordine globale del XXI secolo. Non cambia la finanza pubblica o l’economia, cambia la qualità della democrazia. Ed è evidente, cambia il profilo identitario delle forze progressiste e lo status della politica.
È davvero inevitabile? Ossia, l’economia, un'élite economica sempre più ristretta, deve continuare a dare le carte e la politica, come dice Reichlin, deve limitarsi ad andare in tv a spiegare l’ineluttabilità dei sacrifici sempre sugli stessi?
Che fare? Innanzitutto un’analisi corretta.
Primo, la finanza pubblica non è indipendente dall’economia reale. Senza riavvio dello sviluppo non si ha sostenibilità del debito pubblico. E senza un netto miglioramento delle condizioni del lavoro e della distribuzione del reddito e della ricchezza non si ha sviluppo sostenibile. È banale, ma dimenticato nell’eccitazione “responsabile” per l’austerità, intesa sempre più come categoria morale, anziché economica e sociale.
Secondo, il debito pubblico, a parte il caso Grecia, esplode a causa dell’assorbimento del debito privato e in conseguenza dell’implosione delle bolle speculative, immobiliari o finanziarie, gonfiate per tre lustri dalla finanza irresponsabile. L’interpretazione su cui si basa gran parte degli interventi messi in atto dai governi dei paesi dell’eurozona attribuisce, viceversa, la responsabilità delle difficoltà presenti al comportamento dei paesi più deboli della zona dell’euro che non avrebbero saputo tenere sotto controllo la loro finanza pubblica. Di qui i piani di aggiustamento imposti e tesi più che altro a “punire” i paesi periferici più indebitati sottoponendoli a severe politiche di austerità e deflazione interna, di fatto insostenibili in un’ottica di medio termine. Non funziona scaricare i costi soltanto sul bilancio pubblico, quindi sui cittadini più deboli e sulle classi medie. Devono pagare, anche con la ristrutturazione del debito privato, quanti hanno mietuto raccolti copiosi nei due decenni passati.
Terzo, il blocco alla ripresa delle economie europee dipende da insufficiente domanda aggregata, non da rigidità dell’offerta, come la vulgata neo-liberista continua a ripetere. L’Ue e gli Usa hanno un eccesso di capacità produttiva e le economie emergenti non hanno e non avranno nel medio periodo la capacità di assorbire il volume di esportazioni necessario ad arrivare a un equilibrio di piena occupazione. In ogni caso, come dimostra la storia recente, un equilibrio è instabile se puntellato da squilibri sistematici delle bilance commerciali.
Quarto, la degenerazione della distribuzione del reddito e della ricchezza, dovuta agli squilibri nei rapporti di forza sul mercato del lavoro e amplificata dalla delegittimazione e dall’indebolimento del welfare, via fisco o benefit, soffoca la domanda interna nazionale ed europea.
Quinto, un’area a moneta unica, segnata da ampi differenziali di competitività sistemica, può sopravvivere soltanto in due scenari o in una qualche combinazione dei due: o diventa una “transfer union”, come l’Italia con il nostro Mezzogiorno; oppure si rimuovono i differenziali di competitività attraverso una politica economica "interventista".
La Ue ha affrontato, male, l’emergenza debito pubblico. È, invece, completamente assente una seria tematizzazione dei differenziali di competitività evidenziati dai saldi della bilancia commerciale di ciascun paese membro, come da tempo ha sottolineato, prima di altri, Emiliano Brancaccio.
Allora, che fare? La risposta prima che economica è politica. Nella straordinaria transizione globale in corso, le forze progressiste europee ritengono possibile ricostruire le condizioni per innovare e rilanciare il modello sociale europeo oppure si rassegnano alla fine della civiltà del lavoro e delle democrazie delle classi medie? In altri termini, il ridimensionamento del peso demografico, economico e politico dell’Occidente e della Ue deve necessariamente implicare la regressione della civiltà del lavoro e della democrazia nell’Occidente e nella Ue, la sua punta più progredita in termini di coesione e mobilità sociale?
Siamo a un passaggio di fase, un tornante storico, un periodo breve durante il quale si segnano i destini di un lungo periodo per l’economia, la società, l’identità delle culture politiche e lo status della politica.
L’errore storico delle élite europee è stato l’abbandono del percorso di unificazione politica dopo l’avvio dell’euro. Mercato unico e banca centrale non sono sufficienti a promuovere sviluppo. È necessario un salto di scala nel governo politico.
La novità di straordinario interesse politico è che le forze socialiste europee e, mi permetto di dire, insieme a loro il Pd, hanno ritrovato autonomia culturale. Sono uscite dalla subalternità al pensiero unico. Oggi, guidano il tentativo di riscossa politica europea. L'agenda di riforme messa a punto dal Pse e dal Pd e, in larga misura condivisa dalla Confederazione europea dei sindacati, tenta di riportare la politica all'altezza dell'economia.
Per uscire dalle prospettive di regressione democratica, i socialisti europei e il Pd propongono in sintesi:
1. L'evoluzione del Fondo salva-stati, ampliato nelle funzioni il 21 luglio scorso, ma ancora inadeguato, in una Agenzia europea per il debito, dotata delle risorse sufficienti ad acquistare i titoli dei paesi aderenti ed emettere titoli di debito europei (eurobonds) garantiti in modo collettivo.
2. Un piano di ristrutturazione dei crediti sovrani e di ricapitalizzazione delle banche, gestito a livello dell’intera area europea.
3. Un piano europeo di investimenti per l’occupazione, l’ambiente e l’innovazione, alimentato dalle risorse raccolte attraverso l’emissione di eurobonds e project bonds, l’introduzione di specifici strumenti fiscali a livello europeo, tra i quali la Financial Transaction Tax e la tassazione a finalità ambientali, insomma un piano complementare all’avanzamento del mercato unico, secondo quanto previsto dal Rapporto Monti.
4. Un’inversione di marcia nella distribuzione del reddito da lavoro e della ricchezza, da realizzare sul mercato del lavoro e nel welfare e nel fisco, per contribuire a restituire dignità al lavoro potere d’acquisto e sicurezza alle famiglie.
A tali aspetti condivisi, nel dibattito tra i socialisti europei, il Pd ha proposto di aggiungere uno “standard retributivo” europeo per coinvolgere anche i paesi in surplus di bilancia commerciale (Germania, Olanda, Austria) nel processo di aggiustamento. Lo standard retributivo implica un allineamento della dinamica delle retribuzioni reali con quella della produttività, intesa in termini aggregati, generali o settoriali (e dunque oltre la tenuta del potere d'acquisto).
Insomma, i progressisti europei, oltre a Obama negli Usa, hanno rialzato la testa. Innanzitutto sul piano culturale, condizione necessaria per vincere sul terreno politico. L'agenda di policy ricordata interviene a ricostruire l'impalcatura politico-istituzionale europea e a ridefinire le condizioni per le democrazie delle classi medie, fondate sulla dignità della persona che lavora. È una sfida ambiziosa e drammatica, ma non ci sono alternative. Soltanto il salto di scala politico nell'area euro (almeno) può dare futuro al lavoro.
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